Lasciamo che la ragnatela ci guidi

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Per comprendere il mondo di Tomás Saraceno è necessario entrare in quello dei ragni e delle loro ragnatele. Grazie all’App Arachnomancy e alle letture individuali delle Arachnomancy Cards (Carte da Aracnomanzia) possiamo metterci in contatto con gli esseri non umani tanto cari all’artista, interagendo così, in modo virtuale, con la mostra Tomás Saraceno. Aria.

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Tomás Saraceno, Webs of At-tent(s)ion (detail), 2020. Installation view of Aria
Palazzo Strozzi, Florence, 2020
© Photography by Ela Bialkowska, OKNOstudio

Il fascino esercitato dagli aracnidi su Saraceno risale all’infanzia, quando nella sua casa in Italia percepiva la loro presenza, come esseri di eguale importanza. Questa presa di coscienza, di condivisione di un ambiente, porta l’artista a domandarsi «i ragni vivono a casa mia o io vivo a casa dei ragni?» E proprio come i ragni, che emettono vibrazioni attraverso la tela per connettersi con la realtà che li circonda, le opere di Saraceno agiscono come strumenti per percepire fenomeni che vanno al di là dei nostri sensi. È così che Saraceno ha trasformato Palazzo Strozzi in uno spazio di immaginazione e partecipazione per superare un’ideologia antropocentrica ed esaltare i valori di diversità, cooperazione e interconnessione. Siamo perciò tutti invitati a sintonizzarci con voci non umane che si uniscono alle nostre attraverso infinite reti di connessione e disconnessione, in una mostra che sfida il canone gerarchico dell’albero della vita, proponendo invece una rete della vita evidenziando gli intrecci tra specie e mondi.

L’esposizione di Palazzo Strozzi si snoda intorno alla serie delle Arachnomancy Cards, trentatré carte pensate dall’artista che diventano metafore dei legami tra tutto ciò che esiste in natura, vivente e non vivente. A Palazzo Strozzi ciascun ambiente della mostra è associato a una carta che diviene una sorta di araldo che collega tra loro i contenuti di ogni spazio, creando inaspettate connessioni tra elementi apparentemente lontani. Una ulteriore saletta è dedicata alla serie completa delle trentatré carte.

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Tomás Saraceno, Arachnomancy Cards, 2020. Installation view of Aria
Palazzo Strozzi, Florence, 2020
© Photography by Studio Tomás Saraceno

Nel contesto dell’attuale crisi ecologica, la cosiddetta Sesta Estinzione di Massa, invertebrati come gli aracnidi e gli insetti stanno scomparendo a ritmo accelerato con gravi conseguenze per l’ambiente e gli ecosistemi. Mentre gli invertebrati costituiscono oltre il 95 percento delle specie animali, in gran parte dei paesi sono assenti linee guida e regolamenti nazionali sui loro diritti non umani. È imperativo quindi sintonizzarci con le voci non umane che si uniscono alla nostra in reti infinite di connettività e disconnettività e riconoscere le loro voci che vibrano.

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Ragnatele a Palazzo Strozzi
© Photography by Ela Bialkowska, OKNOstudio

Due sono le modalità per poterci connettere con i ragni e consultare l’oracolo della loro ragnatela. Il primo strumento è l’App Arachnomancy (disponibile per iOS e Android), applicazione sviluppata dallo Studio Tomás Saraceno che permette di interrogare l’oracolo in qualsiasi luogo e momento, unendosi a un’iniziativa di mappatura contro l’estinzione e creando una rete di connessione tra reali ragnatele di tutto il mondo. Scaricata la App si deve fotografare una ragnatela (nelle case ce ne sono, anche se talvolta nascoste), partecipando all’esercizio collettivo di Mapping Against Extinction (“Mappatura contro l’estinzione”).

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Studio Tomás Saraceno, Arachnomancy App
© Studio Tomás Saraceno, 2019

Completando questa piccola missione è possibile sbloccare le singole carte, necessarie per consultare l’oracolo della tela del ragno, dedicandosi a forme di conoscenza che riecheggiano i metodi di divinazione praticati in diverse parti del mondo. Così presso il popolo Mambila del Camerun sono in uso carte divinatorie di foglie rigide o corteccia di rafia con ideogrammi ritagliati per la pratica del nggám, o divinazione del ragno: a un ragno che vive nel terreno sono poste delle domande, le cui risposte vengono comunicate attraverso lo spostamento di queste carte. Le capacità divinatorie del ragno derivano dal suo universo sensoriale: i sensi vibrazionali altamente sviluppati gli consentono infatti di entrare in sintonia con una sinfonia di tremori biotici e abiotici, un tipo di conoscenza che noi non siamo in grado di percepire. Ugualmente avviene con la vibrazione del cellulare. Sul sito Arachnophilia.net è possibile approfondire questi e altri temi indagati da Saraceno e dal suo studio.

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Carte divinatorie per la pratica del nggám, o divinazione del ragno

Un ulteriore modo per consultare l’oracolo è attraverso la lettura individuale delle Carte da Aracnomanzia. Ognuna delle trentatré carte porta con sé un bagaglio di significati, la cui interpretazione può aprire la visione sulla propria esperienza di vita. Il dottor Gianmarco Meucci, psicoterapeuta a orientamento gestaltico, terrà alcune letture della durata di quindici minuti, attraverso la piattaforma Zoom, giovedì 30 aprile dalle 18.00 alle 20.00 e sabato 2 maggio dalle 15.00 alle 17.00. La sessione è gratuita ed è prenotabile attraverso la piattaforma Eventbrite. I posti disponibili sono limitati. Si tratta di un’occasione unica per entrare in sintonia con la nostra realtà e con l’universo di cui facciamo parte.

Sessioni sold out

In copertina: Tomás Saraceno, Arachnomancy Cards, 2019 (dettaglio). 58a Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, Venezia, Italia. Courtesy the artist. © Studio Tomás Saraceno, 2019

Liberazioni

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di Arturo Galansino

Sono passati settantacinque anni dal 25 aprile del 1945, quando il Comitato di Liberazione Nazionale del Nord Italia, da Milano chiamò all’insurrezione armata contro la Repubblica di Salò e i nazisti. La data viene commemorata in Italia come un momento fondante, un nuovo inizio della nostra storia, dopo gli orrori della guerra e del fascismo.

Nascita di una Nazione – la mostra curata da Luca Massimo Barbero a Palazzo Strozzi nel 2018 – raccontava questa rinascita attraverso gli occhi e le pratiche di artisti che, tra sperimentazione, militanza e impegno politico, reinventarono i concetti di identità, appartenenza e collettività in contrapposizione al cupo periodo precedente quel 25 aprile.

