Fausto Melotti: Armonia e Contrappunto

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La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:

  • arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
  • opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
  • la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
  • l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.

Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità dalla proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.

 

di Sabrina Pergiovanni

Sintesi

Fausto Melotti (Rovereto, 1901 – Milano, 1986), scultore, musicista, pittore e poeta dalla duplice formazione, tecnico-scientifica e artistica, spazia inizialmente tra l’ambito del gruppo astrattista milanese e le influenze dell’architettura razionale. La sua attività artistica assume diverse sfumature nel corso della sua vita ma a essere sempre costante è la presenza della musica che, attraverso le leggi matematiche, lo conduce a composizioni armoniche.

Parole chiave: Fausto Melotti, musica, armonia, contrappunto, geometria.

Introduzione: lo stato d’animo angelico non prescinde da quello geometrico

“L’artista deve avere un credo, ma, penso, lo deve anche tradire. Altrimenti, prigioniero nel suo tabernacolo, si vede consegnato a un equilibrio indifferente, come su un piano perfettamente orizzontale. La palla vive quando rotola in basso o è lanciata in alto”. Così scrisse Fausto Melotti (1981: 46-47) in uno dei suoi foglietti in cui custodiva gelosamente alcune sue riflessioni e memorie e che, dopo la sua morte, vennero parzialmente editi in volumi come Linee e Lo spazio inquieto.

Nato a Rovereto nel 1901, Melotti trascorse la sua fanciullezza a Firenze e, dopo essersi iscritto alla facoltà di Fisica e Matematica dell’Università di Pisa, si laureò come ingegnere elettrotecnico al Politecnico di Milano nel 1924. L’anno successivo, a Torino, lo zio lo introdusse nella bottega di Pietro Canonica che gli insegnò il mestiere di scultore; per due anni svolse il servizio militare a Civitavecchia e in seguito frequentò sporadicamente l’Accademia Albertina di Torino finché, nel 1928, non iniziò a studiare insieme a Lucio Fontana all’Accademia di Brera sotto l’insegnamento di Adolfo Wildt.

Dalla sua molteplice formazione musicale, tecnico-scientifica e artistica, ebbe origine la sua poetica espressa con grande chiarezza nel frontespizio del catalogo redatto per la sua prima personale alla Galleria Il Milione nel 1935: “L’arte è stato d’animo angelico, geometrico. Essa si rivolge all’intelletto e non ai sensi. […] Non la modellazione ha importanza ma la modulazione. Non è un gioco di parola: modellazione viene da modello = natura = disordine; modulazione da modulo = cànone = ordine. Il cristallo incanta la natura” (Fossati, 1971: 105). Le opere di Melotti sono costruite come secondo un’equazione che si rifà alla matematica mistica della scuola pitagorica (Celant, 1995: X) e alla sezione aurea (Fagiolo Dell’Arco, 1970: 101), dunque secondo un ordine rigorosamente geometrico fondato sulla modulazione intesa come  modulo architettonico; questa impostazione, oltre che essere frutto della sua cultura scientifica, secondo suo cugino Carlo Belli1 gli era stata trasmessa da Wildt ed era ciò che lo spingeva a volere il controllo assoluto sull’esecuzione fino a giungere alla creazione di volumi puri (Ferrari, 2016: 125). Ciò corrispondeva a una ricerca di equilibrio che Melotti riscontrava in Piero della Francesca, nell’architettura razionale e in quella della Grecia antica2 (Fossati, 1971: 106). Melotti riesce a liberare la sua arte dalla ripetitività monotona, modulando le sue opere secondo i principi dell’armonia e del contrappunto di Johann Sebastian Bach: il musicista tedesco infatti, sosteneva che i sensi, per mezzo dell’orecchio, potessero cogliere la musica solo come una sintesi delle sue varie parti, quindi ‘verticalmente’ come armonia; al contrario, l’intelletto per lui la poteva percepire anche ‘orizzontalmente’, tollerando molti dettagli nelle parti individuali.

In questo modo egli, al posto di una singola nota, inseriva alcuni gruppi di note che creavano conflitti incidentali, brutti e insensati sulla carta, ma convincenti e naturali quando ascoltati (Platt, 1948: 48-49, 56). Questo è ciò che si ritrova anche nella scultura di Melotti che “come Minerva nasce dal cervello” (Melotti, 1981: 46); quindi l’artista rinuncia all’amore per la materia: egli usava da asticelle d’ottone a garze, da catenelle a cartoncino, da stagnola a gesso, anticipando in un certo senso l’Arte Povera degli anni Sessanta (Ebony, 2016: 145) ma, prende le distanze da essa, in quanto per lui quei materiali non erano il fine bensì il mezzo (Pola, 2018: 124), cioè una serie di note musicali visive per le sue sculture (Celant, 1995: XVI). Melotti giunge, così, alla dematerializzazione della forma, a quella che si può definire una vera e propria anti-scultura3 (Hammacher, 1973: 5). Questa forte sintesi e purificazione degli elementi non porta solo a un nuovo ordine matematico ma anche a un senso di elevazione e di precarietà: da qui emerge il suo spazio interiore (Celant, 1995: VII), la sua stessa situazione emotiva (Drudi, 1974: 23) che costituisce quello che Melotti aveva definito “stato d’animo angelico” (Fossati, 1971: 105) e che lo porta a distaccarsi dall’ambiente della Galleria Il Milione a Milano4, presso la quale aveva esposto nel 1935. E’ vero che egli in alcune opere sembra fare riferimento alla narrazione favolistica e mitologica (Celant, 1995: VII) e alla memoria della sua infanzia5, ma questi riferimenti spesso non sono volontari e figurativi bensì si presentano attraverso concatenazioni concettuali casuali: proprio questa apertura al gioco del caso (Celant, 1995: XVI) riporta alla musica. Melotti infatti considerava l’artista come un compositore che cominciava davvero a lavorare solo quando “da un segno nasce[va] un altro segno” (Fiz, 2000: 13) e giungeva l’ispirazione. Riguardo a ciò, un esempio è la Scultura C (fig. 1), realizzata nel 1969 e più volte riprodotta, che presenta delle aste di ottone tra le quali spicca una trasversale che termina in un motivo a ricciolo che, da una parte, è frutto della sua concezione della scultura come processo per giungere a un’architettura armonica6 (Celant, 1995: XIX) e, dall’altra, simbolo della spirale logaritmica disegnata secondo le leggi geometriche e naturali della sezione aurea (Ferrari, 2016: 126). Questo ricorda, seppur con mezzi assai diversi, l’uso che fa Mario Merz in Lumaca (fig. 2), del 1970, della sequenza di Fibonacci per tracciare nella telecamera, che lo divide dallo spettatore, una spirale che parte da una vera lumaca. Lo scopo di Merz è di recuperare il flusso di energie cosmiche e vitali proveniente dalla natura e dal mondo archetipico, rifacendosi alla fillotassi7: “Io cerco l’Energia che scorre liberata dalle catene del ritmo, come la musica dell’India” (Masini, 1989: 939); la sua ricerca, dunque, non era poi tanto distante da quella di Melotti: entrambi leggevano la natura secondo leggi matematiche e geometriche che rendevano le loro opere d’arte pensiero e pura energia spirituale8 (Celant, 1995: IX), prescindendo dalla dicotomia tra astrazione e figurazione.

