Fuori da dentro: relazioni e connessioni durante l’isolamento

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di Irene Balzani

L’arte vive di relazioni e ogni artista sceglie come entrare in connessione con chi osserverà l’opera. Lo fa Tomás Saraceno, ad esempio, quando ci “intrappola” in installazioni che coinvolgono i sensi e rende evidenti quei fili sottili che ci legano agli altri esseri che insieme a noi popolano la terra. Proprio in questi giorni stiamo sperimentando quanto sia difficile quando quei fili si interrompono e quando uscire e frequentare altre persone non fa più parte della nostra quotidianità, che si spende principalmente all’interno delle nostre stanze.

Nel nostro lavoro a Palazzo Strozzi riflettiamo spesso sui concetti di “apertura” e “accessibilità”, consapevoli della complessità di questi termini, cercando di fare in modo che le mostre siano accoglienti per il maggior numero possibile di persone. Nel corso degli anni, sempre espandendo la sperimentazione e il confronto con approcci diversi, sono nati infatti numerosi progetti di accessibilità, dedicati all’inclusione di persone a rischio di esclusione sociale con le quali, anche in questo periodo di isolamento, cerchiamo di mantenere vivi i fili delle relazioni anche a distanza con proposte e contatti diretti. Sono le ragazze e i ragazzi con disturbi dello spettro autistico del progetto Sfumature, sono le persone con Parkinson dell’iniziativa Corpo libero, sono i tanti partecipanti all’iniziativa Connessioni, dedicata all’accessibilità delle persone con disabilità intellettiva e disagio psichico.

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A più voci durante la mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico (10 marzo – 23 luglio 2017)
Foto: Simone Mastrelli

Il primo progetto di accessibilità sviluppato dalla Fondazione Palazzo Strozzi è stato A più voci, dedicato alle persone che vivono con l’Alzheimer e a chi si prende cura di loro (familiari o carer professionali). Nel 2017, in occasione della mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico, abbiamo riflettuto sul significato di “stare chiusi” e “uscire fuori” insieme all’artista Cristina Pancini con il progetto Caterina, che partiva dall’osservazione di due opere esposte a Palazzo Strozzi: l’installazione video Catherine’s Room di Bill Viola e la predella della tavola trecentesca di Andrea di Bartolo con Caterina da Siena fra beate domenicane entrambe incentrate sul tema della reclusione e della relazione col mondo esterno.

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Alcuni momenti del progetto Caterina
Foto: Simone Mastrelli

Il progetto Caterina è nato dalla riflessione sulle possibilità che le persone con Alzheimer hanno di vivere la propria relazione con il mondo. Con il progredire del viaggio nella demenza la mente diventa infatti gradualmente uno spazio sconosciuto, non è più una stanza ordinata e sicura. Parallelamente il mondo all’esterno risulta sempre più incomprensibile e uscire diviene sempre più difficile. La relazione con gli altri può essere fonte di rassicurazione, stupore o minaccia, sempre meno di reciproca identificazione. Eppure abbiamo bisogno degli altri, del mondo che scorre fuori da noi stessi e questi giorni di isolamento ce lo stanno ricordando con forza. Allo stesso tempo “rimanere chiusi” non è soltanto una condizione fisica, è anche un’attitudine che può spingerci a sostare all’interno delle nostre stanze mentali. Tutti noi possiamo sentirci come Caterina/Catherine in alcuni momenti della nostra vita.

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Un momento del progetto Caterina
Foto: Simone Mastrelli

L’emergenza che stiamo vivendo ci ha catapultati in un “dentro” del quale vediamo i confini, la nostra casa è oggi il nostro spazio di azione, il nostro orizzonte quotidiano. Nel corso del progetto con Cristina Pancini una sala di Palazzo Strozzi si era trasformata nel territorio di un viaggio, un cammino di scoperta degli angoli, dei soffitti, degli oggetti e di tutto quello che abita un luogo, compresi noi stessi. Era un viaggio a coppie, ogni anziano con il proprio carer, un itinerario fatto di racconti e di ascolto, un percorso di conoscenza che potremmo compiere anche oggi per riscoprire le nostre case: osservare una stanza per trovarne gli infiniti panorami, guardare fuori dalla finestra e raccontare quello che si vede o quello che si immagina possa esserci.

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La pubblicazione Caterina
Foto: Martino Margheri

Il progetto Caterina si concretizzava in una richiesta specifica rivolta ai partecipanti: cosa si può dire a una persona che per molto tempo è stata “chiusa”? Cosa vale la pena guardare o fare dopo un lungo periodo di separazione dal mondo? “Lo chiedo a voi perché so che avete molta più esperienza di me” recitava la lettera che accompagnava i taccuini sui quali ognuno poteva lasciare il proprio consiglio.
Ecco alcuni esempi di risposte: “trova una buona sorella”, “annusa il profumo di una rosa”, “non perdere mai di vista il cielo e il mare”, “mangiare un bel gelato perché è bene e buono. Mangialo per strada”, “le consiglio di rivolgersi alla persona che più le piace e guardarla con amore”, “andare, via, muoversi, senza fermarsi”.
Consigli preziosi che sono stati raccolti, insieme al racconto di tutto il progetto, in una pubblicazione edita da Boîte Editions e disponibile on line sul sito di Palazzo Strozzi.