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Renato Guttuso, La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, 1951-1955. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.
Su concessione del Ministero dei Beni e le Attività Culturali e Ambientali e del Turismo. Renato Guttuso, by SIAE 2018

In mostra si accostavano gli anni del dopoguerra al Risorgimento: un momento di rinascita in cui si gettarono le basi del boom economico che avrebbe caratterizzato il decennio successivo. Ed è in questo contesto che si inquadrava il lavoro di Guttuso, figura chiave dell’ortodossia neorealista. Il dipinto rievoca in chiave contemporanea il Risorgimento, ma con toni e retorica da quadro di storia ottocentesco, raffigurando un’importante tappa verso l’unificazione del Paese: il vittorioso scontro che nel maggio del 1860 diede il via alla liberazione della Sicilia borbonica da parte delle truppe garibaldine. Lo scrittore e pittore antifascista Carlo Levi, introducendo la sala personale di Guttuso alla Biennale di Venezia del 1952 dove la prima versione dell’opera venne esposta, descriveva il dipinto come «esempio originale di realismo popolare: un realismo mitologizzante, celebrativo, attivo, diretto all’azione, tutto intriso di movimento e di speranza».

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Giulio Turcato, Comizio, 1950, Roma, Galleria d’Arte Moderna
© Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Foto Schiavinotto Roma. Giulio Turcato, by SIAE 2018

Ma l’immediato dopoguerra è anche un periodo in cui la popolazione italiana è per molti aspetti profondamente divisa, come dimostra il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, che sancisce la fine della monarchia e la proclamazione della Repubblica Italiana. Una divisione non solo in campo politico ma anche in ambito artistico, con una frattura che a lungo separa in due fronti contrapposti – astrattisti e realisti – le forze più vive dell’arte nuova in Italia, anche all’interno della stessa sinistra italiana. In occasione della Prima mostra nazionale d’arte contemporanea a Palazzo di Re Enzo a Bologna nel 1948, esce su “Rinascita”, con il titolo Segnalazioni contro la pittura astratta una violenta condanna del leader del PCI Palmiro Togliatti che, sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, si scaglia contro le sperimentazioni astratte, definite una «raccolta di cose mostruose», «di orrori e di scemenze». Frasi e accuse dedicate a dipinti come il Comizio di Turcato, esposto alla Biennale del 1950, che usa l’astrazione geometrica per rappresentare quel momento di lotta politica.

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Luciano Fabro, L’Italia, 1968, Lugano, MASI. Deposito da collezione privata.
Courtesy MASI, Lugano

L’identità nazionale nel Sessantotto –altro momento tanto determinante quanto divisivo nella storia del nostro Paese – è tema ricorrente dell’indagine di Luciano Fabro che nella sua iconica opera L’Italia utilizza una sagoma in ferro della penisola, con incollata una carta geografica e le isole sul retro, su cui è segnata la nuova Autostrada del Sole, che era stata inaugurata nel 1964.

“Presi forme familiari che servivano significati altrettanto familiari, le feci inciampare: l’Italia, ma appesa in modo abnorme” (Luciano Fabro, 1978)

L’insieme viene capovolto e appeso al soffitto, in un voluto richiamo a uno delle immagini più truci ed più emblematiche della fine del Fascismo: i cadaveri di Benito Mussolini e dei suoi fedelissimi appesi a testa in giù, in Piazzale Loreto a Milano nel 1945, per esporli al pubblico disprezzo secondo l’uso medievale di impiccare per i piedi i traditori della Patria.

A più di cinquant’anni dalla sua creazione, questa Italia capovolta, oltre a portare a una riflessione sulla sua storia recente e sul suo presente, oggi assume anche altri significati in un momento in cui la realtà stessa ci appare capovolta. Se la Liberazione ha un significato identitario, questa festa nazionale oggi ci deve invitare ad affrontare le nuove sfide che ci aspettano all’uscita di questa crisi e ad impegnarci a contribuire alla rinascita del nostro paese.

La sfida più grande

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di Alessio Bertini

Il 22 aprile è la Giornata Mondiale della Terra, ricorrenza istituita nel 1970 che quest’anno compie cinquant’anni. Le Nazioni Unite celebrano questa giornata per promuovere a livello globale l’impegno verso gli obiettivi di eco-sostenibilità e la lotta ai cambiamenti climatici, tra i principali punti dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Anche la Fondazione Palazzo Strozzi si è impegnata nel corso degli anni a promuovere una riflessione sul rapporto tra lo sviluppo della società umana e il rispetto dell’ambiente naturale, attraverso mostre come quella in corso di Tomás Saraceno e numerose iniziative per la scuola.

È il caso di Educare al presente, che dal 2011 propone percorsi di approfondimento e laboratori tenuti nelle scuole secondarie di secondo grado di tutta la Toscana. L’iniziativa, nata grazie al sostegno di Regione Toscana, negli ultimi anni ha trovato la fondamentale partnership di Publiacqua e di Water Right Foundation. Grazie a questa collaborazione nel corso dell’anno scolastico 2019/2020, nonostante la sospensione imposta dall’emergenza sanitaria in corso, circa 700 studenti tra i 16 e i 19 anni hanno partecipato a una serie di incontri incentrati sul tema dello sviluppo sostenibile e sullo sfruttamento delle risorse naturali come l’acqua.

Il progetto affronta una questione decisiva per il nostro futuro e allo stesso tempo complessa e ricca di punti di vista e possibilità di confronti interdisciplinari. Proprio per questo, in accordo con i nostri partner e contando sulle reciproche competenze, abbiamo adottato un approccio su un doppio livello: quello tecnico-scientifico e quello artistico. Ogni percorso nelle classi inizia con l’analisi di un problema concreto, come la gestione consapevole delle risorse e dei consumi idrici di un territorio, condotta dagli esperti di Publiacqua e Water Right and Energy Foundation, fornendo un quadro sintetico ma concreto delle questioni da cui vogliamo far partire la riflessione, basato sulla discussione di casi vicini al territorio.

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Impianto sul lago artificiale di Bilancino
Fonte: Publiacqua

A questo incontro seguono altri appuntamenti, in cui la riflessione cambia prospettiva adottando lo sguardo e il linguaggio degli artisti che da sempre trovano nella natura la fonte primaria di ispirazione del proprio lavoro. L’artista Elena Mazzi ci ha aiutato a progettare un laboratorio basato sulle opere di importanti artisti e architetti, come Marjetica Potrč e Yona Friedman, che insieme agli esempi di Olafur Eliasson, Superflex, Simon Starling, hanno sollecitato lo sguardo e il pensiero dei partecipanti sull’argomento, spesso mettendo in discussione le facili retoriche che si sono prodotte nel tempo intorno al dibattito ambientalista.

