Liberazioni

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di Arturo Galansino

Sono passati settantacinque anni dal 25 aprile del 1945, quando il Comitato di Liberazione Nazionale del Nord Italia, da Milano chiamò all’insurrezione armata contro la Repubblica di Salò e i nazisti. La data viene commemorata in Italia come un momento fondante, un nuovo inizio della nostra storia, dopo gli orrori della guerra e del fascismo.

Nascita di una Nazione – la mostra curata da Luca Massimo Barbero a Palazzo Strozzi nel 2018 – raccontava questa rinascita attraverso gli occhi e le pratiche di artisti che, tra sperimentazione, militanza e impegno politico, reinventarono i concetti di identità, appartenenza e collettività in contrapposizione al cupo periodo precedente quel 25 aprile.

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Renato Guttuso, La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, 1951-1955. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.
Su concessione del Ministero dei Beni e le Attività Culturali e Ambientali e del Turismo. Renato Guttuso, by SIAE 2018

In mostra si accostavano gli anni del dopoguerra al Risorgimento: un momento di rinascita in cui si gettarono le basi del boom economico che avrebbe caratterizzato il decennio successivo. Ed è in questo contesto che si inquadrava il lavoro di Guttuso, figura chiave dell’ortodossia neorealista. Il dipinto rievoca in chiave contemporanea il Risorgimento, ma con toni e retorica da quadro di storia ottocentesco, raffigurando un’importante tappa verso l’unificazione del Paese: il vittorioso scontro che nel maggio del 1860 diede il via alla liberazione della Sicilia borbonica da parte delle truppe garibaldine. Lo scrittore e pittore antifascista Carlo Levi, introducendo la sala personale di Guttuso alla Biennale di Venezia del 1952 dove la prima versione dell’opera venne esposta, descriveva il dipinto come «esempio originale di realismo popolare: un realismo mitologizzante, celebrativo, attivo, diretto all’azione, tutto intriso di movimento e di speranza».

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Giulio Turcato, Comizio, 1950, Roma, Galleria d’Arte Moderna
© Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Foto Schiavinotto Roma. Giulio Turcato, by SIAE 2018

Ma l’immediato dopoguerra è anche un periodo in cui la popolazione italiana è per molti aspetti profondamente divisa, come dimostra il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, che sancisce la fine della monarchia e la proclamazione della Repubblica Italiana. Una divisione non solo in campo politico ma anche in ambito artistico, con una frattura che a lungo separa in due fronti contrapposti – astrattisti e realisti – le forze più vive dell’arte nuova in Italia, anche all’interno della stessa sinistra italiana. In occasione della Prima mostra nazionale d’arte contemporanea a Palazzo di Re Enzo a Bologna nel 1948, esce su “Rinascita”, con il titolo Segnalazioni contro la pittura astratta una violenta condanna del leader del PCI Palmiro Togliatti che, sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, si scaglia contro le sperimentazioni astratte, definite una «raccolta di cose mostruose», «di orrori e di scemenze». Frasi e accuse dedicate a dipinti come il Comizio di Turcato, esposto alla Biennale del 1950, che usa l’astrazione geometrica per rappresentare quel momento di lotta politica.

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Luciano Fabro, L’Italia, 1968, Lugano, MASI. Deposito da collezione privata.
Courtesy MASI, Lugano

L’identità nazionale nel Sessantotto –altro momento tanto determinante quanto divisivo nella storia del nostro Paese – è tema ricorrente dell’indagine di Luciano Fabro che nella sua iconica opera L’Italia utilizza una sagoma in ferro della penisola, con incollata una carta geografica e le isole sul retro, su cui è segnata la nuova Autostrada del Sole, che era stata inaugurata nel 1964.

“Presi forme familiari che servivano significati altrettanto familiari, le feci inciampare: l’Italia, ma appesa in modo abnorme” (Luciano Fabro, 1978)

L’insieme viene capovolto e appeso al soffitto, in un voluto richiamo a uno delle immagini più truci ed più emblematiche della fine del Fascismo: i cadaveri di Benito Mussolini e dei suoi fedelissimi appesi a testa in giù, in Piazzale Loreto a Milano nel 1945, per esporli al pubblico disprezzo secondo l’uso medievale di impiccare per i piedi i traditori della Patria.

A più di cinquant’anni dalla sua creazione, questa Italia capovolta, oltre a portare a una riflessione sulla sua storia recente e sul suo presente, oggi assume anche altri significati in un momento in cui la realtà stessa ci appare capovolta. Se la Liberazione ha un significato identitario, questa festa nazionale oggi ci deve invitare ad affrontare le nuove sfide che ci aspettano all’uscita di questa crisi e ad impegnarci a contribuire alla rinascita del nostro paese.

La sfida più grande

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di Alessio Bertini

Il 22 aprile è la Giornata Mondiale della Terra, ricorrenza istituita nel 1970 che quest’anno compie cinquant’anni. Le Nazioni Unite celebrano questa giornata per promuovere a livello globale l’impegno verso gli obiettivi di eco-sostenibilità e la lotta ai cambiamenti climatici, tra i principali punti dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Anche la Fondazione Palazzo Strozzi si è impegnata nel corso degli anni a promuovere una riflessione sul rapporto tra lo sviluppo della società umana e il rispetto dell’ambiente naturale, attraverso mostre come quella in corso di Tomás Saraceno e numerose iniziative per la scuola.

È il caso di Educare al presente, che dal 2011 propone percorsi di approfondimento e laboratori tenuti nelle scuole secondarie di secondo grado di tutta la Toscana. L’iniziativa, nata grazie al sostegno di Regione Toscana, negli ultimi anni ha trovato la fondamentale partnership di Publiacqua e di Water Right Foundation. Grazie a questa collaborazione nel corso dell’anno scolastico 2019/2020, nonostante la sospensione imposta dall’emergenza sanitaria in corso, circa 700 studenti tra i 16 e i 19 anni hanno partecipato a una serie di incontri incentrati sul tema dello sviluppo sostenibile e sullo sfruttamento delle risorse naturali come l’acqua.

Il progetto affronta una questione decisiva per il nostro futuro e allo stesso tempo complessa e ricca di punti di vista e possibilità di confronti interdisciplinari. Proprio per questo, in accordo con i nostri partner e contando sulle reciproche competenze, abbiamo adottato un approccio su un doppio livello: quello tecnico-scientifico e quello artistico. Ogni percorso nelle classi inizia con l’analisi di un problema concreto, come la gestione consapevole delle risorse e dei consumi idrici di un territorio, condotta dagli esperti di Publiacqua e Water Right and Energy Foundation, fornendo un quadro sintetico ma concreto delle questioni da cui vogliamo far partire la riflessione, basato sulla discussione di casi vicini al territorio.

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Impianto sul lago artificiale di Bilancino
Fonte: Publiacqua

A questo incontro seguono altri appuntamenti, in cui la riflessione cambia prospettiva adottando lo sguardo e il linguaggio degli artisti che da sempre trovano nella natura la fonte primaria di ispirazione del proprio lavoro. L’artista Elena Mazzi ci ha aiutato a progettare un laboratorio basato sulle opere di importanti artisti e architetti, come Marjetica Potrč e Yona Friedman, che insieme agli esempi di Olafur Eliasson, Superflex, Simon Starling, hanno sollecitato lo sguardo e il pensiero dei partecipanti sull’argomento, spesso mettendo in discussione le facili retoriche che si sono prodotte nel tempo intorno al dibattito ambientalista.