Il tema del doppio e l’azzeramento  

La dicotomia melottiana tra “Esprit de geometrie” ed “Esprit de finesse (Fagiolo Dell’Arco, 1970: 100) si manifesta nelle sue opere in vari modi. A tal proposito, una scultura paradigmatica è Ellissi (fig. 3). Essa, come risulta già dal titolo, è formata da diverse ellissi, cinque piene e sette vuote, disposte verticalmente in quattro gruppi di tre e una piena disposta orizzontalmente a dividere in due piani simmetrici la struttura. La simmetria, tuttavia, non viene rispettata dall’alternanza di pieni e vuoti: in alto troviamo a sinistra due ellissi vuote e una piena e a destra una vuota, una piena e una vuota; quest’ultimo schema si ripete, poi, anche in basso a sinistra, mentre dall’altro lato vediamo un’ellissi piena, una vuota e una piena.

In questa opera non c’è un punto di vista privilegiato poiché i protagonisti sono il ritmo di luce e ombra e l’alternanza di pieni e vuoti che lo genera; osservandola da diverse prospettive, si ottengono giochi visivi sempre nuovi, dati anche dal fatto che non c’è un vero e proprio bilanciamento: in qualunque direzione venga letto lo schema, verticalmente, orizzontalmente o diagonalmente, si hanno tre pieni e tre vuoti da una parte e due pieni e quattro vuoti dall’altra. Il normale bilanciamento dell’opera avrebbe dovuto prevedere che, in alto a sinistra, ci fosse un ‘terzetto’ di un pieno, un vuoto e un pieno come nel gruppo posto in diagonale rispetto a esso e opposto agli altri due. In tal modo vi sarebbe stato un chiasmo perfetto, ma per Melotti “una composizione armonica è bilanciata, ma una composizione bilanciata non è detto che sia armonica” (Melotti, 1971: 101): questa scultura, dunque, trova la propria armonia contrapponendo al tema del chiasmo la variazione, il contrappunto.

La contrapposizione melottiana di pieni e vuoti rappresenta la figura geometrica nel suo esserci e nel suo azzeramento: questa emanazione di qualcosa di visibile e, allo stesso tempo, invisibile costituisce un processo che dall’interno si proietta all’esterno, cancellando la linea di confine tra reale e irreale (Ferrari, 2016: 125-126). Alla base di tutto ciò, come avviene nella ricerca artistica dell’amico e compagno di Accademia Lucio Fontana, sta il desiderio di superamento dei limiti posti dal supporto artistico dell’opera stessa. In Concetto spaziale. Attesa (fig. 4) il capofila dello Spazialismo porta alle estreme conseguenze l‘incisione del maestro Wildt (Whitfield, 2016: 128) forando violentemente l’idropittura bianca su tela e generando un processo dall’esterno all’interno che invita l’osservatore a concepire fluidità e continuità tra lo spazio al di qua e al di là della tela. Il vuoto così, in entrambi i casi, diventa sostanza e pienezza di senso (Ferrari, 2016: 127).

Fontana, però, nella sua produzione fa uso di un altro elemento: il monocromo. Esso, impiegato anche in alcune opere di Melotti come Scultura n. 16 (fig. 5) e Scultura n. 23, si diffonde nell’arte italiana soprattutto negli anni Sessanta e rappresenta una tabula rasa, una volontà di azzeramento, con il fine di far riflettere sull’arte stessa ma anche sulle condizioni dell’essere umano (Barbero, Pola, 2018: 68).

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Fig. 5 Fausto Melotti (Rovereto 1901-Milano1986), Scultura n. 16, 1935, gesso, cm 90 x 90, Collezione privata, Milano

 

In queste sculture, più che mai, l’astrattismo è un esercizio di sintassi compositiva di forme per calibrare luci e ombre: in Scultura n. 16 la superficie viene forata da forme cilindriche che poi si ripropongono in rilievo a costituire un’ellissi, doppia di quella incisa poco più a destra (Versari, 2007: 283). Addirittura queste opere sono meglio definibili come ‘pitture-oggetto’ perché avvicinabili a Superficie bianca (fig. 6) di Enrico Castellani e Bianco (fig. 7) di Agostino Bonalumi; esse rappresentano l’uscita dalla bidimensionalità della monocromia attraverso introflessioni ed estroflessioni che creano contrasti tra luce e ombre. La forma, inoltre, tende a staccarsi sempre più dalla parete e a diventare un bassorilievo (Barbero, Pola, 2018: 78-79). Un vero e proprio bassorilievo di Melotti, come indicato anche dal titolo stesso, è Bassorilievo lance (fig. 8). L’artista qui pone su una base quadrata, appesa alla parete, cinque fili di inox che fuoriescono dal perimetro e sostengono cerchi e triangoli insieme a un sesto filo, più breve, che invece regge un rettangolo pieno ma con sei fori: tre a forma di cerchio e tre di triangolo. Le cosiddette ‘lance’ sembrano le righe di un pentagramma e le figure geometriche, orientate in diverse direzioni, le note musicali. La prima, la terza e la quinta riga a partire da sinistra presentano combinazioni regolari: cerchio-cerchio, cerchio-triangolo, triangolo-triangolo. La seconda riga completerebbe questa serie con la combinazione triangolo-cerchio se non fosse che la distanza tra le due figure è ridotta dando luogo a una ‘variazione’; senza considerare, poi, la quarta riga che presenta solo un triangolo. Il rettangolo sul sesto filo sembra essere la matrice delle figure del ‘tema’ sebbene le dimensioni non coincidano: ciò crea con esse una contrapposizione di pieni e vuoti. Le ‘note’ della ‘variazione’, al contrario, non hanno nessuno stampo come a indicare la loro natura improvvisata: l’artista, come un musicista jazz (Celant, 1995: XVI), arricchisce il ritmo con nuovi elementi estemporanei che, però, come secondo le leggi del contrappunto, non devono rovinare le composizioni, bensì renderle più interessanti.