L’arte a casa: speciali attività per bambini, ragazzi e famiglie

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A Palazzo Strozzi è centrale il coinvolgimento attivo dei nostri pubblici attraverso attività e progetti legati alle opere d’arte che esponiamo. In questo momento particolare dobbiamo però rimanere a casa per proteggere noi stessi e gli altri e non è possibile sfruttare quel rapporto diretto con il lavoro degli artisti presentato in occasione delle nostre mostre. Per questo proponiamo L’ARTE A CASA, una serie di proposte e iniziative per bambini, ragazzi e famiglie attraverso attività originali da svolgere a casa in autonomia, con materiali facili da trovare.

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Foto Giulia Del Vento

Le mostre di Palazzo Strozzi sono sempre accompagnate da un Kit Famiglie, uno strumento pensato per condividere l’esperienza della visita in mostra in modo divertente e creativo. Per il progetto IN CONTATTO abbiamo ideato una speciale versione del Kit: un percorso di attività, ispirate alla mostra Tomás Saraceno. Aria, che possono essere svolte a casa da bambini e adulti insieme. Le opere di Saraceno fanno riflettere sul futuro e sulla coesistenza, due concetti che ci sembrano ancora più importanti in un momento come questo per ripensare al mondo che ci circonda e al nostro rapporto con gli altri esseri che lo popolano.
Il Kit contiene cinque proposte, da fare tutte d’un fiato o un po’ per volta, magari una per giorno.

Scarica il Kit

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Foto Giulia Del Vento

In queste settimane anche l’attività delle scuole è cambiata radicalmente e con questa le nostre proposte per alunni, studenti e insegnanti. Abbiamo sviluppato quattro attività, pensate inizialmente per le classi, e poi adattate per essere svolte a casa in autonomia o in compagnia della propria famiglia. Le attività sono uno strumento indirizzato agli insegnanti di ogni grado scolastico e propongono delle esperienze ispirate da una riflessione sul futuro e sul concetto di coesistenza, entrambi fortemente ispirati dalle opere di Tomás Saraceno. I materiali con le indicazioni per svolgerli sono tuttavia una risorsa anche per quei genitori che vogliono intraprendere in questo periodo di isolamento un rapporto attivo di riflessione, divertimento e condivisione.

Ecco i link per scaricarli:

Il filo che lega tutti noi (scuola dell’infanzia e primi anni della scuola primaria, 4-8 anni)

La forma del futuro (ultimi anni della scuola primaria, 9-11 anni)

Disegno cosmico (scuola secondaria di primo grado)

L’oracolo (scuola secondaria di secondo grado)

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Foto Giulia Del Vento

Being Together, stare insieme

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di Riccardo Lami

Parlare di famiglia significa affrontare un argomento personale e intimo nella vita di ogni individuo, un tema a cui chiunque è legato secondo specifiche esperienze di rapporti e contesti. Come affrontato nella mostra Questioni di famiglia tenutasi a Palazzo Strozzi nel 2014, riflettere su come gli artisti trattano questo tema non comporta tanto domandarsi cosa sia la famiglia ai loro occhi: significa bensì investigare come essa svolga, oggi più che mai, un ruolo fondamentale nella vita di ognuno.

Il titolo della serie fotografica di John Clang Being Together (“Stare insieme”, 2010-2014) è un’espressione che risuona come quasi fuori luogo in questi giorni segnati da termini come isolamento, quarantena, distanziamento. Allo stesso tempo questa espressione sembra rispondere a una nostra urgenza profonda, mai come ora attuale: non essere soli, far parte di una “famiglia”, sia essa quella di origine sia quella che abbiamo scelto.

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John Clang, Being Together (Family), 2010. Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

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John Clang, Yeo family (New York, Sengkang), 2010, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

La serie di Clang è costituita da oltre quaranta ritratti di famiglie i cui membri sono fisicamente separati tra loro, lontani a volte migliaia di chilometri. In ogni fotografia, attraverso l’utilizzo di una webcam proiettata in scala 1:1 su una parete, alcune persone sono in collegamento con il luogo in cui si trovano uno o più membri della loro famiglia. Tutte le fotografie sono scattate tramite collegamenti internet in diretta, come in una normale videochiamata, e tutti gli ambienti ritratti sono le reali abitazioni delle persone che vivono lontane dalle proprie famiglie. Sono soggiorni o camere da letto, stanze popolate di oggetti che esprimono la vita quotidiana. Ogni ritratto crea una sorta di “riunione di famiglia” nel non-luogo dell’immagine fotografica, facendo emergere una ricerca di identità e appartenenza ma anche, al contrario, un profondo senso di estraneità e alienazione.

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John Clang, Goh family (Bellevue, Bedok), 2011, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

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John Clang, Lim family (London, Upper Serangoon), 2012, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

Cruciale nel ritratto di famiglia è la tensione tra dimensione pubblica e privata, un elemento che sta alla base del lavoro dell’artista israeliano Guy Ben-Ner. Nel video Soundtrack (2013) Ben-Ner, i propri figli e alcuni amici creano una sequenza di immagini che vengono sovrapposte a una parte del sonoro del film hollywoodiano La guerra dei mondi. L’invasione aliena del film di Spielberg diviene la colonna sonora per una serie di improbabili eventi domestici. La forza dell’opera sta nella sua capacità di creare un cortocircuito tra realtà e immaginazione in cui la figura della famiglia diviene un luogo ambiguo, sicuro e pericoloso allo stesso tempo, fulcro della ironica follia che domina tutto lo svolgimento del video.