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Un incontro presso l’Istituto Statale Superiore “Ernesto Balducci” di Pontassieve.
Foto: Giulia Del Vento

Con l’aiuto di questi stimoli abbiamo chiesto agli studenti di osservare, leggere e re-immaginare le loro stesse scuole per stabilire nuovi punti di equilibrio tra le esigenze della vita scolastica e quelle dell’ecosistema naturale in cui si inserisce, dando forma a ciò che abbiamo definito architetture/paesaggio, soluzioni organizzative a metà strada tra un organismo vivente e un’infrastruttura. Ogni classe ha prodotto diversi progetti basati sul ripensamento dell’uso dell’acqua nella propria scuola, stimolati dalla libertà immaginativa e dallo sguardo critico che caratterizza il lavoro degli artisti scoperti nel corso delle attività e facendo propria l’esigenza di pensare tramite la forma e il gesto creativo, l’esagerazione e il paradosso.

La perdita di un lavandino diventa l’opportunità per irrigare una fioriera, le lacrime causate da un’insufficienza possono essere riutilizzate per ottenere il sale per la mensa degli insegnanti, la pozza d’acqua che ristagna in cortile dopo un acquazzone suggerisce la possibilità di progettare una piscina da usare per il tempo libero. Le idee fluiscono producendo inaspettate sinergie tra l’ottimizzazione della risorsa idrica dettata da esigenze di risparmio e uno sguardo poetico che affronta la realtà con un distacco che è solo apparente. Tutti i progetti prodotti dalle singole classi sono stati messi a sistema in un unico grande elaborato che riprogetta la scuola in una nuova relazione con la natura, in cui l’acqua ha il ruolo di protagonista.

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Un incontro presso l’Istituto Statale Superiore “Ernesto Balducci” di Pontassieve.
Foto: Giulia Del Vento

Realizzati con materiali poveri di recupero, gli elaborati sono stati tradotti dal disegnatore Nicola Giorgio in animazioni e tavole illustrate. Ogni tavola descrive una proposta di ripensamento di una struttura scolastica, la cui realizzabilità è in bilico tra il possibile e l’impossibile.

Un esempio è il progetto della 4°G dell’Istituto Benvenuto Cellini di Firenze in cui l’acqua, oltre ai lavandini, alimenta una fontana che riconfigura il cortile della scuola ma garantisce anche la crescita, più o meno controllata, di piante e arbusti capaci di impossessarsi di un water o di alcuni arredi lasciati incautamente all’aperto. Si aggiunge al quadro una struttura in fiamme sullo sfondo, immagine inquietante ispirata da degli annerimenti sospetti individuati dagli studenti sul tetto di una struttura che confina con l’edificio scolastico principale, scoperta nel corso della fase di ricerca che fa parte dell’iter dell’attività. Non ci è dato capire fino in fondo che ruolo abbia l’acqua nell’incendio, forse contribuisce in modo diverso alla distruzione dell’edificio oppure ne difende la temporanea stabilità spegnendo in parte le fiamme, ma è certo che agli occhi degli studenti la stessa acqua, insieme alle particelle di materiale carbonizzato, possa risalire nell’atmosfera grazie al calore prodotto dall’evento per poi riversarsi sotto forma di pioggia ed essere finalmente depurata dalle sue scorie, rientrando così nel suo ciclo naturale.

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La rielaborazione di Nicola Giorgio del progetto presentato dalla classe 4°G dell’Istituto Superiore Bevenuto Cellini di Firenze

Razionalità e libera immaginazione, progetto e casualità, dimensione emotiva ed esigenze di funzionalità accompagnano la riflessione creativa dei partecipanti ai percorsi di Educare al presente dedicati al rapporto tra attività umane e ambiente naturale. Durante le fasi dei diversi incontri l’analisi, l’intuizione e il progetto prendono in prestito gli stimoli e gli strumenti dell’arte aprendo a risultati e scenari di trasformazione inaspettati, come il futuro che ci attende. Abbiamo approfittato della Giornata Mondiale della Terra per raccontare questo progetto e per ricordare che la pandemia non è l’unica sfida con cui siamo chiamati a confrontarci come società globale.

In questi giorni stiamo terminando di raccogliere i report realizzati da tutte le classi che hanno potuto partecipare nel corso di questo anno scolastico e che serviranno a realizzare le tavole illustrate di cui qui proponiamo una piccola selezione. Tutti i materiali illustrati saranno raccolti a questa pagina dove è possibile trovare altre informazioni sul progetto Educare al presente e sulla collaborazione tra Palazzo Strozzi, Publiacqua e Water Right Foundation.

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La rielaborazione di Nicola Giorgio del progetto presentato dalla classe 5°I del Liceo Artistico Petrocchi di Pistoia

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La rielaborazione di Nicola Giorgio del progetto presentato dalla classe 3°DL del Liceo Pascoli di Firenze

 

In copertina: Olafur Eliasson, Green river (dettaglio), 1998, Moss, Norvegia, 1998, Fonte: olafureliasson.net

Abbracci spezzati: sacri, drammatici, sensuali

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di Ludovica Sebregondi

In questi giorni di quarantena, una delle frasi ricorrenti che esprimono una necessità insopprimibile è l’auspicio di potersi riabbracciare presto fisicamente, non solo virtualmente come imposto in questo momento. Non ci si faceva neppure caso, fino a pochi mesi fa, quando incontrandosi ci si stringeva le mani, ci si abbracciava, poi lentamente gli abbracci si sono rarefatti, persino le strette di mano, anche se il gesto era istintivo e il trattenersi frutto di una riflessione razionale.

Essere “in contatto” fisicamente era normale, ma adesso mancano profondamente queste manifestazioni di vicinanza. E si rileggono anche, alla luce del momento attuale, le opere d’arte che hanno tramandato quella vicinanza fisica, ciascuna differente dall’altra e improntata a differenti stati emotivi: sacri, drammatici, sensuali.

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Bill Viola, The Greeting, 1995, Courtesy Bill Viola Studio

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Pontormo, Visitazione, 1528-1529 circa, Carmignano, Pieve di San Michele Arcangelo, Foto Antonio Quattrone

Nella mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico del 2017 era stato creato uno straordinario dialogo tra antico e contemporaneo attraverso il confronto delle opere dell’artista americano con capolavori di quei maestri del passato, che sono stati per lui fonte di ispirazione, segnando l’evoluzione del suo linguaggio. Esplorando spiritualità, esperienza e percezione Viola indaga l’umanità: persone, corpi, volti sono i protagonisti delle sue opere, caratterizzate da uno stile poetico e fortemente simbolico. Ma non si tratta di una riproposizione, bensì della rilettura; le donne che nella Visitazione di Pontormo sono unite in una sorta di abbraccio danzante, che ricorda quello delle Grazie, sono tre: Elisabetta a destra e Maria a sinistra poste di profilo, e al centro l’alter ego di Elisabetta vista di fronte. La quarta a sinistra in rosa è leggermente scostata e non sembra far compiutamente parte di quell’incontro. Ed è questa una delle intuizioni di Viola che riduce a tre le figure e si concentra sulla relazione che intercorre tra loro, sulle diverse emozioni, facendo percepire con l’estremo rallentamento ogni particolare e rendendo a suo volta pittorico ogni fotogramma, riferendosi alla grande tradizione artistica occidentale. Una scena di pochi secondi viene dilatata attraverso un rallentamento estremo: ciò che interessa all’artista è la rappresentazione di un momento preciso, semplice e quotidiano, quello dell’incontro fra tre donne, all’interno del quale mostrare le complesse dinamiche interiori e sociali di un fatto così ordinario.