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Un incontro presso l’Istituto Statale Superiore “Ernesto Balducci” di Pontassieve.
Foto: Giulia Del Vento

Con l’aiuto di questi stimoli abbiamo chiesto agli studenti di osservare, leggere e re-immaginare le loro stesse scuole per stabilire nuovi punti di equilibrio tra le esigenze della vita scolastica e quelle dell’ecosistema naturale in cui si inserisce, dando forma a ciò che abbiamo definito architetture/paesaggio, soluzioni organizzative a metà strada tra un organismo vivente e un’infrastruttura. Ogni classe ha prodotto diversi progetti basati sul ripensamento dell’uso dell’acqua nella propria scuola, stimolati dalla libertà immaginativa e dallo sguardo critico che caratterizza il lavoro degli artisti scoperti nel corso delle attività e facendo propria l’esigenza di pensare tramite la forma e il gesto creativo, l’esagerazione e il paradosso.

La perdita di un lavandino diventa l’opportunità per irrigare una fioriera, le lacrime causate da un’insufficienza possono essere riutilizzate per ottenere il sale per la mensa degli insegnanti, la pozza d’acqua che ristagna in cortile dopo un acquazzone suggerisce la possibilità di progettare una piscina da usare per il tempo libero. Le idee fluiscono producendo inaspettate sinergie tra l’ottimizzazione della risorsa idrica dettata da esigenze di risparmio e uno sguardo poetico che affronta la realtà con un distacco che è solo apparente. Tutti i progetti prodotti dalle singole classi sono stati messi a sistema in un unico grande elaborato che riprogetta la scuola in una nuova relazione con la natura, in cui l’acqua ha il ruolo di protagonista.

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Un incontro presso l’Istituto Statale Superiore “Ernesto Balducci” di Pontassieve.
Foto: Giulia Del Vento

Realizzati con materiali poveri di recupero, gli elaborati sono stati tradotti dal disegnatore Nicola Giorgio in animazioni e tavole illustrate. Ogni tavola descrive una proposta di ripensamento di una struttura scolastica, la cui realizzabilità è in bilico tra il possibile e l’impossibile.

Un esempio è il progetto della 4°G dell’Istituto Benvenuto Cellini di Firenze in cui l’acqua, oltre ai lavandini, alimenta una fontana che riconfigura il cortile della scuola ma garantisce anche la crescita, più o meno controllata, di piante e arbusti capaci di impossessarsi di un water o di alcuni arredi lasciati incautamente all’aperto. Si aggiunge al quadro una struttura in fiamme sullo sfondo, immagine inquietante ispirata da degli annerimenti sospetti individuati dagli studenti sul tetto di una struttura che confina con l’edificio scolastico principale, scoperta nel corso della fase di ricerca che fa parte dell’iter dell’attività. Non ci è dato capire fino in fondo che ruolo abbia l’acqua nell’incendio, forse contribuisce in modo diverso alla distruzione dell’edificio oppure ne difende la temporanea stabilità spegnendo in parte le fiamme, ma è certo che agli occhi degli studenti la stessa acqua, insieme alle particelle di materiale carbonizzato, possa risalire nell’atmosfera grazie al calore prodotto dall’evento per poi riversarsi sotto forma di pioggia ed essere finalmente depurata dalle sue scorie, rientrando così nel suo ciclo naturale.

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La rielaborazione di Nicola Giorgio del progetto presentato dalla classe 4°G dell’Istituto Superiore Bevenuto Cellini di Firenze

Razionalità e libera immaginazione, progetto e casualità, dimensione emotiva ed esigenze di funzionalità accompagnano la riflessione creativa dei partecipanti ai percorsi di Educare al presente dedicati al rapporto tra attività umane e ambiente naturale. Durante le fasi dei diversi incontri l’analisi, l’intuizione e il progetto prendono in prestito gli stimoli e gli strumenti dell’arte aprendo a risultati e scenari di trasformazione inaspettati, come il futuro che ci attende. Abbiamo approfittato della Giornata Mondiale della Terra per raccontare questo progetto e per ricordare che la pandemia non è l’unica sfida con cui siamo chiamati a confrontarci come società globale.

In questi giorni stiamo terminando di raccogliere i report realizzati da tutte le classi che hanno potuto partecipare nel corso di questo anno scolastico e che serviranno a realizzare le tavole illustrate di cui qui proponiamo una piccola selezione. Tutti i materiali illustrati saranno raccolti a questa pagina dove è possibile trovare altre informazioni sul progetto Educare al presente e sulla collaborazione tra Palazzo Strozzi, Publiacqua e Water Right Foundation.

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La rielaborazione di Nicola Giorgio del progetto presentato dalla classe 5°I del Liceo Artistico Petrocchi di Pistoia

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La rielaborazione di Nicola Giorgio del progetto presentato dalla classe 3°DL del Liceo Pascoli di Firenze

 

In copertina: Olafur Eliasson, Green river (dettaglio), 1998, Moss, Norvegia, 1998, Fonte: olafureliasson.net

Una “grande chasa”: Palazzo Strozzi

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di Ludovica Sebregondi 

Sembra difficile considerare oggi Palazzo Strozzi – sede della Fondazione Palazzo Strozzi che vi progetta e organizza esposizioni d’arte, e che accoglie anche il Gabinetto Vieusseux, l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento e la Scuola Normale Superiore, oltre al Caffè e alla Bottega Strozzi – come una casa privata, simbolo di una famiglia, espressione di una volontà di riscatto. Lo è stato, invece, per Filippo Strozzi (1428-1491), che l’ha fortemente pensato, voluto e progettato. Suo padre Matteo era stato esiliato da Firenze perché la casata si era opposta a Cosimo de’ Medici, e Filippo stesso fu esule a Napoli, dove si rivelò capace di intessere rapporti con Ferdinando d’Aragona e con il figlio Alfonso, che intercedettero a suo favore presso Piero de’ Medici, ottenendo la revoca dell’esilio. Dopo venticinque anni Filippo poté così finalmente tornare a Firenze, e il 27 di novembre 1466 scrisse alla madre per annunciarle, con felicità smorzata dall’ironia, “domenica sera, piacendo a Dio, m’arete costì. Fate che vi sia da cena altro che salsiccia, come mi mandaste a dire”.

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Ai Weiwei, Filippo Strozzi in LEGO, 2017, Firenze, Museino di Palazzo Strozzi
Courtesy of Ai Weiwei Studio

Filippo, una volta in patria, affermò «vo tuta volta pensando e disegnando, e se Iddio mi presta chonpetente vita spero fare qualche cosa di memoria», avendo in animo di innalzare la più grandiosa costruzione fiorentina, per attestare e rappresentare la potenza della famiglia e la sua rinascita. L’operazione si rivelò complessa, e Filippo dal 1473 al 1489 fu impegnato ad acquisire l’area del futuro palazzo in un punto chiave della città, all’incrocio tra le vie Tornabuoni e Strozzi; fu necessario abbattere i numerosi edifici acquistati e restringere la piazza antistante, modificando il tessuto urbano. Per essere sicuro della buona riuscita del progetto, per stabilire il momento della posa della prima pietra si affidò all’astrologo Benedetto Biliotti, che consigliò l’alba del 6 agosto 1489, oltre 530 anni fa. Quella mattina, scrive Filippo nei ricordi “uscendo il sole del monte, col nome di Dio e di buon principio per me e per tutti mia discendenti, cominciai a fondare la sopradetta mia chasa, e gittai la prima pietra de’ fondamenti”. Nel momento prescelto “saliva sopra l’orizonte horientale il sengnio del lione che [..] significha l’edifizio perpetuamente durare e habitazione di huomini grandi, nobili et di buon stato”.