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Guy Ben-Ner, Soundtrack, 2013
Courtesy l’artista e Pinksummer, Genova

Fin dagli anni Ottanta, in parallelo alla sua produzione su altri temi, il fotografo tedesco Thomas Struth ha lavorato alla serie Familienleben  (“Vita familiare”), serie di ritratti nati da incontri specifici con famiglie di amici, colleghi o conoscenti colti nei rispettivi spazi domestici. Tipico di tutto il lavoro di Struth è il forte controllo formale che qui esalta la messa a fuoco di ogni singolo dettaglio: gli sguardi e le espressioni dei soggetti, il loro abbigliamento, lo spazio. Ciascuna opera diviene una sorta di lente di ingrandimento tramite cui far emergere la specificità ma anche il valore esemplare di ogni famiglia. Ai soggetti è richiesto di guardare direttamente in camera con il massimo di immobilità e concentrazione. «Niente bambini o bambine sorridenti, niente madri o padri allegri. Quello che mi interessa veramente è dare al pubblico un posto da osservare che sia un po’ incerto e, al tempo stesso, un po’ ambiguo».

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Thomas Struth, The Falletti Family, Florence, 2005
De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

Ogni immagine presenta volti e contesti particolari, ma diviene anche modello per la chiara costruzione di ruoli, gerarchie, dinamiche. Citando quanto scrive Alois Riegl sul ritratto di gruppo olandese nel Seicento: «[Il ritratto di famiglia] non è né un’estensione del ritratto singolo né meccanica composizione di ritratti singoli in un quadro: esso è molto di più, la rappresentazione di una corporazione». Il singolo individuo rappresentato è definito dalla relazione con gli altri: essere il padre o la madre di, la figlia o il figlio di, e via dicendo. Parallelamente, chi osserva un ritratto di famiglia sembra quasi invitato a decodificare relazioni e parentele in funzione della propria realtà, ricollegando quelle immagini alla propria vita, ai propri legami, alla propria famiglia. A differenza di ritratti individuali o di gruppo in cui i soggetti rappresentati sono esaltati nelle loro caratteristiche uniche, il ritratto di famiglia non crea la rappresentazione di una realtà lontana o distaccata, bensì comune e, appunto, familiare.

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Thomas Struth, Untitled (New York Family 1), New York, 2001, De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

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Thomas Struth, The Richter Family 2, Cologne, 2002, De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

L’idea del ritratto di famiglia trova nelle opere di Nan Goldin una contrapposta rielaborazione. Celebre per un’impronta diaristica e fortemente realistica, il suo lavoro è sempre espressione di un legame inestricabile con la propria biografia. Nelle sue opere, la famiglia appare come il risultato un’esigenza esistenziale: «stare raggruppati insieme, basato sul senso di incompletezza del singolo individuo». La fotografia diviene uno strumento relazionale e la sua intera carriera diviene un viaggio per immagini di incontri e connessioni: «Non ho mai creduto che un solo ritratto possa determinare un soggetto, ma credo in una pluralità di immagini che testimoniano la complessità di una vita». Un forte senso di spontaneità si unisce a un rigoroso controllo formale che risulta evidente nell’uso della messa a fuoco, nella costruzione di piani prospettici ribaltati, nell’accurata composizione di luci e linee.

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Nan Goldin, Guido with his mother, grandmother and shadow, Turin, 1999, Guido Costa Projects & Matthews Marks Gallery

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Nan Goldin, My parents kissing on their bed, Salem, MA, 2004, Courtesy l’artista

In alcune immagini Nan Goldin crea un confronto generazionale all’interno di uno stesso gruppo familiare, in altre invece ritrae tabù come la sessualità dei genitori. Come lei stessa afferma: «Non credo che un solo ritratto possa esprimere ciò che una persona è». Le sue opere non hanno come scopo l’attestazione dell’identità di un soggetto, bensì l’affermazione di uno sguardo che testimonia una relazione umana, trasformandola in un ricordo che sopravviva al passare del tempo.

 

In copertina: John Clang, Tye family (Paris, Tanglin), 2012, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

A tavola con Pontormo: ricette, inquietudini e convivialità

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di Ludovica Sebregondi

Ipocondriaco, lunatico, “al quanto selvatico e strano”, “ghiribizzoso” cioè capriccioso, “fantastico e solitario”, così ci viene descritto Jacopo Carucci, nato il 24 maggio 1494 a Pontormo (Puntormo o Puntorme), borgo prossimo a Empoli da cui ha tratto il soprannome. Secondo Vasari non “andò mai a feste, né in altri luoghi dove si ragunassero genti, per non essere stretto nella calca e fu oltre ogni credenza solitario”. Manifestava un carattere introverso anche nell’abitazione, un “casamento da uomo fantastico e soletario”, dove la camera da letto si raggiungeva per mezzo di una scala di legno che Jacopo poteva ritirare con una carrucola affinché nessuno potesse raggiungere la stanza a sua insaputa. L’edificio era posto in quella che allora si chiamava via Laura (oggi via della Colonna), e non aveva un prospetto ampio sulla strada, ma si apriva su un cortile interno dove Pontormo aveva un orticello (“comperai canne e salci per l’orto”), alberi da frutto (“la mattina posi quegli peschi”) e cercava refrigerio nella stagione calda (“domenica mattina stetti, subito levato che io fui e vestito, ne l’orto che era fresco”).

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Cucina della casa natale di Pontormo. Foto Comune di Empoli

Un uomo, dunque, che non si sarebbe trovato a disagio nella situazione che stiamo vivendo oggi al tempo della quarantena: solitario, soprattutto durante la lunghissima reclusione durante il giorno tra i tavolati di un cantiere blindato, eretto nel coro della chiesa di San Lorenzo a Firenze dal 1546 fino alla morte, avvenuta il primo gennaio 1557. Di questo ultimo periodo, dall’11 marzo 1554, è testimonianza il suo diario manoscritto che fornisce informazioni non solo sull’attività artistica di Jacopo ma anche sul suo mondo e sulla sua epoca: insieme taccuino di lavoro, memoria autobiografica e fonte fondamentale di notizie sull’alimentazione del tempo.