Innumerevoli sono le Madonne che abbracciano Gesù bambino, nel gesto più umano e naturale, di una madre che tiene stretto il proprio figlio piccolo, venate dalla malinconia di chi premonisce il futuro, e altrettanto numerose le immagini della Passione, in cui Maria stringe con dolore il corpo di Cristo morto.

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Bill Viola, Emergence, 2002, Courtesy Bill Viola Studio

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Masolino da Panicale, Cristo in pietà, 1424, Empoli, Museo della Collegiata di Sant’Andrea, Foto Antonio Quattrone

Così nel video Emergence, Bill Viola cita Masolino, nonostante altre suggestioni illustri, dai sarcofaghi romani fino alla Morte di Marat di Jacques-Louis David, passando per la Pala Baglioni di Raffaello, ma l’ispirazione iniziale l’artista l’ebbe da una foto di cronaca, in cui due donne sollevavano da un pozzo il cadavere di un uomo. Viola si ricordò dell’opera di Masolino e ne nacque una produzione con attori e macchine sceniche, dove la forma di un sepolcro rinascimentale si fonde con quella di un pozzo e la presenza dell’acqua porta un simbolo di vita in quell’immagine di morte, alludendo cristianamente alla Resurrezione.

Altri contatti, erotici, persino incestuosi si contrappongono a queste immagini: nella mostra Il Cinquecento a Firenze. Tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna (2017-2018) si insisteva sulla capacità da parte degli stessi artisti nell’affrontare con grande libertà espressiva temi sacri e altri profani di carattere sensuale, tra lussuria e devozione. Così, ad esempio Alessandro Allori (Firenze 1535-1607), capace di esplorare temi religiosi con intima profondità, mostra in Venere e Amore madre e figlio impegnati in una scaramuccia per il possesso di un arco, interpretando il soggetto in chiave erotica e sensuale e restituendo un momento d’intimità, di contatto fisico tra le due figure.

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Alessandro Allori, Venere e Amore, 1575-1580 circa, Montpellier Méditerranée Métropole, Musée Fabre, inv. 887.3.1

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Vincenzo Danti, Leda e il cigno, 1570, marmo, Londra, Victoria and Albert Museum. Purchased by the John Webb Trust, A.100-1937

Si spinge oltre Vincenzo Danti (Perugia 1530-1576) nel riproporre il tema di Leda e del suo abbraccio con Giove trasformato in cigno, che porterà poi al loro amplesso. L’arte fiorentina del secondo Cinquecento è infatti quella che ha esplorato, in modi discordanti, il repertorio mitologico e allegorico, presentando figure – disposte in eleganti e complesse composizioni, dalle pose contrapposte – in cui i riferimenti eruditi si combinano a una evidente sensualità.

Uomini, albicocchi e mucche

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di Stefano Mancuso

Scienziato di prestigio mondiale, direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (LINV), Stefano Mancuso partecipa con un suo personale contributo al progetto IN CONTATTO dopo che nel 2018 aveva collaborato con l’artista Carsten Höller per il progetto The Florence Experiment a Palazzo Strozzi. Celebre per la sua riflessione sulle capacità cognitive delle piante, Mancuso ci parla di concetti come intelligenza, riproduzione, estinzione degli esseri viventi, in una riflessione che provocatoriamente porta a chiederci: siamo davvero sicuri della superiorità dell’uomo rispetto alle altre specie? “Un albicocco non può fare molto per estinguersi e nemmeno una mucca. Al contrario il genere umano produce sempre nuove possibilità di causare la propria estinzione”.

La vita è un processo cognitivo.
Non è possibile immaginare vita senza cognizione: come si può infatti pensare che un essere vivente non sia in grado di risolvere problemi, che non sia capace di essere “intelligente”? Per sopravvivere, il più semplice degli organismi deve poter risolvere problemi in ogni momento della sua esistenza. In contrasto a questa ovvia considerazione, l’uomo ha sempre ritenuto di essere l’unico, o uno dei pochi, essere intelligente. Senza dubbio il più intelligente e con poco o nulla da compartire con il resto della vita. Per corroborare questa rappresentazione abbiamo immaginato le nostre caratteristiche come uniche. La fonte principale della nostra supposta superiorità è, ovviamente, da ricercare nel nostro grande cervello e nella sua grande capacità logica che ci permette di fare cose che gli altri esseri viventi non sono in grado di fare: scriviamo, dipingiamo, elaboriamo teorie, componiamo sinfonie. Ma questa abilità ci differenzia davvero dagli altri esseri viventi? E, soprattutto, ci pone in una condizione di superiorità rispetto agli altri esseri viventi?

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Foto Alessandro Moggi

L’uomo ha sempre cercato di definire concetti come intelligenza, mente, cognizione in maniera tale da limitarli a sé stesso. Per farlo ha elaborato nozioni sempre più stringenti di che cosa fossero l’intelligenza e la cognizione.
Ma i risultati non sono stati quelli sperati. L’intelligenza è la capacità di utilizzare strumenti? Sono tanti gli animali che utilizzano strumenti. L’intelligenza riguarda la capacità di avere un pensiero astratto? Molti primati, e non solo loro, sono capaci di elaborare concetti astratti.
L’intelligenza deve essere studiata come un vero e proprio principio biologico: qualcosa di molto simile al modo in cui guardiamo alla riproduzione. La capacità di riprodursi appartiene a ogni essere vivente. La vita si riproduce, la vita crea sé stessa; la riproduzione è un principio fondamentale della vita. A chi mai verrebbe in mente di affermare che soltanto noi uomini ci riproduciamo? Certo, esistono sistemi diversi e molto complessi: noi uomini ci riproduciamo seguendo delle regole piuttosto complesse; le piante hanno sistemi riproduttivi estremamente originali; i funghi, gli insetti, i batteri si riproducono in maniera talmente differente che questi fenomeni sono difficilmente assimilabili gli uni agli altri. Eppure, tutti hanno in comune lo stesso risultato: la riproduzione della vita. E, in effetti, la riproduzione è definita nella maniera più ampia possibile: la capacità di moltiplicarsi. Senza considerarne le specificità. Le particolarità umane non sono significative rispetto al modo in cui si riproducono le altre forme di vita. Nella stessa maniera dovremmo guardare all’intelligenza, considerandola come una proprietà fondamentale della vita che deve essere definita nella maniera più ampia e inclusiva possibile. Ad esempio, riferendoci ad essa come alla capacità di risolvere problemi e quindi come una caratteristica comune a tutti gli esseri viventi.