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Fig. 5 Enrico Castellani (Castelmassa 1930-Celleno 2017), Superficie bianca, 1968, acrilici e tecnica mista su tela, cm 265 x 532, Collezione privata, Courtesy Fondazione Marconi, Milano. Enrico Castellani by SIAE 2018.

Tra astrazione e figurazione

Durante la seconda guerra mondiale, Melotti abbandonò momentaneamente l’astrattismo puro per avvicinarsi alla figurazione. Nacquero i primi Teatrini, piccole costruzioni a forma di scatola dove i soggetti sono personificazioni che ricordano figure della Metafisica9. L’artista, comunque, affermò di non aver abbandonato l’idea rigorosa di contrappunto ma di aver voluto creare qualcosa di più figurativo (Celant, 1995: XIV) e ciò è confermato da come queste strutture rispettassero la proporzione aurea e dal fatto che chiamasse i Teatrini Lieder, ossia musica da camera tedesca tra le più intime (Poli, 2017: 24).

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Fig. 9 Fausto Melotti (Rovereto 1901-Milano1986), Metrò natalizio, 1965, ottone, cm 82 x 53 x 32, Collezione privata, Courtesy Repetto Gallery. Foto Daniele De Lonti.

Negli anni Sessanta Melotti, pur recuperando l’astrazione, continuò a costruire opere come ne fosse il regista occupandosi sempre anche dei rapporti tra ombre e luci. Queste tracce di figurazione sono evidenti in Metrò natalizio (fig. 9) che sembra la ‘smaterializzazione’ di un Teatrino. L’opera si presenta come un parallelepipedo sostenuto da asticelle che sembrano delimitare in maniera imprecisa il perimetro, raccordare delle parti interne più piccole e rialzare tutta la struttura.  Il lato destro è quasi totalmente chiuso da una lastra di ottone con tre fori ovali allineati in alto e attraversati da catenelle. Al contrario, il lato sinistro è in gran parte vuoto poiché attraversato solo da una stretta fascia orizzontale; la ‘parete di fondo’ della scultura presenta solo una lunga e piatta fascia metallica verticale a cui ne corrisponde un’altra, lievemente spostata, nel lato opposto. In basso la superficie è discontinua e distribuita in due livelli, quello destro più basso e orizzontale, quello sinistro più alto e inclinato nel quale si impiantano altri rigidi fili di ottone che culminano con sfere variamente decorate. In mezzo a queste due lastre di base si trova un’altra struttura di modeste dimensioni che presenta un foro dal quale si vede un’asticella dall’estremità sferica decorata come le precedenti. In alto, infine, non c’è alcuna superficie ma si può vedere un piccolo elemento d’ottone dal perimetro irregolare e da cui partono dei fili allungati ascendenti e delle catenelle che vanno a poggiarsi nella parte alta del perimetro della parete frontale. Con ogni probabilità qui Melotti ha voluto rappresentare ciò che aveva scritto nei ‘foglietti’:

Il metrò a Natale
Fischia come una cometa
Sulle scale il freddo la nebbia la neve
Si danno gli spintoni (Melotti, 1981: 45).

La struttura sembra essere il metrò (con i finestrini in alto a destra), l’elemento in alto la cometa, la piccola struttura centrale la locomotiva con il conducente e le figurine filiformi a lato, di ricordo giacomettiano, dovrebbero essere i passeggeri. Il tema del metrò rimanda alla tecnologia, al dinamismo e, di conseguenza, al rapporto che Melotti aveva con il Futurismo10: sono da osservare le catenelle che, in relazione al moto, possono generare rumore e, quindi, dare vita a una sinestesia, elemento che contribuisce alla resa maggiormente diafana di un’opera; tale processo si accentuerà dagli anni Settanta in poi.

Le effimere di Celle

Dal 1969 in poi Melotti non cercò più la perfezione geometrica precedente ma curò maggiormente l’aspetto fiabesco delle sue opere tentando di alleggerirle sempre di più, realizzando come degli ‘scheletri’ evanescenti e mobili. Uno dei migliori esempi per spiegare questo passaggio è la scultura Tema e variazioni II (fig. 10) del 198111. Questo complesso orchestrale formato da elementi diversi, ciascuno con il proprio ritmo singolare, dà un senso di trasparenza, instabilità e spiritualità, soprattutto nella sua nuova collocazione a Celle. Lo stesso Italo Calvino, amico di Fausto Melotti e da lui influenzato per le sue Città invisibili (Modena, 2004: 217-242), descrivendo queste strutture in Le effimere della fortezza, scrisse:

Noi guizziamo nel vuoto così come la scrittura sul foglio bianco e le note del flauto nel silenzio. Senza di noi, non resta che il vuoto onnipotente e onnipresente, così pesante che schiaccia il mondo, il vuoto il cui potere annientatore si riveste in fortezze compatte, il vuoto-pieno che può essere dissolto solo da ciò che è leggero e rapido e sottile (Fiz, 2000: 102-103).

In queste ‘effimere’, dunque, l’immaterialità è data non solo dalla loro stessa struttura sintetica, ma anche dal rapporto mimetico che instaurano con la natura (Celant, 1995: XXI); proprio come in Metrò natalizio il movimento di alcuni elementi mobili genera sinestesie, ma qui c’è una novità: a innescare i suoni è il vento che diventa così protagonista dell’opera12.