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Diario di Jacopo da Pontormo, 1554-1556,
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Magl. VIII, 1490, c. 67r.

Nonostante il carattere introverso, Pontormo aveva cari amici: intellettuali e artefici, operai e imprenditori e poi i suoi allievi, come il preferito, Agnolo di Cosimo detto il Bronzino. Mangiava con loro a casa e alla taverna, scegliendo agnello, “migliaci e fegategli e ’l porco”, “fegato fritto d’agnello”, “porco lesso nel vino”, “vermicegli”, “pipioni lessi”, “uno germano”, “gallina d’India”, “pollo e vitella”, “colombacci”, “pollo e lepre”, “acegia” (cioè beccaccia) e “farciglioni” (uccelli acquatici), uno “rochio di salsiccia” e tordi. Si diceva felice per dei “crespelli mirabili”, oppure seccato quando un cibo cattivo gli provocava malessere: “la sera cenai un poco di carnaccia, che mi fece poco prò”.

Quando era solo si preparava brodo di castrone o testa di capretto (lessa o fritta), “curatella”, verdure come il “cavolo buono cotto di mia mano”, ma mangiava anche pane con fichi secchi e cacio, formaggio e baccelli o ricotta. Adorava le uova, cucinate “afrettellate” “nel tegame” o “in pesce d’uovo”, come la frittata veniva chiamata a Firenze per la forma, simile a quella dell’odierna omelette, e poi uova con piselli, asparagi o carciofi. La verdura rivestiva un ruolo importante: in parte la produceva nell’orto, il resto lo comprava al mercato, ma era “companatico”, cioè accompagnava il pane, base della dieta, sua come della maggioranza della popolazione.

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Bacelli e pecorino. Photo James O’Mara/O’Mara Mc Bride

In occasione della mostra Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della “maniera”, tenutasi a Palazzo Strozzi nel 2014, Maschietto Editore ha pubblicato, con il Patrocinio della Fondazione Palazzo Strozzi, La tavola del Pontormo. Ricette di grandi chef: ingredienti senza tempo e suggestioni d’arte. Proprio in base alla considerazione che le materie prime della cucina toscana non sono cambiate in cinque secoli, è stato chiesto a diciannove famosi cuochi della regione una ricetta che avesse come base ingredienti citati da Pontormo nel Diario. Diciannove cuochi professionisti e un personaggio speciale, Padre Sisto Giacomini, bibliofilo e restauratore di libri, che ha offerto la ricetta, nella tradizione della Certosa del Galluzzo alle porte di Firenze, della Trota al bianco d’uovo con foglie di maggiorana e fiori di borragine

Eviscerare una trota, lavarla e farcirla con uno spicchio d’aglio e un rametto di rosmarino; cuocere alla brace e sfilettare. Mettere in un tegamino un po’ d’olio extra vergine Ipg toscano e unirvi il bianco dell’uovo, salare, aggiungere un po’ di foglie di maggiorana e fiori di borragine. Aggiungere i filetti della trota e cuocere finché il bianco dell’uovo si rapprende.

La preparazione voleva evocare le parole del Diario di Pontormo: “Domenica fumo adì 10 detto: desinai con Bronzino e la sera a hore 23 cenarne quello pesce grosso e parechi picholi fritti che spesi soldi 12, che v’era Attaviano; e la sera cominciò el tempo a guastarsi ch’era durato parecchi dì bello senza piovere”.

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Padre Sisto Giacomini alla mostra Pontormo e Rosso Fiorentino, davanti alla Visitazione di Pontormo (1514-1516), Photo James O’Mara/O’Mara Mc Bride

 

In copertina: Pontormo, Autoritratto, particolare della Deposizione, 1526-1528, Firenze, Chiesa di Santa Felicita, Cappella Capponi

Jeff Koons: Italy you can do this!

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“Italy, you can do this”, Italia ce la puoi fare: con queste parole di incoraggiamento si conclude l’esclusivo video messaggio di Jeff Koons nell’ambito del progetto IN CONTATTO. Protagonista della mostra in programma a Palazzo Strozzi nell’autunno 2020, l’artista americano sottolinea la gravità dell’emergenza legata al Coronavirus ma esorta alla fiducia, rimarcando la forza del popolo italiano e lo straordinario valore del contributo culturale dell’Italia al mondo come strumenti per poter affrontare questa crisi e porsi come guida di una nuova “strada per il futuro”.

L’Italia sta attraversando un momento davvero difficile, ma voi italiani avete una forza straordinaria. Siete in grado di affrontare il coronavirus e alla fine sarete in grado di sconfiggerlo. L’Italia è un paese straordinario. Come popolo avete affrontato tanti momenti difficili e sconfiggerete il virus. Culturalmente, tutto il mondo è davvero grato per tutto ciò che ci avete dato. Palazzo Strozzi e tutte le altre meravigliose istituzioni italiane saranno in grado di dare all’umanità una luce, una direzione in cui saremo in grado di trovare la nostra strada per il futuro.
Quindi, grazie Italia per tutto il vostro contributo culturale.
Palazzo Strozzi, grazie. Italia puoi farcela!