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Libro di debitori e creditori e ricordi di Filippo Strozzi, 1484-1491, Firenze, Archivio di Stato, Carte Strozziane, Quinta serie, 41, c. 172

Testimonianza di come l’eccezionalità dell’evento fosse percepita dai fiorentini è il ricordo dello speziale Tribaldo de’ Rossi, che aveva bottega poco lontano, di fronte a Santa Trìnita, e che annota nei ricordi: “A dì 6 Aghosto 1489 in sul levare del sole apunto chominciorono a fondare e’ maestri detto Palagio di Filippo Istrozi”. Mentre Tribaldo osservava lo scasso profondo oltre 9 metri, fu avvicinato da Filippo stesso che gli disse “togliete uno sasso e gittatevelo drento, e chosì feci, e di fatto mi misi le mani nela scharsela ala sua presenza, e gittavi drento uno quatrino vechio gigliato, lui detto non voleva, ma per memoria di ciò vel gittai e lui fu chontento”. Inoltre mandò “Tita nostra serva” a prendere a casa i suoi due figli, fatti vestire a festa e li condusse “a detti fondamenti”. Prese il maggiore “Ghuarnieri in cholo e ghuatava colagiù, e dettili un quattrino giliato, e gitolo lagiù e un mazzo di roseline da damascho ch’aveva in mano ve li feci gittare drento, dissi richorderatene tu”.

La ritualità del far indossare abiti nuovi ai bambini per solennizzare l’evento, il lancio delle monete e dei fiori come atto spontaneo ed estemporaneo di buon auspicio, sono uniti al gesto tradizionale, nella posa delle fondamenta degli edifici sacri, di invitare i presenti a gettare una pietra, in un insieme di riti dalla funzione magico-apotropaica.

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Giuliano da Sangallo o Benedetto da Maiano, Modello per Palazzo Strozzi, 1489 circa
Museino di Palazzo Strozzi, in deposito dal Museo Nazionale del Bargello

Nonostante siano conservati i Libri della muraglia con la cronaca quotidiana dei lavori e i costi della costruzione, non conosciamo il nome dell’architetto che realizzò il progetto dell’edificio: Giuliano da Sangallo e Benedetto da Maiano fornirono ciascuno un modello, ma uno solo è giunto a noi. Non è certo quale sia quello oggi conservato nel Museino, molto simile all’edificio effettivamente realizzato, che però in proporzione risulta più alto di oltre tre metri e mezzo. Poco dopo l’inizio dei lavori, nel 1490, la direzione fu affidata a Simone del Pollaiolo detto “il Cronaca”. Alla morte di Filippo (1491), la costruzione arrivava al primo piano.

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Peduccio di Palazzo Strozzi con lo stemma della famiglia e le “imprese” di Filippo

Filippo volle che sui peducci del palazzo fosse presente lo stemma delle famiglia con le tre lune crescenti insieme alle sue “imprese”, le frasi allegoriche unite a una figura, che riportano riflessioni o sentenze. Un’impresa mostra un falcone con le ali spiegate che si strappa le penne su un tronco di quercia, accompagnato dal motto “Sic [et] virtus expecto” (io aspetto, e così fa la virtù); nell’altra un agnello è unito alle parole “Mitis esto” (sii mite). Inviti, dunque, alla pazienza e alla resilienza che hanno permesso a Filippo di sopravvivere in tempi difficili durante il lungo esilio, e a riuscire poi a edificare e a tramandare lo splendido palazzo da lui fortemente voluto, vanto di una città, oltre che di una famiglia, e oggi nel mondo simbolo del Rinascimento.

Abbracci spezzati: sacri, drammatici, sensuali

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di Ludovica Sebregondi

In questi giorni di quarantena, una delle frasi ricorrenti che esprimono una necessità insopprimibile è l’auspicio di potersi riabbracciare presto fisicamente, non solo virtualmente come imposto in questo momento. Non ci si faceva neppure caso, fino a pochi mesi fa, quando incontrandosi ci si stringeva le mani, ci si abbracciava, poi lentamente gli abbracci si sono rarefatti, persino le strette di mano, anche se il gesto era istintivo e il trattenersi frutto di una riflessione razionale.

Essere “in contatto” fisicamente era normale, ma adesso mancano profondamente queste manifestazioni di vicinanza. E si rileggono anche, alla luce del momento attuale, le opere d’arte che hanno tramandato quella vicinanza fisica, ciascuna differente dall’altra e improntata a differenti stati emotivi: sacri, drammatici, sensuali.

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Bill Viola, The Greeting, 1995, Courtesy Bill Viola Studio

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Pontormo, Visitazione, 1528-1529 circa, Carmignano, Pieve di San Michele Arcangelo, Foto Antonio Quattrone

Nella mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico del 2017 era stato creato uno straordinario dialogo tra antico e contemporaneo attraverso il confronto delle opere dell’artista americano con capolavori di quei maestri del passato, che sono stati per lui fonte di ispirazione, segnando l’evoluzione del suo linguaggio. Esplorando spiritualità, esperienza e percezione Viola indaga l’umanità: persone, corpi, volti sono i protagonisti delle sue opere, caratterizzate da uno stile poetico e fortemente simbolico. Ma non si tratta di una riproposizione, bensì della rilettura; le donne che nella Visitazione di Pontormo sono unite in una sorta di abbraccio danzante, che ricorda quello delle Grazie, sono tre: Elisabetta a destra e Maria a sinistra poste di profilo, e al centro l’alter ego di Elisabetta vista di fronte. La quarta a sinistra in rosa è leggermente scostata e non sembra far compiutamente parte di quell’incontro. Ed è questa una delle intuizioni di Viola che riduce a tre le figure e si concentra sulla relazione che intercorre tra loro, sulle diverse emozioni, facendo percepire con l’estremo rallentamento ogni particolare e rendendo a suo volta pittorico ogni fotogramma, riferendosi alla grande tradizione artistica occidentale. Una scena di pochi secondi viene dilatata attraverso un rallentamento estremo: ciò che interessa all’artista è la rappresentazione di un momento preciso, semplice e quotidiano, quello dell’incontro fra tre donne, all’interno del quale mostrare le complesse dinamiche interiori e sociali di un fatto così ordinario.

Innumerevoli sono le Madonne che abbracciano Gesù bambino, nel gesto più umano e naturale, di una madre che tiene stretto il proprio figlio piccolo, venate dalla malinconia di chi premonisce il futuro, e altrettanto numerose le immagini della Passione, in cui Maria stringe con dolore il corpo di Cristo morto.