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Carsten Höller e Stefano Mancuso, The Florence Experiment, 2018
Foto Alessandro Moggi

A questo punto bisogna chiedersi da cosa ci derivi questa idea di superiorità. Come mai noi ci riteniamo di una categoria diversa rispetto agli altri esseri viventi e superiori a essi? Sono pressoché certo che ciascuno di noi pensa di essere migliore di una mucca, un albicocco, un verme o un batterio; chi dice il contrario sarebbe un bugiardo. Scrive Darwin: l’evoluzione premia il più adatto. Si tratta di una legge alla quale non possiamo sottrarci. Una legge che ha la stessa validità della gravitazione universale. Ma perché Darwin non usa la parola “migliore” al posto di “adatto”? Perché il termine “migliore”, nel contesto della vita, non ha alcun senso. “Migliore” rispetto a cosa? Essere “migliori” ha senso soltanto se esiste un obiettivo. Facciamo un esempio: se l’obiettivo è saltare più in alto, chi salta 2,10 metri è meglio di chi ne salta solo 2,00. Tuttavia, l’aspetto essenziale della vita è che l’obiettivo finale è la capacità di sopravvivere e propagare la propria specie. A questo punto che abbiamo le idee un po’ più chiare chiediamoci se l’essere umano, con la sua particolare intelligenza e grazie al suo grosso cervello, che permette l’elaborazione di teorie, sinfonie, sonetti ecc., sia più o meno adatto delle altre specie a sopravvivere. Se si adotta questa più corretta prospettiva è inevitabile cambiare idea sul fatto di “essere migliori”. Si stima, infatti, che la vita media di una specie sia di cinque milioni di anni. Ci sono poi specie che sono anche molto più longeve: le conifere, le felci, i muschi, ma anche i coccodrilli, tutte specie apparse decine di milioni di anni fa e ancora esistenti. Tuttavia accontentiamoci di guardare alla durata media della vita di una specie: cinque milioni di anni. L’Homo sapiens è apparso circa trecentomila anni fa. Dovremmo sopravvivere altri quattro milioni e settecentomila anni per essere semplicemente in media con le altre specie. E dovremmo superare questo limite per dimostrare in termini darwiniani che il nostro grande cervello – l’organo di cui siamo così orgogliosi – sia un reale vantaggio evolutivo.

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Foto Alessandro Moggi

Immagino che una volta considerate le possibilità che la nostra specie sopravviva altri quattro milioni e settecentomila anni, il numero di persone inclini a sentirsi superiori all’albicocco diminuisca molto. Eppure, è questo il senso dell’evoluzione. Un albicocco non può fare molto per estinguersi e nemmeno una mucca. Tutte e due queste specie si estingueranno, come tante altre, soltanto in conseguenza di modificazioni dell’ambiente talmente enormi da non permettere più la loro sopravvivenza. Si tratta, per fortuna, di eventi catastrofici che avvengono, ma con cadenza di milioni di anni. Al contrario il genere umano produce senza soluzione di continuità, come in una catena di montaggio, sempre nuove possibilità di causare la propria estinzione. In ogni caso, se ci estingueremo prima dei prossimi quattro milioni e settecentomila anni, avremo dimostrato che possedere un cervello così sviluppato non era un vantaggio. Vedremo.

Fuori da dentro: relazioni e connessioni durante l’isolamento

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di Irene Balzani

L’arte vive di relazioni e ogni artista sceglie come entrare in connessione con chi osserverà l’opera. Lo fa Tomás Saraceno, ad esempio, quando ci “intrappola” in installazioni che coinvolgono i sensi e rende evidenti quei fili sottili che ci legano agli altri esseri che insieme a noi popolano la terra. Proprio in questi giorni stiamo sperimentando quanto sia difficile quando quei fili si interrompono e quando uscire e frequentare altre persone non fa più parte della nostra quotidianità, che si spende principalmente all’interno delle nostre stanze.

Nel nostro lavoro a Palazzo Strozzi riflettiamo spesso sui concetti di “apertura” e “accessibilità”, consapevoli della complessità di questi termini, cercando di fare in modo che le mostre siano accoglienti per il maggior numero possibile di persone. Nel corso degli anni, sempre espandendo la sperimentazione e il confronto con approcci diversi, sono nati infatti numerosi progetti di accessibilità, dedicati all’inclusione di persone a rischio di esclusione sociale con le quali, anche in questo periodo di isolamento, cerchiamo di mantenere vivi i fili delle relazioni anche a distanza con proposte e contatti diretti. Sono le ragazze e i ragazzi con disturbi dello spettro autistico del progetto Sfumature, sono le persone con Parkinson dell’iniziativa Corpo libero, sono i tanti partecipanti all’iniziativa Connessioni, dedicata all’accessibilità delle persone con disabilità intellettiva e disagio psichico.

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A più voci durante la mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico (10 marzo – 23 luglio 2017)
Foto: Simone Mastrelli

Il primo progetto di accessibilità sviluppato dalla Fondazione Palazzo Strozzi è stato A più voci, dedicato alle persone che vivono con l’Alzheimer e a chi si prende cura di loro (familiari o carer professionali). Nel 2017, in occasione della mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico, abbiamo riflettuto sul significato di “stare chiusi” e “uscire fuori” insieme all’artista Cristina Pancini con il progetto Caterina, che partiva dall’osservazione di due opere esposte a Palazzo Strozzi: l’installazione video Catherine’s Room di Bill Viola e la predella della tavola trecentesca di Andrea di Bartolo con Caterina da Siena fra beate domenicane entrambe incentrate sul tema della reclusione e della relazione col mondo esterno.

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Alcuni momenti del progetto Caterina
Foto: Simone Mastrelli

Il progetto Caterina è nato dalla riflessione sulle possibilità che le persone con Alzheimer hanno di vivere la propria relazione con il mondo. Con il progredire del viaggio nella demenza la mente diventa infatti gradualmente uno spazio sconosciuto, non è più una stanza ordinata e sicura. Parallelamente il mondo all’esterno risulta sempre più incomprensibile e uscire diviene sempre più difficile. La relazione con gli altri può essere fonte di rassicurazione, stupore o minaccia, sempre meno di reciproca identificazione. Eppure abbiamo bisogno degli altri, del mondo che scorre fuori da noi stessi e questi giorni di isolamento ce lo stanno ricordando con forza. Allo stesso tempo “rimanere chiusi” non è soltanto una condizione fisica, è anche un’attitudine che può spingerci a sostare all’interno delle nostre stanze mentali. Tutti noi possiamo sentirci come Caterina/Catherine in alcuni momenti della nostra vita.