In programma a Palazzo Strozzi per l’autunno 2020 è Jeff Koons. Shine, una grande mostra dedicata all’artista americano, la sua più importante mai realizzata in Italia. Sviluppata in rapporto diretto con Koons e a cura di Arturo Galansino e Joachim Pissarro, l’esposizione accoglierà a Firenze alcune tra le sue opere più celebri, che dalla fine degli anni Settanta lo hanno imposto come una delle figure più importanti dell’arte globale, interprete per eccellenza delle contraddizioni e delle ambiguità del mondo contemporaneo.

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Jeff Koons, Rabbit, 1986, Collection Museum of Contemporary Art Chicago
Photo by Nathan Keay, © MCA Chicago, © Jeff Koons

Autore di opere che sono entrate nell’immaginario collettivo grazie alla loro capacità unica di unire cultura alta e popolare, dai colti riferimenti alla storia dell’arte alle citazioni del mondo della pubblicità e del consumismo, Jeff Koons trova nell’idea di “lucentezza” (shine) una delle principali caratteristiche della sua arte. Questo concetto va oltre una mera idea di decorazione o abbellimento e diviene la materia stessa dell’arte di Koons, unendo insieme splendore e bagliore, preziosità e banalità, essere e apparire: un gioco di ambiguità che caratterizza il lavoro di Koons nel mettere in discussione il nostro rapporto con la realtà quotidiana e il concetto stesso di opera d’arte.

Il cielo in una stanza

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di Ludovica Sebregondi

Se in questo periodo la casa può venir percepita come luogo in cui emergenze contingenti ci costringono a restare, la reclusione può invece essere anche scelta di vita. Lo è stata per secoli, basti pensare ai romiti che si chiudevano in spazi angusti, o che addirittura vi si facevano murare, o a monaci e frati che nella superficie limitata delle celle ricercavano e trovavano un ambiente per meditare e pregare. Di questi spazi gli artisti del passato e di oggi hanno dato riletture e interpretazioni, spesso riconducendole a nitide “scatole prospettiche”, in cui l’individualità umana è esaltata in una riflessione meditativa.

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Andrea di Bartolo, Caterina da Siena fra beate domenicane (dettaglio), 1394-1398 circa, Museo Vetrario di Murano.

Andrea di Bartolo (Siena, documentato 1389-1429), ad esempio, nella predella della tavola con Caterina da Siena fra beate domenicane, del 1394-1398 circa, conservato al Museo Vetrario di Murano, raffigura le religiose in quattro scene di vita all’interno delle celle in cui, come ha scritto Salvatore Settis, la narrazione dà alla solitudine «un significato e uno spessore che doveva indurre il devoto spettatore a identificarsi con quel visibile esempio di pietà», attraverso un «intenso rapporto col divino che impregna di sé la narrazione».

La tavola è stata esposta a Palazzo Strozzi alla mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico nel 2017, dove le opere del videoartista erano presentate in dialogo con quelle del passato che erano state per lui fonte di ispirazione, segnando l’evoluzione del suo linguaggio.

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Bill Viola, Catherine’s Room, 2001. Courtesy Bill Viola Studio.

La tavola di Andrea di Bartolo ha ispirato il polittico video Catherine’s Room (2001). Cinque video a colori, disposti orizzontalmente proprio come gli scomparti della predella, mostrano la stanza di una donna che – sempre in solitudine – si dedica a rituali quotidiani nell’arco della giornata. Ogni schermo mostra un momento diverso: mattina, pomeriggio, tramonto, sera e notte. Nella parete della stanza si apre una piccola finestra da cui si intravedono i rami di un albero che, in ogni schermo, è mostrato nelle diverse fasi del ciclo annuale, dalla fioritura primaverile alla completa caduta delle foglie. I video seguono dunque non solo un giorno, attraverso il mutare della luce, ma anche il corso dell’anno attraverso le diverse fasi vegetative e – ancora – quello della vita umana, dal risveglio a indicare la nascita, fino alla morte rappresentata dal sonno.

Riflette ancora Settis: «Nell’installazione di Bill Viola, Catherine non è la santa di quel nome, questa predella non accompagna né presuppone un’icona di culto: ma il racconto delle azioni di una donna, colta nell’intimità di una vita solitaria, comporta un certo grado di sacralizzazione del quotidiano, come suggerisce il riferimento implicito, ma forte, al formato della predella e alla tradizione religiosa e narrativa che esso implica. La fluida gestualità della protagonista viene così trasposta su un piano quasi rituale, e perciò attrae la nostra attenzione sulla sua individualità. L’io di Catherine viene espressivamente additato attraverso il linguaggio del suo corpo, presenza solitaria entro uno spazio costruito come una scena teatrale: sempre uguale, sempre diverso a seconda di come è arredato. Sola con se stessa, come lo è ognuno di noi osservatori, Catherine proprio per questo merita il nostro sguardo. La sua solitudine ci somiglia, la sua stanza è la nostra».

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Marina Abramović, The House with the Ocean View, 2002-2018
New York, Abramović LLC, Courtesy of Marina Abramović Archives e Sean Kelly, New York, MAC/2017/072. Credit: Ph. Attilio Maranzano

Quella solitudine è stata cercata e voluta anche da Marina Abramović in House with Ocean View del 2002, una performance che l’artista stessa dice essere nata «dal mio desiderio di capire se è possibile usare una semplice routine quotidiana, con regole e restrizioni, per purificare me stessa».  In tre interni sospesi l’artista ha vissuto per dodici giorni, senza mangiare né parlare, davanti al pubblico della Sean Kelly Gallery di New York. Scrive Marina in Attraversare i muri: «Era passato poco tempo dall’11 settembre: la gente era in uno stato d’animo ricettivo, e arrivarono folle di spettatori che rimasero a lungo seduti per terra, a osservare e riflettere sull’esperienza in cui erano immersi. I visitatori e io avvertivamo intensamente la presenza gli uni dell’altra. Nella stanza c’era un’energia condivisa, e il pesante silenzio era rotto solo dal ticchettio del metronomo che tenevo sul tavolo […] facevo ogni cosa – stare seduta, stare in piedi, bere, riempire il bicchiere, fare pipì, farmi la doccia – con una lentezza e una consapevolezza prossime alla trance».