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Bill Viola, Emergence, 2002, Courtesy Bill Viola Studio

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Masolino da Panicale, Cristo in pietà, 1424, Empoli, Museo della Collegiata di Sant’Andrea, Foto Antonio Quattrone

Così nel video Emergence, Bill Viola cita Masolino, nonostante altre suggestioni illustri, dai sarcofaghi romani fino alla Morte di Marat di Jacques-Louis David, passando per la Pala Baglioni di Raffaello, ma l’ispirazione iniziale l’artista l’ebbe da una foto di cronaca, in cui due donne sollevavano da un pozzo il cadavere di un uomo. Viola si ricordò dell’opera di Masolino e ne nacque una produzione con attori e macchine sceniche, dove la forma di un sepolcro rinascimentale si fonde con quella di un pozzo e la presenza dell’acqua porta un simbolo di vita in quell’immagine di morte, alludendo cristianamente alla Resurrezione.

Altri contatti, erotici, persino incestuosi si contrappongono a queste immagini: nella mostra Il Cinquecento a Firenze. Tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna (2017-2018) si insisteva sulla capacità da parte degli stessi artisti nell’affrontare con grande libertà espressiva temi sacri e altri profani di carattere sensuale, tra lussuria e devozione. Così, ad esempio Alessandro Allori (Firenze 1535-1607), capace di esplorare temi religiosi con intima profondità, mostra in Venere e Amore madre e figlio impegnati in una scaramuccia per il possesso di un arco, interpretando il soggetto in chiave erotica e sensuale e restituendo un momento d’intimità, di contatto fisico tra le due figure.

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Alessandro Allori, Venere e Amore, 1575-1580 circa, Montpellier Méditerranée Métropole, Musée Fabre, inv. 887.3.1

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Vincenzo Danti, Leda e il cigno, 1570, marmo, Londra, Victoria and Albert Museum. Purchased by the John Webb Trust, A.100-1937

Si spinge oltre Vincenzo Danti (Perugia 1530-1576) nel riproporre il tema di Leda e del suo abbraccio con Giove trasformato in cigno, che porterà poi al loro amplesso. L’arte fiorentina del secondo Cinquecento è infatti quella che ha esplorato, in modi discordanti, il repertorio mitologico e allegorico, presentando figure – disposte in eleganti e complesse composizioni, dalle pose contrapposte – in cui i riferimenti eruditi si combinano a una evidente sensualità.

Chagall, Millet, Vedova: l’arte del sacro nella modernità

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I giorni delle festività pasquali rievocano opere e immagini della mostra Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana, tenutasi a Palazzo Strozzi fra 2015 e 2016 a cura di Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Ludovica Sebregondi e Carlo Sisi. Il percorso espositivo ospitava opere di artisti italiani e internazionali offrendo un’originale riflessione sul sacro nell’arte moderna, sottolineandone il dialogo, le relazioni e, talvolta, i conflitti, grazie in particolare alla perdurante forza e modernità di immagini iconografiche tradizionali reinterpretate da artisti spesso non cristiani o non credenti.

Opera simbolo di questo tema è la Crocifissione bianca di Marc Chagall (Moishe Segal; Vitebsk 1887-Saint-Paul-de-Vence 1985). Nel superamento dell’iconografia classica, l’artista ci parla di dolore, massacri, persecuzioni religiose, migrazioni: allusioni storiche molto chiare quando l’opera venne dipinta nel 1938, anno della Notte dei Cristalli, pogrom antisemitico che segna l’inizio ufficiale dell’Olocausto nella Germania nazista.

Chagall tramuta il soggetto della crocifissione in lirica testimonianza della condizione degli ebrei, presentando Gesù come «l’archetipo del martire ebreo di tutti i tempi», simbolo della sofferenza del proprio popolo. Il tradizionale perizoma è sostituito da un tallit, lo scialle da preghiera, la corona di spine da un copricapo di tessuto. Una menorah occupa la parte centrale dell’opera. Sotto la croce e lateralmente incombono le devastazioni: sulla destra un soldato nazista sta appiccando il fuoco alla vela di una sinagoga ormai in fiamme, l’arca è rotta, sedie e libri di preghiera giacciono sulla strada, un rotolo della Torah sta bruciando e un vecchio fugge mentre una madre cerca di confortare il suo bambino.

L’artista è ritornato più volte nei suoi lavori sul rapporto tra ebrei e cristiani, ed è forse proprio il forte dialogo interreligioso che l’anima, a farne una delle opere d’arte preferite da papa Francesco, come da lui stesso dichiarato. In occasione del Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze, il 9 novembre 2015, l’opera fu eccezionalmente trasferita da Palazzo Strozzi al Battistero fiorentino, dove dialogava con i mosaici duecenteschi in una straordinaria unità fra l’arte antica e moderna nella riflessione sulla trascendenza.

Il tema della crocifissione è stato più volte il soggetto di opere di un artista italiano come Emilio Vedova (Venezia 1919-2006) senza considerazione di tipo religioso bensì in virtù della sua potente drammaticità, trovando ispirazione in particolare nei teleri di Tintoretto sulla Passione di Cristo nelle chiese veneziane. La Crocifissione contemporanea del 1953 testimonia l’approdo pieno di Vedova al linguaggio dell’informale ma allo stesso tempo, usando le parole di Palma Bucarelli, storica direttrice della GNAM di Roma, il dipinto rappresenta «una delle migliori espressioni dell’arte drammaticamente intensa e umana di questo artista».

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Emilio Vedova, Crocifissione Contemporanea – Ciclo della protesta n. 4, 1953, Roma, GNAM – Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. Foto Antonio Idini

L’opera si stacca da precedenti versioni dell’artista sul tema. La crocifissione in sé è scomparsa, rimane solo la sua drammaticità tradotta dalla gestualità pittorica di Vedova che esprime una riflessione profonda sulla sofferenza, intesa come condizione esistenziale umana all’indomani della seconda guerra mondiale. Il tumulto della composizione, basato sul forte e dinamico contrasto fra il bianco e il nero delle pennellate, crea un vero e proprio campo di azione, astratto e allo stesso tempo teatrale che trova ancora un riferimento figurativo alla croce nella parte bassa al centro della tela: due linee nere, salde e nette, affiancate dalle uniche pennellate colorate di tutta l’opera, rosse come il sangue, che diventano un invito di profonda riflessione sul rapporto tra vita e morte.

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Jean-François Millet, L’Angelus, 1857-1859, Parigi, Musée d’Orsay, legato di Alfred Chauchard, 1910. Foto © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay) / Hervé Lewandowski

Andando oltre l’iconografia della crocifissione, manifesto poetico e profondo dell’arte moderna sul senso religioso è L’Angelus, uno dei capolavori più noti dell’artista francese Jean-François Millet (Gréville 1814-Barbizon 1875). Preghiera che ricorda il saluto dell’angelo a Maria durante l’Annunciazione, già dal Trecento l’Angelus invitava i fedeli alla recita dell’Ave Maria in tre momenti diversi della giornata, al mattino, a mezzogiorno e alla sera. Attraverso il suono delle campane, con tre rintocchi brevi seguito da uno più lungo, il rito pervadeva la vita quotidiana. Come lo stesso Millet ricordava: «L’Angelus è un quadro che ho dipinto ricordando i tempi in cui lavoravamo nei campi e mia nonna, ogni volta che sentiva il rintocco della campana, ci faceva smettere per pregare».