Conclusione

La grande diversità delle opere di Melotti può essere fraintesa come incertezza o aderenza da parte dell’artista a diversi movimenti (D’Aurizio, 2015: 119) ma, in verità, è proprio il contrario. Come disse il poeta Giovanni Raboni in proposito, questa era solo “una forma di grande coerenza con le richieste della propria interiorità” (Commellato, 2000: 16). Dalle sculture di carattere più geometrico e astratto a quelle più figurative, lo scopo è sempre quello dell’occupazione armonica dello spazio e il mezzo, insieme alla scultura, è la musica che si trova in varie forme: come ritmo con le contrapposizioni tra pieni e vuoti, presenze e assenze, luci e ombre; come silenzio nei monocromi; come intimo Lied nei Teatrini; come soave melodia (di origine più o meno naturale) nelle strutture con elementi mobili. Questo continuo rinvio delle opere di Melotti alla musica, considerando la sua concezione di unitarietà delle varie arti, è in fondo un riferirsi dell’arte a se stessa (Ciccuto, 1998: 117): estende il modulo architettonico anche a tutte le altre forme d’arte, porta la sinestesia delle sue poesie nelle sue sculture metalliche, mantiene la stessa attitudine registica dei Teatrini anche nelle opere astratte.

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Fig. 10 Fausto Melotti (Rovereto 1901-Milano1986), Tema e variazioni II, 1981, inox e rame, cm 600 x 150 (ciascuna), Collezione Giuliano Gori, Fattoria Celle, Santomato

 

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Note


1 Autore di KN, testo definito da Kandinskij il “Vangelo dell’arte astratta”.
2 Questa era considerata da Melotti un modello fondamentale anche per l’importanza che l’archeologia aveva assunto a Rovereto in quegli anni grazie a personalità come Paolo Orsi e Federico Halbherr.
3 Da non confondere con l’arte informale, poiché Melotti non giunge mai a rappresentazioni irrazionali, inconsce e incontrollate come quelle di Emilio Vedova e Leoncillo, ma solamente antiformali (Celant, 1995: XVIII).
4 Un caso simile è quello di Osvaldo Licini secondo cui “la geometria può diventare sentimento, poesia più interessante di quella espressa dalla faccia dell’uomo, quadri che non rappresentino nulla ma che a guardarli procurino un vero riposo per lo spirito” (Scappini, 2010: 249).
5 “ricordi di fiabe lontane, di sogni; la nostra fanciullezza ci segue sempre, inutile volerla ignorare; ci segue con il ricordo dei nostri paesi, delle nostre vecchie case, dei nostri fiumi e prati” (Bacile, 1975: 56).
6 Concezione data dall’influenza del design Bauhaus e del pensiero morrisiano che contemplava l’integrazione fra le arti nella società.
7 La fillotassi è una branca della botanica che studia l’ordine con cui le varie entità botaniche vengono distribuite nello spazio, conferendo una struttura geometrica alle piante.
8 Spiritualità che, però, in Melotti poteva arrivare ad assumere delle sfumature religiose per la sua cultura cattolica e, soprattutto, per l’influenza che la dottrina di Antonio Rosmini (Fontana, 2005: 9), filosofo e teologo di Rovereto, ebbe sulla formazione della sua poetica attraverso il perseguimento dell’equilibrio tra ragione e religione. La risposta che ha dato artisticamente l’artista alla ricerca rosminiana è che “nello sviluppo inconsapevole, ovverossia nello sviluppo controllato e per altro verso incontrollabile, di tutta un’opera, la prima linea tracciata già ne tiene e manifesta il canone” (Melotti, 1981: 48): solo con il contrappunto si ottiene l’equilibrio, o meglio l’armonia.
9 E’ da notare, però, che mentre le figure dechirichiane si chiudevano in se stesse dando spazio al silenzio, Melotti racconta il silenzio concentrandosi nell’intimità della propria vita quotidiana individuale (Celant, 1995: XIV).
10 È chiara l’influenza della Ricostruzione futurista dell’Universo mediata dal contatto con Fortunato Depero negli anni in cui quest’ultimo si trovava a Rovereto (Celant, 1995: VII).
11 La scultura venne realizzata come riproduzione dell’omonima e più piccola opera del 1969 in occasione della mostra retrospettiva di Melotti al Forte Belvedere di Firenze; alla conclusione dell’evento Fausto Melotti e Giuliano Gori, proprietario della villa e della collezione di Celle a Santomato (Pistoia), decisero di sistemarla in uno specchio d’acqua enfatizzando così la leggerezza e la diafanità della struttura che adesso sembra levitare e vibrare.
12 Si può parlare allora di cinetismo naturale in opposizione a quello meccanico di Moholy Nagy e del Futurismo.

L’Ironia Come Atteggiamento Proprio dell’Artista e Suscitato nello Spettatore

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La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:

  • arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
  • opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
  • la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
  • l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.

Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità dalla proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.

 

di Marta Matassoni

Sintesi

All’inizio del Novecento i filosofi russi Sergej N. Bulgakov e Nikolaj Berdjaev guardarono con preoccupazione agli esiti di futurismo e cubismo, avvertendo nella loro volontà di rinnovamento una grave crisi dell’arte e dell’umanità intera. Qualche anno più tardi il filosofo spagnolo Ortega y Gasset individuò una possibilità di salvezza nel “destino ironico” dell’arte, che si sarebbe attuato pienamente nelle ricerche dell’italiano Piero Manzoni nel corso degli anni Sessanta. Fortemente debitore delle sperimentazioni duchampiane Manzoni si fece promotore di un’operazione dadaista concettuale d’impronta esplicitamente ironica, modificando radicalmente la natura dell’opera d’arte e instaurando un nuovo dialogo con lo spettatore.
Parole chiave: Ortega y Gasset, Piero Manzoni, ironia, Dada, arte concettuale

Il destino ironico dell’arte e il “fattore Duchamp”