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A sinistra: Andrea di Bartolo, Caterina da Siena fra beate domenicane (dettaglio), 1394-1398 circa.
Al centro: Bill Viola, Catherine’s Room (dettaglio), 2001.
A destra: Marina Abramović, The House with the Ocean View, reperformance Tiina Pauliina Lehtimaki, 4-16 dicembre 2018 Palazzo Strozzi.

La reperformance di The House with the Ocean View è stata proposta per la prima volta in Italia dalla performer Tiina Pauliina Lehtimaki dal 4 al 16 dicembre 2018 a Palazzo Strozzi. Tiina, come Marina nel 2002, ha vissuto in silenzio per dodici giorni all’interno di tre piccole stanze sospese all’interno della mostra Marina Abramović. The Cleaner. Ciascuna di queste stanze sembra rimandare alle “scatole prospettiche” della predella di Andrea di Bartolo, ma anche alle scene di Catherine’s Room di Bill Viola. La “purificazione”, lo sforzo di isolamento e la pratica ascetica messe in atto sembrano creare un rimando diretto tra le tre opere. Da tutte emerge la volontà di sacralizzare la quotidianità e ripensare, dando un nuovo valore, alle nostre azioni, anche le più banali: una riflessione sulla forza di volontà e sulla possibilità di restituire significato alle nostre vite in una nuova prospettiva.

Marina Abramović: il mio cuore è con voi

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Italia, ti amo. Il mio cuore è con voi”: con queste parole Marina Abramović saluta tutti gli italiani in un video esclusivo per Palazzo Strozzi, inviato come personale contribuito al progetto IN CONTATTO. L’artista serba si unisce a Ai Weiwei e Tomás Saraceno inviando un messaggio di solidarietà e incoraggiamento sottolineando come gli italiani stiano dimostrando “grande coraggio e un profondo senso di comunità e umanità” e che la crisi globale del COVID-19 rappresenti un’emergenza ormai globale che ci deve servire come occasione di ripensamento del nostro rapporto con il pianeta: “la coscienza umana deve cambiare, il nostro approccio al mondo e al pianeta deve cambiare”.

Questo è il mio messaggio per l’Italia e per gli italiani, che io amo profondamente. Sappiamo che questo è un momento di crisi e che il virus ormai è ovunque. Ma allo stesso tempo dobbiamo imparare una lezione da questi disastri. Gli italiani stanno dimostrando grande coraggio, un profondo senso di comunità e umanità. Dobbiamo combattere insieme. È qualcosa che passerà e ciò che rimarrà sarà un’esperienza davvero importante: la coscienza umana deve cambiare, il nostro approccio al mondo e al pianeta deve cambiare. Questa è la lezione che dobbiamo imparare. Italia, ti amo. Il mio cuore è con voi.

Marina Abramović rappresenta una delle personalità più celebri e influenti dell’arte contemporanea globale. Con le sue opere, in oltre 50 anni di carriera, ha rivoluzionato l’idea di performance mettendo alla prova il proprio corpo, i suoi limiti e le sue potenzialità di espressione. La mostra Marina Abramović . The Cleaner del 2018 ha rappresentato un momento unico nella storia recente di Palazzo Strozzi per la sua capacità di coinvolgimento delle persone e per riflettere su concetti come vulnerabilità, empatia e fiducia, che oggi risuonano con forza e assumono un nuovo valore di ispirazione e riflessione.

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Foto Alessandro Moggi

Vedi anche

Siamo tutti sulla stessa barca

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di Riccardo Lami e Ludovica Sebregondi

“Siamo tutti sulla stessa barca” affermava Marina Abramović sul manifesto da lei creato nel 2018 e affisso sulla facciata di Palazzo Strozzi in occasione della mostra Marina Abramovic. The Cleaner, riflettendo sul fatto che «siamo tutti sullo stesso pianeta: chi ama il mare ama la terra e chi ama la terra ama il nostro futuro». Nel 2020 questo slogan, nato in una prospettiva ambientalista, sta acquistando un significato più ampio: un messaggio di speranza e fiducia reciproca insieme alla riflessione sulla necessità di fare fronte comune in un periodo tanto difficile. In queste settimane sono state innumerevoli le citazioni che ne sono state fatte, sui social media in primo luogo. A Firenze, su un muro del popolare mercato di Sant’Ambrogio è addirittura apparso un manifesto, firmato con un’esplicita dichiarazione di derivazione, “D’après Marina Abramović”.

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A sinistra: Marina Abramović, We’re All in the Same Boat, manifesto per Barcolana 50, 2018.
A destra: Michela Carlotta Tumiati, Lima, 2020.