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Un momento del progetto Caterina
Foto: Simone Mastrelli

L’emergenza che stiamo vivendo ci ha catapultati in un “dentro” del quale vediamo i confini, la nostra casa è oggi il nostro spazio di azione, il nostro orizzonte quotidiano. Nel corso del progetto con Cristina Pancini una sala di Palazzo Strozzi si era trasformata nel territorio di un viaggio, un cammino di scoperta degli angoli, dei soffitti, degli oggetti e di tutto quello che abita un luogo, compresi noi stessi. Era un viaggio a coppie, ogni anziano con il proprio carer, un itinerario fatto di racconti e di ascolto, un percorso di conoscenza che potremmo compiere anche oggi per riscoprire le nostre case: osservare una stanza per trovarne gli infiniti panorami, guardare fuori dalla finestra e raccontare quello che si vede o quello che si immagina possa esserci.

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La pubblicazione Caterina
Foto: Martino Margheri

Il progetto Caterina si concretizzava in una richiesta specifica rivolta ai partecipanti: cosa si può dire a una persona che per molto tempo è stata “chiusa”? Cosa vale la pena guardare o fare dopo un lungo periodo di separazione dal mondo? “Lo chiedo a voi perché so che avete molta più esperienza di me” recitava la lettera che accompagnava i taccuini sui quali ognuno poteva lasciare il proprio consiglio.
Ecco alcuni esempi di risposte: “trova una buona sorella”, “annusa il profumo di una rosa”, “non perdere mai di vista il cielo e il mare”, “mangiare un bel gelato perché è bene e buono. Mangialo per strada”, “le consiglio di rivolgersi alla persona che più le piace e guardarla con amore”, “andare, via, muoversi, senza fermarsi”.
Consigli preziosi che sono stati raccolti, insieme al racconto di tutto il progetto, in una pubblicazione edita da Boîte Editions e disponibile on line sul sito di Palazzo Strozzi.

L’arte a casa: speciali attività per bambini, ragazzi e famiglie

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A Palazzo Strozzi è centrale il coinvolgimento attivo dei nostri pubblici attraverso attività e progetti legati alle opere d’arte che esponiamo. In questo momento particolare dobbiamo però rimanere a casa per proteggere noi stessi e gli altri e non è possibile sfruttare quel rapporto diretto con il lavoro degli artisti presentato in occasione delle nostre mostre. Per questo proponiamo L’ARTE A CASA, una serie di proposte e iniziative per bambini, ragazzi e famiglie attraverso attività originali da svolgere a casa in autonomia, con materiali facili da trovare.

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Foto Giulia Del Vento

Le mostre di Palazzo Strozzi sono sempre accompagnate da un Kit Famiglie, uno strumento pensato per condividere l’esperienza della visita in mostra in modo divertente e creativo. Per il progetto IN CONTATTO abbiamo ideato una speciale versione del Kit: un percorso di attività, ispirate alla mostra Tomás Saraceno. Aria, che possono essere svolte a casa da bambini e adulti insieme. Le opere di Saraceno fanno riflettere sul futuro e sulla coesistenza, due concetti che ci sembrano ancora più importanti in un momento come questo per ripensare al mondo che ci circonda e al nostro rapporto con gli altri esseri che lo popolano.
Il Kit contiene cinque proposte, da fare tutte d’un fiato o un po’ per volta, magari una per giorno.

Scarica il Kit

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Foto Giulia Del Vento

In queste settimane anche l’attività delle scuole è cambiata radicalmente e con questa le nostre proposte per alunni, studenti e insegnanti. Abbiamo sviluppato quattro attività, pensate inizialmente per le classi, e poi adattate per essere svolte a casa in autonomia o in compagnia della propria famiglia. Le attività sono uno strumento indirizzato agli insegnanti di ogni grado scolastico e propongono delle esperienze ispirate da una riflessione sul futuro e sul concetto di coesistenza, entrambi fortemente ispirati dalle opere di Tomás Saraceno. I materiali con le indicazioni per svolgerli sono tuttavia una risorsa anche per quei genitori che vogliono intraprendere in questo periodo di isolamento un rapporto attivo di riflessione, divertimento e condivisione.

Ecco i link per scaricarli:

Il filo che lega tutti noi (scuola dell’infanzia e primi anni della scuola primaria, 4-8 anni)

La forma del futuro (ultimi anni della scuola primaria, 9-11 anni)

Disegno cosmico (scuola secondaria di primo grado)

L’oracolo (scuola secondaria di secondo grado)

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Foto Giulia Del Vento

Being Together, stare insieme

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di Riccardo Lami

Parlare di famiglia significa affrontare un argomento personale e intimo nella vita di ogni individuo, un tema a cui chiunque è legato secondo specifiche esperienze di rapporti e contesti. Come affrontato nella mostra Questioni di famiglia tenutasi a Palazzo Strozzi nel 2014, riflettere su come gli artisti trattano questo tema non comporta tanto domandarsi cosa sia la famiglia ai loro occhi: significa bensì investigare come essa svolga, oggi più che mai, un ruolo fondamentale nella vita di ognuno.

Il titolo della serie fotografica di John Clang Being Together (“Stare insieme”, 2010-2014) è un’espressione che risuona come quasi fuori luogo in questi giorni segnati da termini come isolamento, quarantena, distanziamento. Allo stesso tempo questa espressione sembra rispondere a una nostra urgenza profonda, mai come ora attuale: non essere soli, far parte di una “famiglia”, sia essa quella di origine sia quella che abbiamo scelto.

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John Clang, Being Together (Family), 2010. Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

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John Clang, Yeo family (New York, Sengkang), 2010, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

La serie di Clang è costituita da oltre quaranta ritratti di famiglie i cui membri sono fisicamente separati tra loro, lontani a volte migliaia di chilometri. In ogni fotografia, attraverso l’utilizzo di una webcam proiettata in scala 1:1 su una parete, alcune persone sono in collegamento con il luogo in cui si trovano uno o più membri della loro famiglia. Tutte le fotografie sono scattate tramite collegamenti internet in diretta, come in una normale videochiamata, e tutti gli ambienti ritratti sono le reali abitazioni delle persone che vivono lontane dalle proprie famiglie. Sono soggiorni o camere da letto, stanze popolate di oggetti che esprimono la vita quotidiana. Ogni ritratto crea una sorta di “riunione di famiglia” nel non-luogo dell’immagine fotografica, facendo emergere una ricerca di identità e appartenenza ma anche, al contrario, un profondo senso di estraneità e alienazione.