Tra 1915 e 1918 i filosofi russi Sergej N. Bulgakov (1871-1944) e Nikolaj Berdjaev (1874-1948), poco dopo aver visitato la mostra di Picasso presso la galleria Ščukin di Mosca, rilevarono con grande sconcerto la presenza di una grave frattura nel rapporto fra arte e vita, “fra la creatività e l’essere” (Berdjaev, 2012: 41), anticipando una questione che sarebbe stata centrale anche nei decenni successivi e di cui tutt’oggi si discute1.
Qualche anno più tardi il filosofo spagnolo Ortega y Gasset (1883-1955) ne La disumanizzazione dell’arte (1925) tentava di analizzare quel cambiamento senza precedenti innescato all’interno del panorama artistico novecentesco dalle avanguardie storiche, che avrebbero condizionato in maniera irreversibile anche tutte le manifestazioni artistiche a venire, individuando una possibilità di salvezza proprio nel destino ironico dell’arte. Tra le diverse tendenze proprie di questa “arte nuova” il filosofo individuava, infatti, oltre all’inconfutabile presenza di una nuova sensibilità estetica, un’essenziale ironia di fondo (Ortega y Gasset, 2016: 17) e descriveva le nuove correnti artistiche come “un fenomeno d’indole equivoca […] perché equivoci sono tutti i grandi fatti di questi anni in corso” (2016: 44). Quel carattere serio e ieratico dell’arte del passato, che talvolta “pretendeva perfino di condurre a salvamento la sorte umana” (2016: 45), non sembrava più essere una componente propria dell’arte dell’ultimo secolo. Proprio questa ironia, notava Ortega, è ciò che sconcerta maggiormente la sensibilità delle persone serie, che si rifiutano di riconoscere nella farsa l’essenziale vocazione dell’arte2. Questa, infatti, in quanto rappresentazione, risulta necessariamente orientata alla ricerca della finzione, finalità che può scaturire soltanto da una “condizione di spirito gioviale” (2016: 45).
Ortega, del resto, non sarebbe stato il primo a evidenziare l’intento ironico dell’arte, dal momento che, come ricorda lui stesso, all’inizio del XIX secolo un gruppo di romantici tedeschi guidati dai fratelli Schlegel aveva dichiarato l’Ironia la più alta categoria estetica ed eletto il poeta moderno come l’ironista per eccellenza (Givone, 2011: 64). Quest’ultimo, infatti, dopo aver sottoposto a un’attenta critica i materiali della tradizione, li trasforma radicalmente, conducendo l’arte verso “l’indistinzione fra apparenza e verità, fra il serio e lo scherzoso” (2011: 65). Nel suo tentativo di creazione di un orizzonte irreale l’arte non si libera del suo concetto di verità, ma questa viene semplicemente trasferita in un altrove, “cui si risale non già perché sia possibile raggiungerla, ma perché il risalimento è compito fine a se stesso” (2011: 64).
Prima ancora che Ortega pubblicasse La disumanizzazione dell’arte, la riflessione sull’ironia in relazione alle diverse manifestazioni artistiche, venne affrontata anche da Luigi Pirandello, che ne individuò una certa somiglianza con il concetto di “umorismo” (Pirandello, 1994: 10), strumento essenziale per cogliere le più profonde contraddizioni della realtà, da lui teorizzato nell’omonimo saggio pubblicato nel 1908 (Ardizzola, 2014: 9). Pirandello descrive l’umorismo come “sentimento del contrario”, e cioè come un complesso stato d’animo che consente all’artista di vedere un aspetto della realtà, avvertendone al tempo stesso il suo contrario (Pirandello, 1994: 116). L’umorismo, che consiste dunque in un “fenomeno di sdoppiamento” (1994: 175), non esclude la comicità, ma questa ne rappresenta solo il momento iniziale per lasciare spazio a una riflessione più profonda.
L’analisi di Pirandello sull’umorismo, sebbene trovi maggiori affinità con la pittura espressionista più che con le successive manifestazioni artistiche, come non manca di sottolineare Paola Ardizzola (2014: 8), è comunque sintomatica dell’affermarsi della tendenza, rilevabile già nelle opere del belga James Ensor3 (Fig.1), a servirsi dell’ironia come strumento per aggredire la società del proprio tempo. Il fine era quello di rivelarne superstizioni, vizi e ipocrisie, esortando lo spettatore a modificare la sua idea di arte.

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Fig.1: James Ensor, Autoritratto con maschere, 1899, olio su tela, 117×80 cm, Aichi, Ménard Art Museum


Se i pittori espressionisti
credevano ancora nell’arte, al contrario, i dadaisti operarono un rovesciamento anche del tradizionale statuto di opera d’arte. La polemica contro la società aveva orientato molte delle opere espressioniste, ma i dadaisti assunsero una posizione ancor più radicale, opponendosi a tutto ciò che era espressione di quella società, comprese le sue manifestazioni artistiche (De Micheli, 2018: 156). Massimo protagonista dell’arte di Dada fu naturalmente Marcel Duchamp, che contravvenne a tutto quello che fino a quel momento era stato elemento portante e imprescindibile dell’opera d’arte e, attraverso una serie di operazioni fortemente connesse al caso e impregnate di ironia, propose come oggetti esteticamente rilevanti comunissimi prodotti pre-confezionati, seriali, anonimi (Barilli, 2005: 189).

Come evidenzia Maurizio Calvesi (2008: 323), fondamentale era la decontestualizzazione dell’oggetto prelevato e la sua conseguente destinazione a una funzione inaspettata e inconsueta, che generava nell’osservatore un effetto di spaesamento (Fig. 2).

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Fig. 2: Marcel Duchamp, Fountain, 1917, replica 1964, porcellana, 36x48x61, Londra Tate Modern

Il “fattore Duchamp”, come lo chiama Alessandro Del Puppo (2013: 40-41), fu indispensabile per l’affermarsi di un’arte che si sarebbe rifugiata sempre più nell’anestetico: Duchamp, attraverso le tecniche del comico e dell’ironia, dimostrò come, anziché rincorrere forme ingannevoli e illusorie, la realtà intera, nei suoi aspetti più concreti e banali, poteva essere riconosciuta come artistica. Tra lo spettatore e l’oggetto iniziò così a stabilirsi un nuovo e inconsueto rapporto, impostato sulla componente dell’ironia, essenziale nella logica duchampiana, ma anche in molte delle successive correnti artistiche.

Ironia e provocazione nell’opera di Piero Manzoni

Negli anni Sessanta del Novecento con le sue scatolette di Merda d’artista (Fig. 3) l’italiano Piero Manzoni (1933-1963), con un atto ancora più estremo rispetto agli scandali suscitati dalle opere duchampiane (Argan 1970: 656), si era fatto promotore di un’operazione dadaista concettuale d’impronta esplicitamente ironica. Secondo una paradossale messa in discussione dello statuto di opera d’arte, così come era avvenuto per Fountain (1917), l’artista aveva riempito novanta scatolette dei suoi escrementi, ciascuna dal contenuto netto di trenta grammi, tutte conservate al naturale e rigorosamente “made in Italy” (Celant, 2014: 143). In questa ironica operazione di inscatolamento Manzoni aveva trasformato la materia più bassa e umile che esiste, vendendola a peso d’oro e conferendole la dignità di opera d’arte. Qualora si volesse verificare l’effettivo contenuto della scatoletta, si finirebbe col distruggere irrimediabilmente l’opera, annullandone il valore (Criqui, 1992: 22).