La composizione è serrata e compatta. Ai piedi di due contadini raccolti in preghiera c’è una cesta, dietro una carriola con due sacchi. A sinistra un forcone piantato nel terreno dal ragazzo che ha interrotto il lavoro. Dietro le figure il campo si estende fino all’orizzonte dove si intravede appena la sagoma sbiadita di un piccolo borgo, con un campanile e alcune case. Memore delle tele di Constable, Millet pone il cielo come elemento fondamentale dell’opera, occupando oltre un terzo della superficie pittorica. Costuiti con forza da colori caldi e bruni i due contadini ci appaiono come in controluce, due figure esaltate nella loro umiltà ma allo stesso tempo nella loro grande dignità umana.

Come scrive in catalogo Carlo Sisi: «La “rustica bontà” diffusa nei quadri di Millet riguardava ogni aspetto della civiltà contadina, ora attingendo a componenti liriche – che per l’Angelus avevano fatto scrivere ad Alfred Sensier di suggestioni sonore riferibili al mormorio sommesso della campagna e al rintocco lontano delle campane – ora chiamando in causa il persistere della tradizione religiosa tra la popolazione rurale, di cui il celebre quadro di Millet rappresentò appunto la commovente testimonianza. Non a caso i commentatori dell’opera si soffermarono a descrivere l’incanto riflessivo della scena, aumentato dell’effetto trascolorante della luce, ma soprattutto il messaggio morale affidato ai due assorti protagonisti, umili e monumentali allo stesso tempo, silenziosi tramiti di un convinto e intenso messaggio morale».

Illustrando i ritmi immutabili che scandiscono la vita dei campi, Millet propone una riflessione sul rapporto tra uomo e natura secondo una dichiarazione di etica spirituale universale. La preghiera dei due contadini diviene meditazione sulla vita, un manifesto di speranza e fiducia nella natura.

Uomini, albicocchi e mucche

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di Stefano Mancuso

Scienziato di prestigio mondiale, direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (LINV), Stefano Mancuso partecipa con un suo personale contributo al progetto IN CONTATTO dopo che nel 2018 aveva collaborato con l’artista Carsten Höller per il progetto The Florence Experiment a Palazzo Strozzi. Celebre per la sua riflessione sulle capacità cognitive delle piante, Mancuso ci parla di concetti come intelligenza, riproduzione, estinzione degli esseri viventi, in una riflessione che provocatoriamente porta a chiederci: siamo davvero sicuri della superiorità dell’uomo rispetto alle altre specie? “Un albicocco non può fare molto per estinguersi e nemmeno una mucca. Al contrario il genere umano produce sempre nuove possibilità di causare la propria estinzione”.

La vita è un processo cognitivo.
Non è possibile immaginare vita senza cognizione: come si può infatti pensare che un essere vivente non sia in grado di risolvere problemi, che non sia capace di essere “intelligente”? Per sopravvivere, il più semplice degli organismi deve poter risolvere problemi in ogni momento della sua esistenza. In contrasto a questa ovvia considerazione, l’uomo ha sempre ritenuto di essere l’unico, o uno dei pochi, essere intelligente. Senza dubbio il più intelligente e con poco o nulla da compartire con il resto della vita. Per corroborare questa rappresentazione abbiamo immaginato le nostre caratteristiche come uniche. La fonte principale della nostra supposta superiorità è, ovviamente, da ricercare nel nostro grande cervello e nella sua grande capacità logica che ci permette di fare cose che gli altri esseri viventi non sono in grado di fare: scriviamo, dipingiamo, elaboriamo teorie, componiamo sinfonie. Ma questa abilità ci differenzia davvero dagli altri esseri viventi? E, soprattutto, ci pone in una condizione di superiorità rispetto agli altri esseri viventi?

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Foto Alessandro Moggi

L’uomo ha sempre cercato di definire concetti come intelligenza, mente, cognizione in maniera tale da limitarli a sé stesso. Per farlo ha elaborato nozioni sempre più stringenti di che cosa fossero l’intelligenza e la cognizione.
Ma i risultati non sono stati quelli sperati. L’intelligenza è la capacità di utilizzare strumenti? Sono tanti gli animali che utilizzano strumenti. L’intelligenza riguarda la capacità di avere un pensiero astratto? Molti primati, e non solo loro, sono capaci di elaborare concetti astratti.
L’intelligenza deve essere studiata come un vero e proprio principio biologico: qualcosa di molto simile al modo in cui guardiamo alla riproduzione. La capacità di riprodursi appartiene a ogni essere vivente. La vita si riproduce, la vita crea sé stessa; la riproduzione è un principio fondamentale della vita. A chi mai verrebbe in mente di affermare che soltanto noi uomini ci riproduciamo? Certo, esistono sistemi diversi e molto complessi: noi uomini ci riproduciamo seguendo delle regole piuttosto complesse; le piante hanno sistemi riproduttivi estremamente originali; i funghi, gli insetti, i batteri si riproducono in maniera talmente differente che questi fenomeni sono difficilmente assimilabili gli uni agli altri. Eppure, tutti hanno in comune lo stesso risultato: la riproduzione della vita. E, in effetti, la riproduzione è definita nella maniera più ampia possibile: la capacità di moltiplicarsi. Senza considerarne le specificità. Le particolarità umane non sono significative rispetto al modo in cui si riproducono le altre forme di vita. Nella stessa maniera dovremmo guardare all’intelligenza, considerandola come una proprietà fondamentale della vita che deve essere definita nella maniera più ampia e inclusiva possibile. Ad esempio, riferendoci ad essa come alla capacità di risolvere problemi e quindi come una caratteristica comune a tutti gli esseri viventi.

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Carsten Höller e Stefano Mancuso, The Florence Experiment, 2018
Foto Alessandro Moggi

A questo punto bisogna chiedersi da cosa ci derivi questa idea di superiorità. Come mai noi ci riteniamo di una categoria diversa rispetto agli altri esseri viventi e superiori a essi? Sono pressoché certo che ciascuno di noi pensa di essere migliore di una mucca, un albicocco, un verme o un batterio; chi dice il contrario sarebbe un bugiardo. Scrive Darwin: l’evoluzione premia il più adatto. Si tratta di una legge alla quale non possiamo sottrarci. Una legge che ha la stessa validità della gravitazione universale. Ma perché Darwin non usa la parola “migliore” al posto di “adatto”? Perché il termine “migliore”, nel contesto della vita, non ha alcun senso. “Migliore” rispetto a cosa? Essere “migliori” ha senso soltanto se esiste un obiettivo. Facciamo un esempio: se l’obiettivo è saltare più in alto, chi salta 2,10 metri è meglio di chi ne salta solo 2,00. Tuttavia, l’aspetto essenziale della vita è che l’obiettivo finale è la capacità di sopravvivere e propagare la propria specie. A questo punto che abbiamo le idee un po’ più chiare chiediamoci se l’essere umano, con la sua particolare intelligenza e grazie al suo grosso cervello, che permette l’elaborazione di teorie, sinfonie, sonetti ecc., sia più o meno adatto delle altre specie a sopravvivere. Se si adotta questa più corretta prospettiva è inevitabile cambiare idea sul fatto di “essere migliori”. Si stima, infatti, che la vita media di una specie sia di cinque milioni di anni. Ci sono poi specie che sono anche molto più longeve: le conifere, le felci, i muschi, ma anche i coccodrilli, tutte specie apparse decine di milioni di anni fa e ancora esistenti. Tuttavia accontentiamoci di guardare alla durata media della vita di una specie: cinque milioni di anni. L’Homo sapiens è apparso circa trecentomila anni fa. Dovremmo sopravvivere altri quattro milioni e settecentomila anni per essere semplicemente in media con le altre specie. E dovremmo superare questo limite per dimostrare in termini darwiniani che il nostro grande cervello – l’organo di cui siamo così orgogliosi – sia un reale vantaggio evolutivo.