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John Clang, Goh family (Bellevue, Bedok), 2011, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

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John Clang, Lim family (London, Upper Serangoon), 2012, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

Cruciale nel ritratto di famiglia è la tensione tra dimensione pubblica e privata, un elemento che sta alla base del lavoro dell’artista israeliano Guy Ben-Ner. Nel video Soundtrack (2013) Ben-Ner, i propri figli e alcuni amici creano una sequenza di immagini che vengono sovrapposte a una parte del sonoro del film hollywoodiano La guerra dei mondi. L’invasione aliena del film di Spielberg diviene la colonna sonora per una serie di improbabili eventi domestici. La forza dell’opera sta nella sua capacità di creare un cortocircuito tra realtà e immaginazione in cui la figura della famiglia diviene un luogo ambiguo, sicuro e pericoloso allo stesso tempo, fulcro della ironica follia che domina tutto lo svolgimento del video.

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Guy Ben-Ner, Soundtrack, 2013
Courtesy l’artista e Pinksummer, Genova

Fin dagli anni Ottanta, in parallelo alla sua produzione su altri temi, il fotografo tedesco Thomas Struth ha lavorato alla serie Familienleben  (“Vita familiare”), serie di ritratti nati da incontri specifici con famiglie di amici, colleghi o conoscenti colti nei rispettivi spazi domestici. Tipico di tutto il lavoro di Struth è il forte controllo formale che qui esalta la messa a fuoco di ogni singolo dettaglio: gli sguardi e le espressioni dei soggetti, il loro abbigliamento, lo spazio. Ciascuna opera diviene una sorta di lente di ingrandimento tramite cui far emergere la specificità ma anche il valore esemplare di ogni famiglia. Ai soggetti è richiesto di guardare direttamente in camera con il massimo di immobilità e concentrazione. «Niente bambini o bambine sorridenti, niente madri o padri allegri. Quello che mi interessa veramente è dare al pubblico un posto da osservare che sia un po’ incerto e, al tempo stesso, un po’ ambiguo».

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Thomas Struth, The Falletti Family, Florence, 2005
De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

Ogni immagine presenta volti e contesti particolari, ma diviene anche modello per la chiara costruzione di ruoli, gerarchie, dinamiche. Citando quanto scrive Alois Riegl sul ritratto di gruppo olandese nel Seicento: «[Il ritratto di famiglia] non è né un’estensione del ritratto singolo né meccanica composizione di ritratti singoli in un quadro: esso è molto di più, la rappresentazione di una corporazione». Il singolo individuo rappresentato è definito dalla relazione con gli altri: essere il padre o la madre di, la figlia o il figlio di, e via dicendo. Parallelamente, chi osserva un ritratto di famiglia sembra quasi invitato a decodificare relazioni e parentele in funzione della propria realtà, ricollegando quelle immagini alla propria vita, ai propri legami, alla propria famiglia. A differenza di ritratti individuali o di gruppo in cui i soggetti rappresentati sono esaltati nelle loro caratteristiche uniche, il ritratto di famiglia non crea la rappresentazione di una realtà lontana o distaccata, bensì comune e, appunto, familiare.

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Thomas Struth, Untitled (New York Family 1), New York, 2001, De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

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Thomas Struth, The Richter Family 2, Cologne, 2002, De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

L’idea del ritratto di famiglia trova nelle opere di Nan Goldin una contrapposta rielaborazione. Celebre per un’impronta diaristica e fortemente realistica, il suo lavoro è sempre espressione di un legame inestricabile con la propria biografia. Nelle sue opere, la famiglia appare come il risultato un’esigenza esistenziale: «stare raggruppati insieme, basato sul senso di incompletezza del singolo individuo». La fotografia diviene uno strumento relazionale e la sua intera carriera diviene un viaggio per immagini di incontri e connessioni: «Non ho mai creduto che un solo ritratto possa determinare un soggetto, ma credo in una pluralità di immagini che testimoniano la complessità di una vita». Un forte senso di spontaneità si unisce a un rigoroso controllo formale che risulta evidente nell’uso della messa a fuoco, nella costruzione di piani prospettici ribaltati, nell’accurata composizione di luci e linee.

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Nan Goldin, Guido with his mother, grandmother and shadow, Turin, 1999, Guido Costa Projects & Matthews Marks Gallery

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Nan Goldin, My parents kissing on their bed, Salem, MA, 2004, Courtesy l’artista

In alcune immagini Nan Goldin crea un confronto generazionale all’interno di uno stesso gruppo familiare, in altre invece ritrae tabù come la sessualità dei genitori. Come lei stessa afferma: «Non credo che un solo ritratto possa esprimere ciò che una persona è». Le sue opere non hanno come scopo l’attestazione dell’identità di un soggetto, bensì l’affermazione di uno sguardo che testimonia una relazione umana, trasformandola in un ricordo che sopravviva al passare del tempo.

 

In copertina: John Clang, Tye family (Paris, Tanglin), 2012, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

Jeff Koons: Italy you can do this!

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“Italy, you can do this”, Italia ce la puoi fare: con queste parole di incoraggiamento si conclude l’esclusivo video messaggio di Jeff Koons nell’ambito del progetto IN CONTATTO. Protagonista della mostra in programma a Palazzo Strozzi nell’autunno 2020, l’artista americano sottolinea la gravità dell’emergenza legata al Coronavirus ma esorta alla fiducia, rimarcando la forza del popolo italiano e lo straordinario valore del contributo culturale dell’Italia al mondo come strumenti per poter affrontare questa crisi e porsi come guida di una nuova “strada per il futuro”.

L’Italia sta attraversando un momento davvero difficile, ma voi italiani avete una forza straordinaria. Siete in grado di affrontare il coronavirus e alla fine sarete in grado di sconfiggerlo. L’Italia è un paese straordinario. Come popolo avete affrontato tanti momenti difficili e sconfiggerete il virus. Culturalmente, tutto il mondo è davvero grato per tutto ciò che ci avete dato. Palazzo Strozzi e tutte le altre meravigliose istituzioni italiane saranno in grado di dare all’umanità una luce, una direzione in cui saremo in grado di trovare la nostra strada per il futuro.
Quindi, grazie Italia per tutto il vostro contributo culturale.
Palazzo Strozzi, grazie. Italia puoi farcela!

In programma a Palazzo Strozzi per l’autunno 2020 è Jeff Koons. Shine, una grande mostra dedicata all’artista americano, la sua più importante mai realizzata in Italia. Sviluppata in rapporto diretto con Koons e a cura di Arturo Galansino e Joachim Pissarro, l’esposizione accoglierà a Firenze alcune tra le sue opere più celebri, che dalla fine degli anni Settanta lo hanno imposto come una delle figure più importanti dell’arte globale, interprete per eccellenza delle contraddizioni e delle ambiguità del mondo contemporaneo.