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Fig. 3: Piero Manzoni, Merda d’artista n. 68, maggio 1961, scatoletta di latta, carta stampata, cm 4,8 x 6,4 Milano Fondazione Piero Manzoni. Foto Agostino Osio © Fondazione Piero Manzoni Milano by SIAE 2018

Rifacendosi alle pratiche di rovesciamento e spaesamento proprie dei ready-made, Manzoni invitava l’osservatore ad assumere una prospettiva differente; se nella frustrazione della visibilità dell’opera, chiusa nella scatoletta, vi è un’adesione a una ricerca di tipo mentalistico e di impronta concettuale, si nota parallelamente una decisa affermazione del valore supremo del corpo attraverso il coinvolgimento delle stesse funzioni vitali dell’artista, che si poneva in anticipo della Body Art (Barilli, 2005: 293).

In questa irriverente operazione si rileva, inoltre, una critica verso il feticismo e la brama di possesso di alcuni collezionisti d’arte (Celant, 2014: 143): ad essi l’artista, provocatoriamente, aveva dichiarato di voler offrire qualcosa di veramente intimo e personale come i suoi stessi escrementi (Dutton, 2008: 202).

Nell’ottica di Manzoni, al di là dell’atto dichiaratamente demistificatorio, il compito dell’artista doveva diventare anche quello di renderci vigili e consapevoli del nostro stesso esistere: non è più necessario articolare alcun messaggio, “c’è solo da essere, c’è solo da vivere” (Criqui, 1992: 24).

Nel luglio del 1960 in occasione della performance condivisa di Consumazione dell’arte (Fig. 4), Manzoni invitava il pubblico a cibarsi di un uovo sodo timbrato con la propria impronta digitale (Celant, 2014: 139); con questo atto, dal carattere fortemente simbolico e provocatorio, intendeva trasmettere la propria creatività e lucidità esistenziale allo spettatore-consumatore, coinvolgendolo attivamente e accentuandone la percezione sensoriale4.

Del medesimo anno sono i Corpi d’aria5 (Fig. 5), “sculture da viaggio” che lo spettatore poteva gonfiare personalmente o acquistare a un prezzo maggiore già gonfiate dall’artista, trasformandosi in tal caso in Fiato d’artista6(Barbero, Pola, 2018: 77).

Alla messa in discussione dello statuto di opera d’arte si accompagna, dunque, anche una divertita e sarcastica riflessione sulla mercificazione dell’arte e sulla volubilità con cui il mercato crea valore: l’artista immette sul mercato qualcosa da lui stesso prodotto, che va a confondersi come bene di consumo insieme a una miriade di altre offerte (Celant, 2014: 144).

Nell’opera di Manzoni, oltre all’esigenza di ridefinire il ruolo dell’artista nella contemporaneità e di fare dell’opera d’arte un dirompente strumento di provocazione, emerge anche un’evidente critica verso la società dei consumi di massa, al cui rassicurante orizzonte visivo avevano aderito pienamente gli artisti della pop art. D’altra parte, il periodo storico in cui Manzoni si trova a operare, corrisponde all’apogeo del neocapitalismo, nonché allo sviluppo delle moderne strategie di marketing e al considerevole aumento del numero di consumatori (Del Puppo, 2013: 43-44). Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta la città di Milano era stata totalmente investita da questo processo di modernizzazione e industrializzazione, che aveva prodotto significative trasformazioni a livello sociale, politico e culturale, con le quali l’arte non aveva potuto fare a meno di misurarsi e interagire (Barbero, Pola 2018: 66).

Manzoni non credeva più in un’arte che fosse rappresentazione mimetica della realtà o espressione dell’interiorità dell’artista ed era estremamente critico verso tutti quei pittori che intervenivano sulla tela con il loro corpo e la loro soggettività (Celant 2014: 132-133). Non potendo più esprimere se stesso attraverso la superficie della tela, come prova la sua serie di Achromes (Fig. 6), in cui la materia si mostra come puro significante, Manzoni era arrivato a far coincidere l’arte con il soggetto stesso, con le sue azioni, i suoi gesti e le tracce del suo esistere (2014: 23).

A Roma nel 1961, in un’operazione tra il serio e lo scherzoso, aveva iniziato a riconoscere le prime persone quali opere d’arte, certificandone lo status con la propria firma e rilasciando persino una ricevuta di autenticità7 (2014: 144-146). Si poteva diventare temporaneamente opera d’arte anche salendo sulla Base Magica, che poi si trasformerà nello Socle du Monde (Fig. 7), piedistallo rovesciato a sostegno dell’intero pianeta che, come un duchampiano ready-made, viene elevato ad opera d’arte insieme a tutti i suoi abitanti (Galimberti, 2012: 87).

Nell’opera di Manzoni, con i suoi molteplici livelli di lettura e la presenza di una forte componente ironica, sembra emergere proprio ciò che Ortega avvertiva nelle avanguardie storiche e che poi avrebbe contraddistinto molte delle correnti artistiche successive. Se da un lato l’esito dell’operazione umoristica di Manzoni, di chiara derivazione duchampiana, aveva determinato la dissoluzione dell’“aura”8 e della sacralità propria dell’opera d’arte come unicum, dall’altro veniva riaffermata con forza la centralità dell’artista e della sua opera.

Quella di Manzoni non era dunque una sterile provocazione, ma rientrava in una riflessione più profonda, volta a creare un nuovo rapporto con lo spettatore e a stabilire un più saldo nesso tra arte e vita. Pur nella sua brevità, l’esperienza di Piero Manzoni, con la sua straordinaria carica innovativa, si rivelerà fondamentale per comprendere molti dei percorsi intrapresi dagli artisti degli anni Sessanta (Serraller, 1992: 38).