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Foto Alessandro Moggi

Immagino che una volta considerate le possibilità che la nostra specie sopravviva altri quattro milioni e settecentomila anni, il numero di persone inclini a sentirsi superiori all’albicocco diminuisca molto. Eppure, è questo il senso dell’evoluzione. Un albicocco non può fare molto per estinguersi e nemmeno una mucca. Tutte e due queste specie si estingueranno, come tante altre, soltanto in conseguenza di modificazioni dell’ambiente talmente enormi da non permettere più la loro sopravvivenza. Si tratta, per fortuna, di eventi catastrofici che avvengono, ma con cadenza di milioni di anni. Al contrario il genere umano produce senza soluzione di continuità, come in una catena di montaggio, sempre nuove possibilità di causare la propria estinzione. In ogni caso, se ci estingueremo prima dei prossimi quattro milioni e settecentomila anni, avremo dimostrato che possedere un cervello così sviluppato non era un vantaggio. Vedremo.

Fuori da dentro: relazioni e connessioni durante l’isolamento

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di Irene Balzani

L’arte vive di relazioni e ogni artista sceglie come entrare in connessione con chi osserverà l’opera. Lo fa Tomás Saraceno, ad esempio, quando ci “intrappola” in installazioni che coinvolgono i sensi e rende evidenti quei fili sottili che ci legano agli altri esseri che insieme a noi popolano la terra. Proprio in questi giorni stiamo sperimentando quanto sia difficile quando quei fili si interrompono e quando uscire e frequentare altre persone non fa più parte della nostra quotidianità, che si spende principalmente all’interno delle nostre stanze.

Nel nostro lavoro a Palazzo Strozzi riflettiamo spesso sui concetti di “apertura” e “accessibilità”, consapevoli della complessità di questi termini, cercando di fare in modo che le mostre siano accoglienti per il maggior numero possibile di persone. Nel corso degli anni, sempre espandendo la sperimentazione e il confronto con approcci diversi, sono nati infatti numerosi progetti di accessibilità, dedicati all’inclusione di persone a rischio di esclusione sociale con le quali, anche in questo periodo di isolamento, cerchiamo di mantenere vivi i fili delle relazioni anche a distanza con proposte e contatti diretti. Sono le ragazze e i ragazzi con disturbi dello spettro autistico del progetto Sfumature, sono le persone con Parkinson dell’iniziativa Corpo libero, sono i tanti partecipanti all’iniziativa Connessioni, dedicata all’accessibilità delle persone con disabilità intellettiva e disagio psichico.

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A più voci durante la mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico (10 marzo – 23 luglio 2017)
Foto: Simone Mastrelli

Il primo progetto di accessibilità sviluppato dalla Fondazione Palazzo Strozzi è stato A più voci, dedicato alle persone che vivono con l’Alzheimer e a chi si prende cura di loro (familiari o carer professionali). Nel 2017, in occasione della mostra Bill Viola. Rinascimento elettronico, abbiamo riflettuto sul significato di “stare chiusi” e “uscire fuori” insieme all’artista Cristina Pancini con il progetto Caterina, che partiva dall’osservazione di due opere esposte a Palazzo Strozzi: l’installazione video Catherine’s Room di Bill Viola e la predella della tavola trecentesca di Andrea di Bartolo con Caterina da Siena fra beate domenicane entrambe incentrate sul tema della reclusione e della relazione col mondo esterno.

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Alcuni momenti del progetto Caterina
Foto: Simone Mastrelli

Il progetto Caterina è nato dalla riflessione sulle possibilità che le persone con Alzheimer hanno di vivere la propria relazione con il mondo. Con il progredire del viaggio nella demenza la mente diventa infatti gradualmente uno spazio sconosciuto, non è più una stanza ordinata e sicura. Parallelamente il mondo all’esterno risulta sempre più incomprensibile e uscire diviene sempre più difficile. La relazione con gli altri può essere fonte di rassicurazione, stupore o minaccia, sempre meno di reciproca identificazione. Eppure abbiamo bisogno degli altri, del mondo che scorre fuori da noi stessi e questi giorni di isolamento ce lo stanno ricordando con forza. Allo stesso tempo “rimanere chiusi” non è soltanto una condizione fisica, è anche un’attitudine che può spingerci a sostare all’interno delle nostre stanze mentali. Tutti noi possiamo sentirci come Caterina/Catherine in alcuni momenti della nostra vita.

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Un momento del progetto Caterina
Foto: Simone Mastrelli

L’emergenza che stiamo vivendo ci ha catapultati in un “dentro” del quale vediamo i confini, la nostra casa è oggi il nostro spazio di azione, il nostro orizzonte quotidiano. Nel corso del progetto con Cristina Pancini una sala di Palazzo Strozzi si era trasformata nel territorio di un viaggio, un cammino di scoperta degli angoli, dei soffitti, degli oggetti e di tutto quello che abita un luogo, compresi noi stessi. Era un viaggio a coppie, ogni anziano con il proprio carer, un itinerario fatto di racconti e di ascolto, un percorso di conoscenza che potremmo compiere anche oggi per riscoprire le nostre case: osservare una stanza per trovarne gli infiniti panorami, guardare fuori dalla finestra e raccontare quello che si vede o quello che si immagina possa esserci.

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La pubblicazione Caterina
Foto: Martino Margheri

Il progetto Caterina si concretizzava in una richiesta specifica rivolta ai partecipanti: cosa si può dire a una persona che per molto tempo è stata “chiusa”? Cosa vale la pena guardare o fare dopo un lungo periodo di separazione dal mondo? “Lo chiedo a voi perché so che avete molta più esperienza di me” recitava la lettera che accompagnava i taccuini sui quali ognuno poteva lasciare il proprio consiglio.
Ecco alcuni esempi di risposte: “trova una buona sorella”, “annusa il profumo di una rosa”, “non perdere mai di vista il cielo e il mare”, “mangiare un bel gelato perché è bene e buono. Mangialo per strada”, “le consiglio di rivolgersi alla persona che più le piace e guardarla con amore”, “andare, via, muoversi, senza fermarsi”.
Consigli preziosi che sono stati raccolti, insieme al racconto di tutto il progetto, in una pubblicazione edita da Boîte Editions e disponibile on line sul sito di Palazzo Strozzi.

L’arte a casa: speciali attività per bambini, ragazzi e famiglie

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A Palazzo Strozzi è centrale il coinvolgimento attivo dei nostri pubblici attraverso attività e progetti legati alle opere d’arte che esponiamo. In questo momento particolare dobbiamo però rimanere a casa per proteggere noi stessi e gli altri e non è possibile sfruttare quel rapporto diretto con il lavoro degli artisti presentato in occasione delle nostre mostre. Per questo proponiamo L’ARTE A CASA, una serie di proposte e iniziative per bambini, ragazzi e famiglie attraverso attività originali da svolgere a casa in autonomia, con materiali facili da trovare.