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Jeff Koons, Rabbit, 1986, Collection Museum of Contemporary Art Chicago
Photo by Nathan Keay, © MCA Chicago, © Jeff Koons

Autore di opere che sono entrate nell’immaginario collettivo grazie alla loro capacità unica di unire cultura alta e popolare, dai colti riferimenti alla storia dell’arte alle citazioni del mondo della pubblicità e del consumismo, Jeff Koons trova nell’idea di “lucentezza” (shine) una delle principali caratteristiche della sua arte. Questo concetto va oltre una mera idea di decorazione o abbellimento e diviene la materia stessa dell’arte di Koons, unendo insieme splendore e bagliore, preziosità e banalità, essere e apparire: un gioco di ambiguità che caratterizza il lavoro di Koons nel mettere in discussione il nostro rapporto con la realtà quotidiana e il concetto stesso di opera d’arte.

Il cielo in una stanza

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di Ludovica Sebregondi

Se in questo periodo la casa può venir percepita come luogo in cui emergenze contingenti ci costringono a restare, la reclusione può invece essere anche scelta di vita. Lo è stata per secoli, basti pensare ai romiti che si chiudevano in spazi angusti, o che addirittura vi si facevano murare, o a monaci e frati che nella superficie limitata delle celle ricercavano e trovavano un ambiente per meditare e pregare. Di questi spazi gli artisti del passato e di oggi hanno dato riletture e interpretazioni, spesso riconducendole a nitide “scatole prospettiche”, in cui l’individualità umana è esaltata in una riflessione meditativa.

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Andrea di Bartolo, Caterina da Siena fra beate domenicane (dettaglio), 1394-1398 circa, Museo Vetrario di Murano.

Andrea di Bartolo (Siena, documentato 1389-1429), ad esempio, nella predella della tavola con Caterina da Siena fra beate domenicane, del 1394-1398 circa, conservato al Museo Vetrario di Murano, raffigura le religiose in quattro scene di vita all’interno delle celle in cui, come ha scritto Salvatore Settis, la narrazione dà alla solitudine «un significato e uno spessore che doveva indurre il devoto spettatore a identificarsi con quel visibile esempio di pietà», attraverso un «intenso rapporto col divino che impregna di sé la narrazione».

La tavola è stata esposta a Palazzo Strozzi alla mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico nel 2017, dove le opere del videoartista erano presentate in dialogo con quelle del passato che erano state per lui fonte di ispirazione, segnando l’evoluzione del suo linguaggio.

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Bill Viola, Catherine’s Room, 2001. Courtesy Bill Viola Studio.

La tavola di Andrea di Bartolo ha ispirato il polittico video Catherine’s Room (2001). Cinque video a colori, disposti orizzontalmente proprio come gli scomparti della predella, mostrano la stanza di una donna che – sempre in solitudine – si dedica a rituali quotidiani nell’arco della giornata. Ogni schermo mostra un momento diverso: mattina, pomeriggio, tramonto, sera e notte. Nella parete della stanza si apre una piccola finestra da cui si intravedono i rami di un albero che, in ogni schermo, è mostrato nelle diverse fasi del ciclo annuale, dalla fioritura primaverile alla completa caduta delle foglie. I video seguono dunque non solo un giorno, attraverso il mutare della luce, ma anche il corso dell’anno attraverso le diverse fasi vegetative e – ancora – quello della vita umana, dal risveglio a indicare la nascita, fino alla morte rappresentata dal sonno.

Riflette ancora Settis: «Nell’installazione di Bill Viola, Catherine non è la santa di quel nome, questa predella non accompagna né presuppone un’icona di culto: ma il racconto delle azioni di una donna, colta nell’intimità di una vita solitaria, comporta un certo grado di sacralizzazione del quotidiano, come suggerisce il riferimento implicito, ma forte, al formato della predella e alla tradizione religiosa e narrativa che esso implica. La fluida gestualità della protagonista viene così trasposta su un piano quasi rituale, e perciò attrae la nostra attenzione sulla sua individualità. L’io di Catherine viene espressivamente additato attraverso il linguaggio del suo corpo, presenza solitaria entro uno spazio costruito come una scena teatrale: sempre uguale, sempre diverso a seconda di come è arredato. Sola con se stessa, come lo è ognuno di noi osservatori, Catherine proprio per questo merita il nostro sguardo. La sua solitudine ci somiglia, la sua stanza è la nostra».

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Marina Abramović, The House with the Ocean View, 2002-2018
New York, Abramović LLC, Courtesy of Marina Abramović Archives e Sean Kelly, New York, MAC/2017/072. Credit: Ph. Attilio Maranzano

Quella solitudine è stata cercata e voluta anche da Marina Abramović in House with Ocean View del 2002, una performance che l’artista stessa dice essere nata «dal mio desiderio di capire se è possibile usare una semplice routine quotidiana, con regole e restrizioni, per purificare me stessa».  In tre interni sospesi l’artista ha vissuto per dodici giorni, senza mangiare né parlare, davanti al pubblico della Sean Kelly Gallery di New York. Scrive Marina in Attraversare i muri: «Era passato poco tempo dall’11 settembre: la gente era in uno stato d’animo ricettivo, e arrivarono folle di spettatori che rimasero a lungo seduti per terra, a osservare e riflettere sull’esperienza in cui erano immersi. I visitatori e io avvertivamo intensamente la presenza gli uni dell’altra. Nella stanza c’era un’energia condivisa, e il pesante silenzio era rotto solo dal ticchettio del metronomo che tenevo sul tavolo […] facevo ogni cosa – stare seduta, stare in piedi, bere, riempire il bicchiere, fare pipì, farmi la doccia – con una lentezza e una consapevolezza prossime alla trance».

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A sinistra: Andrea di Bartolo, Caterina da Siena fra beate domenicane (dettaglio), 1394-1398 circa.
Al centro: Bill Viola, Catherine’s Room (dettaglio), 2001.
A destra: Marina Abramović, The House with the Ocean View, reperformance Tiina Pauliina Lehtimaki, 4-16 dicembre 2018 Palazzo Strozzi.

La reperformance di The House with the Ocean View è stata proposta per la prima volta in Italia dalla performer Tiina Pauliina Lehtimaki dal 4 al 16 dicembre 2018 a Palazzo Strozzi. Tiina, come Marina nel 2002, ha vissuto in silenzio per dodici giorni all’interno di tre piccole stanze sospese all’interno della mostra Marina Abramović. The Cleaner. Ciascuna di queste stanze sembra rimandare alle “scatole prospettiche” della predella di Andrea di Bartolo, ma anche alle scene di Catherine’s Room di Bill Viola. La “purificazione”, lo sforzo di isolamento e la pratica ascetica messe in atto sembrano creare un rimando diretto tra le tre opere. Da tutte emerge la volontà di sacralizzare la quotidianità e ripensare, dando un nuovo valore, alle nostre azioni, anche le più banali: una riflessione sulla forza di volontà e sulla possibilità di restituire significato alle nostre vite in una nuova prospettiva.