Riflettendo sulla propria vita, Marina ha da sempre portato alla ribalta temi cruciali della condizione umana, riuscendo a comunicare come nessun altro artista col presente, interpretandone le contraddizioni e le urgenze. Alla fiducia nella comunità, ad aprirsi agli altri, Marina è arrivata partendo dalle prime performance nelle quali metteva alla prova la propria capacità di resistenza individuale e passando attraverso le performance insieme a Ulay. E tra queste oggi ci appare con grande forza e attualità contemporanea Rest Energy (1980), una prova estrema di fiducia, in cui per quattro minuti e venti secondi la vita di Marina era nelle mani di Ulay, creando un’indimenticabile immagine di tensione, metafora del nostro rapporto con l’altro.

«Io reggevo un grosso arco e Ulay ne tendeva la corda, reggendo tra le dita la base di una freccia puntata contro il mio petto. Eravamo entrambi in uno stato di tensione costante, ciascuno tirando dalla sua parte, con il rischio che, se Ulay avesse mollato la presa, avrei potuto trovarmi con il cuore trafitto. Nel frattempo, al nostro petto era attaccato un piccolo microfono, di modo che il pubblico sentisse il battito amplificato dei nostri cuori. E questi battevano sempre più veloci» (da Attraversare i muri, trad. it. 2016).

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Ulay/Marina Abramović, Rest Energy, 1980, Amsterdam, LIMA Foundation.
Courtesy of Marina Abramović Archives e LIMA, MAC/2017/034

Col tempo il flusso di energia, lo scambio profondo che in precedenza si creava tra lei e Ulay ha incluso sempre più persone alla ricerca di una «completa vulnerabilità e apertura nei confronti del pubblico». Manifesto ne è The Artist is Present tenutasi al MoMA di New York nel 2010 in cui di fronte all’artista serba, immobile e in silenzio, si sono alternate 1675 persone che erano invitate a sedersi di fronte a lei e a fissarla per tutto il tempo che volevano. In quell’occasione Marina ha percepito l’«enorme bisogno delle persone di avere anche solo un contatto». E nel marzo 2020 le sue parole che riflettono sul rapporto con l’altro risuonano come non mai.

«Verso la fine di The Artist is Present provavo una stanchezza mentale e fisica mai sentita. Inoltre, il mio punto di vista, tutto quello che prima mi era sembrato importante – la vita quotidiana, le cose che mi piacevano e quelle che non mi piacevano – erano cambiati completamente». Come in tutto il suo percorso artistico, Marina riflette sulla privazione per rivalutare l’essenziale. L’isolamento, il silenzio, il venire meno di un rapporto diretto con l’altro ci fanno capire l’importanza di restare in contatto e di dare valore allo sguardo e alla presenza di chi ci sta davanti.

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Marina Abramović, The Artist is Present, 2010, New York, Abramović LLC.
Photo Marco Anelli. Courtesy of Marina Abramović Archives e Sean Kelly, New York, MAC/2017/071

«Siamo così alienati gli uni dagli altri? In che modo la società ci ha resi così distanti? Ci mandiamo sms senza mai incontrarci, anche se viviamo a due passi. Ecco come nasce la solitudine delle persone. Non c’è stato un secondo in cui questa sedia è rimasta vuota. I visitatori in fila dormivano fuori dal museo, aspettando per ore e ore, anche per tornare ancora. Cosa stava succedendo? Io ti guardo, ti sento, vieni fotografato e tutti gli altri ti guardano, ti scrutano e tu non sai dove guardare, se non dentro di te. E nel momento in cui sei davvero dentro te stesso, in quel preciso momento tutte le tue emozioni e le tue sensazioni affiorano e ti travolgono. Ecco perché le persone iniziano a piangere: è un’esperienza totalizzante. Ciò non avviene nell’intimo delle nostre case, perché non siamo più in contatto con noi stessi. Ma sul palco che ho creato appositamente, è successo davvero qualcosa, qualcosa di diverso, che non avevo mai fatto prima». (Marina Abramović)

Tomás Saraceno: Per un suono lento dell’aria

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Protagonista della mostra inaugurata a Palazzo Strozzi il 22 febbraio 2020, Tomás Saraceno partecipa al progetto IN CONTATTO con uno speciale videomessaggio esclusivo: la descrizione di una delle sue opere, Particular Matter(s) Jam Session, che diviene un invito a riflettere in modo nuovo su concetti come condivisione, consapevolezza e solidarietà.

“Il nostro movimento influenza la velocità con cui le particelle si muovono nell’aria. Riduciamo i nostri spostamenti per rallentare lo spostamento delle particelle e aiutare tutti a stare più al sicuro. In solidarietà di Palazzo Strozzi, l’Italia e il Mondo, muoviamoci in modo diverso per un futuro migliore” (Tomás Saraceno)

 

Ciao, sono Tomás Saraceno e vi voglio parlare di una delle opere esposte a Palazzo Strozzi.
Quest’opera si basa su un fascio di luce che illumina ciò che fluttua nell’aria. Ci sono milioni e milioni di particelle che si muovono e il loro movimento è influenzato da come ci muoviamo.
Se, per esempio, parlo molto vicino… o se muovo alcune particelle del mio maglione… potete vedere molte più particelle rilasciate nell’aria. Se invece parlo un po’ più distante queste particelle iniziano a muoversi più lentamente. Quello che ascoltereste a Palazzo Strozzi, quello che ascoltate adesso in questo video, è il suono che queste particelle producono quando si muovono. Ogni volta che mi muovo più velocemente sentirete il suono con frequenza maggiore. È questo “bip bip bip”… Se ci muoviamo più lentamente le particelle producono un suono diverso. Questo è un modo per sonorizzare il modo in cui ci muoviamo sulla Terra o il movimento delle particelle nell’aria. Questo significa che se in questo momento dobbiamo muoverci più lentamente, il suono sarebbe diverso e le particelle si muoverebbero più lentamente. Questo significa solidarietà per tutte le persone in Italia, in Europa e nel mondo. Speriamo di diventare consapevoli delle nostre azioni, di come l’aria si muove oggi e di quanto il nostro movimento possa influenzare le cose, e anche di come possiamo limitare il movimento di alcune delle particelle che oggi sono diventate così dannose per molte persone sul pianeta Terra.