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Foto Giulia Del Vento

Le mostre di Palazzo Strozzi sono sempre accompagnate da un Kit Famiglie, uno strumento pensato per condividere l’esperienza della visita in mostra in modo divertente e creativo. Per il progetto IN CONTATTO abbiamo ideato una speciale versione del Kit: un percorso di attività, ispirate alla mostra Tomás Saraceno. Aria, che possono essere svolte a casa da bambini e adulti insieme. Le opere di Saraceno fanno riflettere sul futuro e sulla coesistenza, due concetti che ci sembrano ancora più importanti in un momento come questo per ripensare al mondo che ci circonda e al nostro rapporto con gli altri esseri che lo popolano.
Il Kit contiene cinque proposte, da fare tutte d’un fiato o un po’ per volta, magari una per giorno.

Scarica il Kit

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Foto Giulia Del Vento

In queste settimane anche l’attività delle scuole è cambiata radicalmente e con questa le nostre proposte per alunni, studenti e insegnanti. Abbiamo sviluppato quattro attività, pensate inizialmente per le classi, e poi adattate per essere svolte a casa in autonomia o in compagnia della propria famiglia. Le attività sono uno strumento indirizzato agli insegnanti di ogni grado scolastico e propongono delle esperienze ispirate da una riflessione sul futuro e sul concetto di coesistenza, entrambi fortemente ispirati dalle opere di Tomás Saraceno. I materiali con le indicazioni per svolgerli sono tuttavia una risorsa anche per quei genitori che vogliono intraprendere in questo periodo di isolamento un rapporto attivo di riflessione, divertimento e condivisione.

Ecco i link per scaricarli:

Il filo che lega tutti noi (scuola dell’infanzia e primi anni della scuola primaria, 4-8 anni)

La forma del futuro (ultimi anni della scuola primaria, 9-11 anni)

Disegno cosmico (scuola secondaria di primo grado)

L’oracolo (scuola secondaria di secondo grado)

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Foto Giulia Del Vento

Being Together, stare insieme

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di Riccardo Lami

Parlare di famiglia significa affrontare un argomento personale e intimo nella vita di ogni individuo, un tema a cui chiunque è legato secondo specifiche esperienze di rapporti e contesti. Come affrontato nella mostra Questioni di famiglia tenutasi a Palazzo Strozzi nel 2014, riflettere su come gli artisti trattano questo tema non comporta tanto domandarsi cosa sia la famiglia ai loro occhi: significa bensì investigare come essa svolga, oggi più che mai, un ruolo fondamentale nella vita di ognuno.

Il titolo della serie fotografica di John Clang Being Together (“Stare insieme”, 2010-2014) è un’espressione che risuona come quasi fuori luogo in questi giorni segnati da termini come isolamento, quarantena, distanziamento. Allo stesso tempo questa espressione sembra rispondere a una nostra urgenza profonda, mai come ora attuale: non essere soli, far parte di una “famiglia”, sia essa quella di origine sia quella che abbiamo scelto.

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John Clang, Being Together (Family), 2010. Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

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John Clang, Yeo family (New York, Sengkang), 2010, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

La serie di Clang è costituita da oltre quaranta ritratti di famiglie i cui membri sono fisicamente separati tra loro, lontani a volte migliaia di chilometri. In ogni fotografia, attraverso l’utilizzo di una webcam proiettata in scala 1:1 su una parete, alcune persone sono in collegamento con il luogo in cui si trovano uno o più membri della loro famiglia. Tutte le fotografie sono scattate tramite collegamenti internet in diretta, come in una normale videochiamata, e tutti gli ambienti ritratti sono le reali abitazioni delle persone che vivono lontane dalle proprie famiglie. Sono soggiorni o camere da letto, stanze popolate di oggetti che esprimono la vita quotidiana. Ogni ritratto crea una sorta di “riunione di famiglia” nel non-luogo dell’immagine fotografica, facendo emergere una ricerca di identità e appartenenza ma anche, al contrario, un profondo senso di estraneità e alienazione.

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John Clang, Goh family (Bellevue, Bedok), 2011, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

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John Clang, Lim family (London, Upper Serangoon), 2012, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

Cruciale nel ritratto di famiglia è la tensione tra dimensione pubblica e privata, un elemento che sta alla base del lavoro dell’artista israeliano Guy Ben-Ner. Nel video Soundtrack (2013) Ben-Ner, i propri figli e alcuni amici creano una sequenza di immagini che vengono sovrapposte a una parte del sonoro del film hollywoodiano La guerra dei mondi. L’invasione aliena del film di Spielberg diviene la colonna sonora per una serie di improbabili eventi domestici. La forza dell’opera sta nella sua capacità di creare un cortocircuito tra realtà e immaginazione in cui la figura della famiglia diviene un luogo ambiguo, sicuro e pericoloso allo stesso tempo, fulcro della ironica follia che domina tutto lo svolgimento del video.

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Guy Ben-Ner, Soundtrack, 2013
Courtesy l’artista e Pinksummer, Genova

Fin dagli anni Ottanta, in parallelo alla sua produzione su altri temi, il fotografo tedesco Thomas Struth ha lavorato alla serie Familienleben  (“Vita familiare”), serie di ritratti nati da incontri specifici con famiglie di amici, colleghi o conoscenti colti nei rispettivi spazi domestici. Tipico di tutto il lavoro di Struth è il forte controllo formale che qui esalta la messa a fuoco di ogni singolo dettaglio: gli sguardi e le espressioni dei soggetti, il loro abbigliamento, lo spazio. Ciascuna opera diviene una sorta di lente di ingrandimento tramite cui far emergere la specificità ma anche il valore esemplare di ogni famiglia. Ai soggetti è richiesto di guardare direttamente in camera con il massimo di immobilità e concentrazione. «Niente bambini o bambine sorridenti, niente madri o padri allegri. Quello che mi interessa veramente è dare al pubblico un posto da osservare che sia un po’ incerto e, al tempo stesso, un po’ ambiguo».

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Thomas Struth, The Falletti Family, Florence, 2005
De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

Ogni immagine presenta volti e contesti particolari, ma diviene anche modello per la chiara costruzione di ruoli, gerarchie, dinamiche. Citando quanto scrive Alois Riegl sul ritratto di gruppo olandese nel Seicento: «[Il ritratto di famiglia] non è né un’estensione del ritratto singolo né meccanica composizione di ritratti singoli in un quadro: esso è molto di più, la rappresentazione di una corporazione». Il singolo individuo rappresentato è definito dalla relazione con gli altri: essere il padre o la madre di, la figlia o il figlio di, e via dicendo. Parallelamente, chi osserva un ritratto di famiglia sembra quasi invitato a decodificare relazioni e parentele in funzione della propria realtà, ricollegando quelle immagini alla propria vita, ai propri legami, alla propria famiglia. A differenza di ritratti individuali o di gruppo in cui i soggetti rappresentati sono esaltati nelle loro caratteristiche uniche, il ritratto di famiglia non crea la rappresentazione di una realtà lontana o distaccata, bensì comune e, appunto, familiare.