L’ironia come strumento di critica

Il difficile rapporto tra arte e società, che aveva generato un’accesa polemica dopo la prima guerra mondiale, a seguito della seconda s’inasprì a tal punto che la “morte” dell’arte sembrava ormai imminente e ineluttabile (Argan, 1970: 605). Lo choc provocato dalla seconda guerra mondiale ebbe profonde conseguenze sulle ricerche artistiche e il volto dell’arte, sottoposto a una continua metamorfosi, non sarebbe più stato lo stesso (Celant 2014: 105). Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, in Europa e negli Stati Uniti, alcuni artisti, come Piero Manzoni, iniziarono a indagare sulla natura e il senso dell’arte, arrivando a mettere in discussione l’oggetto artistico in quanto tale, non più in grado di trasmettere verità assolute e, come osservava Argan (1970: 608), spesso vittima di un mercato che finiva con lo svilire l’opera, abbassata a una merce qualunque. La volontà di trasgressione e rinnovamento, che si fecero più accese soprattutto in seguito alle contestazioni politiche e alle tensioni sociali del Sessantotto, sarebbe proseguita ancora per tutti gli anni Settanta, arrivando a sottoporre a un’aspra critica persino le stesse istituzioni espositive, che divennero oggetto di un’impietosa parodia9 (Del Puppo, 2013: 98-99). Tuttavia all’interno di quella che nel 1947 Max Horkheimer e Theodor Adorno definirono come “industria culturale”, l’arte poteva ancora avere una funzione essenziale: rivoltandosi contro il suo essere stata ridotta a bene di consumo, l’arte diventa caricatura e negazione di se stessa, “non nel senso di scomparire, togliersi di mezzo, hegelianamente morire […], ma nel senso di tenere aperta la possibilità di uno sguardo controluce sul mondo e di dar voce, paradossalmente, magari ammutolendo, alla ‘vita offesa’” (Givone, 2011: 126). Proprio sfruttando le armi del paradosso e dell’ironia, alcuni artisti tentarono di suscitare un atteggiamento critico nello spettatore, spingendolo a interrogarsi sul proprio modo di percepire e fruire la realtà.

Incredibilmente furono proprio gli artisti a minacciare la “morte” dell’arte che, nella sua tradizionale concezione, era stata fin troppo strumentalizzata e banalizzata (Argan, 1970: 608), eppure l’arte, proprio come aveva profetizzato Ortega (2016: 45), “in questa attitudine di annientare se stessa, continua ad essere arte e, per una miracolosa dialettica, la sua negazione diventa la sua conservazione e il suo trionfo”.

 

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Note


1 La riflessione sulla “crisi dell’arte” è stata affrontata da Hans Sedlmayr in Perdita del Centro. Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca (1948) e più recentemente da alcuni critici come Jean Clair.
2 “Ma l’artista ci invita a contemplare un’arte che è uno scherzo […] Invece di ridersi di qualcuno o di qualcosa […] l’arte nuova mette in ridicolo se stessa. E non ci si deve allarmare a sentire queste proposizioni. Mai l’arte ha palesato meglio il suo magico dono come in questa burla di se stessa”. J. Ortega y Gasset , La disumanizzazione dell’arte, Milano, 2016, p. 45
3 James Ensor (1860-1949) dichiarò nei suoi Scritti di essere stato “conquistato dall’ironia”, di cui si servì per deformare la pittura tradizionale, senza ancora trasformarla del tutto. Cfr. M.A. Caws (ed.), Manifesto: a century of -isms, University of Nebraska Press, 2001, p. 263
4 “Anche Manzoni divora l’uovo. Alla ricerca di un’auto-fecondazione […] mangia il suo stesso corpo, l’uovo segnato dal suo pollice. La conseguenza, condivisa dal pubblico, è la consapevolezza di un’unione mistica con l’arte, un’elevazione del soggetto a opera” G. Celant, Su Piero Manzoni, Milano, 2014, p. 140
5 “I Corpi d’aria, quelle sculture pneumatiche che nascono grazie al soffio-pneuma dell’artista, ripropongono il divino insieme all’umano. Pneuma è l’atto di ispirazione divina per il quale si soffia l’anima dentro la materia, che si trasforma così in materia animata vitale” F. C. Seraller, “Dire, essere, vivere”, in G. Celant (a cura di) Piero Manzoni, Electa, Milano, 1992, p. 36
6 Con i Corpi d’aria e la serie dei Fiati vi era anche una ripresa letterale da Duchamp, che nel 1966 in una lunga intervista aveva affermato: “each second, each breath is a work which is inscribed nowhere, which is neither visual nor celebral. It’s a sort of constant euphoria” P. Cabanne, Dialogues with Marcel Duchamp, Cambridge (MA), 1979, p. 72
7 “Su ogni ricevuta e ogni matrice, Manzoni incolla un bollino di colore rosso o giallo, verde o viola. Ogni colore ha un significato specifico: il rosso indica che l’individuo è un’opera d’arte completa e tale rimane sino alla sua morte. Il colore giallo che è valida solo la parte firmata. Con il colore verde si pongono a una condizione e una limitazione al gesto o all’atteggiamento plastico del corpo, per cui si è arte solo in certe posizioni, ad esempio dormendo, parlando, camminando o correndo. Infine il viola ha gli stessi effetti del rosso, solo che è «a pagamento». Tra gli ammessi all’empireo dell’arte: Marcel Broodthaers, Umberto Eco, Emilio Villa e Henk Peeters” Celant, op. cit., 2014, pp. 145-146
8 Walter Benjamin (1892-1940) aveva elaborato il concetto di “aura” dell’opera d’arte nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936, in cui sosteneva che, a causa della sua riproduzione tecnica, l’opera finiva col perdere la sua unicità e il suo carattere auratico, aprendo a un’esperienza del tutto diversa.
9 Nel 1969 l’artista statunitense Robert Barry inviò 4000 biglietti d’invito per tre mostre, che si sarebbero tenute ad Amsterdam, Torino e Los Angeles, con le quali informava i destinatari che durante l’esibizione la galleria sarebbe rimasta chiusa. Ancora più ironico il belga Marcel Broodthaers che istituì nella sua casa studio di Bruxelles un museo personale di arte moderna che, nella sua grottesca organizzazione, doveva rappresentare una parodia delle istituzioni espositive e degli eventi di politica culturale. Sulla critica istituzionale cfr. A. Del Puppo, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento, Torino, 2013, pp. 96-99

“Un’Inattesa Fanciullezza”: l’Attico negli Anni di Pascali, 1966 – 1968

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La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:

  • arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
  • opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
  • la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
  • l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.

Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità della proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.