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Tomás Saraceno, Particular Matter(s), 2020. Installation view of Aria, Palazzo Strozzi, Florence, 2020. © Photography by Ela Bialkowska, OKNOstudio

Artista visionario e poliedrico, la cui ricerca creativa unisce arte, scienze naturali e sociali, Tomás Saraceno (Argentina, 1973) invita a cambiare punto di vista sulla realtà e a entrare in connessione con elementi non umani come polvere, ragni o piante che diventano protagonisti delle sue installazioni e metafore del cosmo. In un percorso di opere immersive ed esperienze partecipative tra il cortile e il Piano Nobile, la mostra Tomás Saraceno. Aria esalta il contesto storico e simbolico di Palazzo Strozzi e di Firenze attraverso un profondo e originale dialogo tra Rinascimento e contemporaneità: dall’uomo al centro del mondo, all’uomo come parte di un universo in cui ricercare una nuova armonia.

Un manifesto per il futuro: Thermodynamic Constellation

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di Arturo Galansino

Nonostante la mostra Tomás Saraceno. Aria sia chiusa da giorni, è ancora aperto il cortile di Palazzo Strozzi, un luogo che negli anni è diventato uno spazio pubblico, una vera e propria piazza del centro di Firenze. Qui si trova la grande installazione che Tomás Saraceno ha realizzato appositamente per Palazzo Strozzi: Thermodynamic Constellation.

 

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Tomás Saraceno, Thermodynamic Constellation, 2020. Installation view of Aria, Palazzo Strozzi, Florence, 2020. © Photography by Studio Tomás Saraceno

 

Un manifesto per il futuro, questo è Thermodynamic Constellation. E oggi forse lo è ancora di più per chi ancora la scorge attraversando il cortile, passando vicino ai portoni di Palazzo Strozzi, oppure ne è coinvolto attraverso le innumerevoli immagini che sono state condivise sui social media. Le sfere che compongono l’installazione, legate tra loro in tensione reciproca, sono prototipi di reali palloni aerosolari in grado di fluttuare nell’atmosfera senza utilizzo di combustibili fossili. La parte superiore a specchio riflette le radiazioni solari, impedendo il surriscaldamento durante le ore diurne di volo, mentre la parte inferiore trasparente contribuisce a mantenere la temperatura all’interno dell’involucro durante il volo notturno, assorbendo il calore del pianeta che fornisce la spinta aerostatica. Alla base dell’opera non vi è solamente una ricerca artistica, ma anche uno studio scientifico dei materiali e delle leggi della fisica che dovrebbero governare questa sorta di danza delle sfere nell’aria. Tomás Saraceno, infatti, tra il 2014 e il 2015 è stato artista in residenza al Centre National d’Études Spatiales (Centro Nazionale di Studi Spaziali – CNES) in Francia, dove ha avuto l’opportunità di conoscere le caratteristiche e le qualità di specifici materiali in uso nell’industria aerospaziale.

 

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Tomás Saraceno, Thermodynamic Constellation, 2020. Installation view of Aria, Palazzo Strozzi, Florence, 2020. © Photography by Ela Bialkowska, OKNOstudio

 

L’installazione unisce un profondo messaggio etico a un’estetica emozionante. La capacità di Tomás Saraceno di dominare lo spazio ha portato alla creazione di un lavoro che reinterpreta in modo avvolgente l’architettura di Palazzo Strozzi, dialogando con uno dei più alti esempi della cultura rinascimentale. La parte specchiante delle sfere, infatti, oltre a creare un senso di comunità riflettendo la nostra immagine, ci permette di osservare con occhi nuovi la simmetrica architettura quattrocentesca del palazzo, alterata come in un’anamorfosi barocca e mutevole nelle diverse ore del giorno. Anche oggi, a distanza, le sfere diventano uno spazio di partecipazione collettivo concettuale in cui precipitano insieme visione e fisicità.

 

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Tomás Saraceno, Thermodynamic Constellation, 2020. Installation view of Aria, Palazzo Strozzi, Florence, 2020. © Photography by Ela Bialkowska, OKNOstudio

 

Le sculture volanti di Thermodynamic Constellation esplorano quali tipi di strutture sociopolitiche potrebbero nascere se potessimo navigare liberamente sui fiumi dell’atmosfera in una nuova era di armonia con l’aria e l’atmosfera: l’Aerocene. Tomás Saraceno lancia così la visione dell’Homo flotantis, una nuova generazione di essere umano nomade dell’aria, in sintonia con i ritmi planetari e atmosferici, che si lascia guidare – concettualmente e fisicamente – dall’aria.

Quest’opera, in cui tutto fluttua e si riflette, invitandoci a muoversi in maniera nuova, è un porto aperto verso il cielo. Creando un collegamento con i problemi del mondo contemporaneo, di cui le emergenze di questi giorni sono sintomi e conseguenza, Thermodynamic Constellation rappresenta una proposta, o una sfida, per un futuro diverso.

 

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Tomás Saraceno, Thermodynamic Constellation, 2020. Installation view of Aria, Palazzo Strozzi, Florence, 2020. © Photography by Studio Tomás Saraceno

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