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Thomas Struth, Untitled (New York Family 1), New York, 2001, De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

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Thomas Struth, The Richter Family 2, Cologne, 2002, De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

L’idea del ritratto di famiglia trova nelle opere di Nan Goldin una contrapposta rielaborazione. Celebre per un’impronta diaristica e fortemente realistica, il suo lavoro è sempre espressione di un legame inestricabile con la propria biografia. Nelle sue opere, la famiglia appare come il risultato un’esigenza esistenziale: «stare raggruppati insieme, basato sul senso di incompletezza del singolo individuo». La fotografia diviene uno strumento relazionale e la sua intera carriera diviene un viaggio per immagini di incontri e connessioni: «Non ho mai creduto che un solo ritratto possa determinare un soggetto, ma credo in una pluralità di immagini che testimoniano la complessità di una vita». Un forte senso di spontaneità si unisce a un rigoroso controllo formale che risulta evidente nell’uso della messa a fuoco, nella costruzione di piani prospettici ribaltati, nell’accurata composizione di luci e linee.

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Nan Goldin, Guido with his mother, grandmother and shadow, Turin, 1999, Guido Costa Projects & Matthews Marks Gallery

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Nan Goldin, My parents kissing on their bed, Salem, MA, 2004, Courtesy l’artista

In alcune immagini Nan Goldin crea un confronto generazionale all’interno di uno stesso gruppo familiare, in altre invece ritrae tabù come la sessualità dei genitori. Come lei stessa afferma: «Non credo che un solo ritratto possa esprimere ciò che una persona è». Le sue opere non hanno come scopo l’attestazione dell’identità di un soggetto, bensì l’affermazione di uno sguardo che testimonia una relazione umana, trasformandola in un ricordo che sopravviva al passare del tempo.

 

In copertina: John Clang, Tye family (Paris, Tanglin), 2012, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

A tavola con Pontormo: ricette, inquietudini e convivialità

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di Ludovica Sebregondi

Ipocondriaco, lunatico, “al quanto selvatico e strano”, “ghiribizzoso” cioè capriccioso, “fantastico e solitario”, così ci viene descritto Jacopo Carucci, nato il 24 maggio 1494 a Pontormo (Puntormo o Puntorme), borgo prossimo a Empoli da cui ha tratto il soprannome. Secondo Vasari non “andò mai a feste, né in altri luoghi dove si ragunassero genti, per non essere stretto nella calca e fu oltre ogni credenza solitario”. Manifestava un carattere introverso anche nell’abitazione, un “casamento da uomo fantastico e soletario”, dove la camera da letto si raggiungeva per mezzo di una scala di legno che Jacopo poteva ritirare con una carrucola affinché nessuno potesse raggiungere la stanza a sua insaputa. L’edificio era posto in quella che allora si chiamava via Laura (oggi via della Colonna), e non aveva un prospetto ampio sulla strada, ma si apriva su un cortile interno dove Pontormo aveva un orticello (“comperai canne e salci per l’orto”), alberi da frutto (“la mattina posi quegli peschi”) e cercava refrigerio nella stagione calda (“domenica mattina stetti, subito levato che io fui e vestito, ne l’orto che era fresco”).

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Cucina della casa natale di Pontormo. Foto Comune di Empoli

Un uomo, dunque, che non si sarebbe trovato a disagio nella situazione che stiamo vivendo oggi al tempo della quarantena: solitario, soprattutto durante la lunghissima reclusione durante il giorno tra i tavolati di un cantiere blindato, eretto nel coro della chiesa di San Lorenzo a Firenze dal 1546 fino alla morte, avvenuta il primo gennaio 1557. Di questo ultimo periodo, dall’11 marzo 1554, è testimonianza il suo diario manoscritto che fornisce informazioni non solo sull’attività artistica di Jacopo ma anche sul suo mondo e sulla sua epoca: insieme taccuino di lavoro, memoria autobiografica e fonte fondamentale di notizie sull’alimentazione del tempo.

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Diario di Jacopo da Pontormo, 1554-1556,
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Magl. VIII, 1490, c. 67r.

Nonostante il carattere introverso, Pontormo aveva cari amici: intellettuali e artefici, operai e imprenditori e poi i suoi allievi, come il preferito, Agnolo di Cosimo detto il Bronzino. Mangiava con loro a casa e alla taverna, scegliendo agnello, “migliaci e fegategli e ’l porco”, “fegato fritto d’agnello”, “porco lesso nel vino”, “vermicegli”, “pipioni lessi”, “uno germano”, “gallina d’India”, “pollo e vitella”, “colombacci”, “pollo e lepre”, “acegia” (cioè beccaccia) e “farciglioni” (uccelli acquatici), uno “rochio di salsiccia” e tordi. Si diceva felice per dei “crespelli mirabili”, oppure seccato quando un cibo cattivo gli provocava malessere: “la sera cenai un poco di carnaccia, che mi fece poco prò”.

Quando era solo si preparava brodo di castrone o testa di capretto (lessa o fritta), “curatella”, verdure come il “cavolo buono cotto di mia mano”, ma mangiava anche pane con fichi secchi e cacio, formaggio e baccelli o ricotta. Adorava le uova, cucinate “afrettellate” “nel tegame” o “in pesce d’uovo”, come la frittata veniva chiamata a Firenze per la forma, simile a quella dell’odierna omelette, e poi uova con piselli, asparagi o carciofi. La verdura rivestiva un ruolo importante: in parte la produceva nell’orto, il resto lo comprava al mercato, ma era “companatico”, cioè accompagnava il pane, base della dieta, sua come della maggioranza della popolazione.

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Bacelli e pecorino. Photo James O’Mara/O’Mara Mc Bride

In occasione della mostra Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della “maniera”, tenutasi a Palazzo Strozzi nel 2014, Maschietto Editore ha pubblicato, con il Patrocinio della Fondazione Palazzo Strozzi, La tavola del Pontormo. Ricette di grandi chef: ingredienti senza tempo e suggestioni d’arte. Proprio in base alla considerazione che le materie prime della cucina toscana non sono cambiate in cinque secoli, è stato chiesto a diciannove famosi cuochi della regione una ricetta che avesse come base ingredienti citati da Pontormo nel Diario. Diciannove cuochi professionisti e un personaggio speciale, Padre Sisto Giacomini, bibliofilo e restauratore di libri, che ha offerto la ricetta, nella tradizione della Certosa del Galluzzo alle porte di Firenze, della Trota al bianco d’uovo con foglie di maggiorana e fiori di borragine

Eviscerare una trota, lavarla e farcirla con uno spicchio d’aglio e un rametto di rosmarino; cuocere alla brace e sfilettare. Mettere in un tegamino un po’ d’olio extra vergine Ipg toscano e unirvi il bianco dell’uovo, salare, aggiungere un po’ di foglie di maggiorana e fiori di borragine. Aggiungere i filetti della trota e cuocere finché il bianco dell’uovo si rapprende.

La preparazione voleva evocare le parole del Diario di Pontormo: “Domenica fumo adì 10 detto: desinai con Bronzino e la sera a hore 23 cenarne quello pesce grosso e parechi picholi fritti che spesi soldi 12, che v’era Attaviano; e la sera cominciò el tempo a guastarsi ch’era durato parecchi dì bello senza piovere”.

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Padre Sisto Giacomini alla mostra Pontormo e Rosso Fiorentino, davanti alla Visitazione di Pontormo (1514-1516), Photo James O’Mara/O’Mara Mc Bride

 

In copertina: Pontormo, Autoritratto, particolare della Deposizione, 1526-1528, Firenze, Chiesa di Santa Felicita, Cappella Capponi