 

di Emma Rossi

Sintesi

Gli ultimi due anni di vita di Pino Pascali sono profondamente segnati dal rapporto con Fabio Sargentini e con gli artisti che gravitano intorno alla sua galleria, L’Attico. Un aspetto significativo nelle opere di tale periodo è l’ironia, che egli utilizza in base ad una concezione per certi versi affine ma fondamentalmente opposta a quella dell’amico Jannis Kounellis.

Parole chiave: L’Attico, Fabio Sargentini, Pino Pascali, Jannis Kounellis, ironia.

Introduzione

Nel 1966 prende forma lo stretto sodalizio tra Pino Pascali e Fabio Sargentini. Pascali è un giovane artista eclettico, pugliese ma formatosi all’Accademia di Roma, conosciuto nel mondo della pubblicità per i suoi lavori grafici ed anche già noto ai critici per le sue prime mostre presso La Tartaruga di Plinio De Martiis e da Sperone, a Torino. Fabio è figlio del gallerista Bruno Sargentini, proprietario de L’Attico, sta cercando l’indipendenza e l’occasione gli si offre proprio nell’incontro con Pascali: la mostra Pino Pascali Nuove sculture, che inaugura il 29 novembre, è la prima che lui organizza in completa autonomia e segna l’inizio di una nuova stagione in cui L’Attico sarà al centro della scena artistica romana. Fino all’11 settembre del 1968, data della tragica morte dell’artista a causa di un incidente, le mostre proposte sono grandemente influenzate dalla poetica di Pascali. L’altro artista di punta della galleria è in quegli anni Jannis Kounellis, di origine greca, giunto anch’egli a Roma nel 1956 e noto per alcuni lavori esposti a La Tartaruga. I due lavorano, per e con Sargentini, su temi comuni e si influenzano a vicenda nella ricerca.

Ricorrono, nelle opere presentate a L’Attico nel biennio 1966-1968, la tematica del gioco e i riferimenti al mondo dell’infanzia. Si evidenzia da parte degli artisti un atteggiamento interpretabile su più piani: se entrambi compiono operazioni “ironiche” in senso corrente, cioè si prendono gioco di determinate convenzioni, ad un livello più profondo si può operare una distinzione tra Pascali, che esercita l’ironia nel suo senso etimologico di “finzione” 1 e Kounellis, che si pone lo scopo contrario, cioè quello di svelare, per frammenti, la realtà così com’è.

Il mare in una stanza

La mostra Pino Pascali Nuove Sculture del 1966 si articola in due fasi espositive. Nella prima vengono presentate Decapitazione delle giraffe, Decapitazione del rinoceronte, Il grande rettile, Decapitazione della scultura, Ricostruzione del dinosauro. Nella seconda Il mare, La scogliera, Barca che affonda, Due balene.

Entrambi i gruppi sono formati da opere di grandi dimensioni, che riplasmano lo spazio della galleria. Protagonisti sono gli animali ed alcuni elementi della natura: Pascali proietta il visitatore in un mondo infantile e primordiale, di creature primitive come il dinosauro o tuttora esistenti, riportate alla forma più semplice possibile. L’operazione presenta diversi aspetti ironici: la Decapitazione delle giraffe fa il verso ai trofei di caccia e si prende gioco della “borghesia assassina, che ai propri muri appende parti mutile di animali che furono vivi” (Barbero e Pola, 2010: 33), la Ricostruzione del dinosauro invece allude sarcasticamente agli allestimenti dei musei paleontologici. In Decapitazione della scultura l’ironia è a doppio taglio: “il gioco è, da una parte, dare una forma vivente alla scultura, come se essa possedesse un’animalità plastica fondamentale, dall’altra decapitare questa forma plastica e astratta come se si trattasse di un animale” (Tonelli, 2010: 73).  E poi Il mare (fig. 1), l’opera che più stupisce i visitatori: 24 pannelli di onde colpite in un punto da un fulmine nero dalla forma serpentina di warburghiana memoria, con le Due balene che emergono con la coda dalla parete, come sospese al di sopra dell’acqua. L’opera occupa completamente una sala della galleria, impedendo al visitatore di camminarvi ed innescando una relazione inedita con lo spazio espositivo: “Pascali mi ha suggerito con Il Mare un altro modello di spazio – dichiarerà in seguito Sargentini –  e da allora sono stato fissato con lo spazio da interpretare, non solo da parte degli artisti ma anche da parte mia” (Barbero e Pola, 2010: 195).

L’artista definisce queste sue opere “finte sculture” in quanto la tecnica non assomiglia a quella della scultura vera e propria: la struttura interna è costituita da un telaio in legno e il rivestimento è di tela. Afferma infatti: “io penso di non essere uno scultore, ho questa immagine verso me stesso: è una cosa che potrebbe essere anche grave, ma chissà se è grave, per me anche quello è divertente”. In occasione dell’esposizione della serie delle Armi alla Galleria Sperone di Torino Pascali aveva scritto al gallerista: “penso che il problema è di ripulire l’immagine da qualsiasi attributo e simbolo ricollocandolo nella sua presenza oggettuale”(Tonelli, 2010: 49). L’intento di presentare un’immagine in purezza, al suo stato primordiale, è presente anche nella prima mostra a L’Attico: se le Armi avevano a primo impatto un’apparenza di veridicità, nelle “finte sculture” la finzione è ancor più evidente; “è la finzione – dice in un’intervista – che determina automaticamente l’identificazione con una certa immagine, una certa parola sul vocabolario, cannone, scultura, Brancusi” (Lonzi, 2010: 271).

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Fig. 1: Pino Pascali, Il mare, 1966, Galleria L’Attico, tela centinata dipinta su struttura di legno


Il giardino – I giuochi

A partire dal mese di marzo del 1967 L’Attico ospita una mostra personale di Kounellis. Il titolo è Il giardino – I giuochi e le opere sono di varia natura. Rose di tessuto sono applicate alle pareti con bottoni automatici, alcune gabbie contengono uccelli vivi e un ambiente specchiante prevede la presenza dell’artista stesso seduto al centro di binari giocattolo sui quali transita un trenino. Il riferimento, dichiarato anche dal titolo, è al gioco, ma in un’accezione diversa da quella intesa da Pascali: Kounellis presenta sì alcuni elementi legati all’infanzia, ma li inserisce in una dimensione altra “nella quale l’oggetto e la materia – inerte o vitale – sono veicolo di simbologie e allusività primordiali, non futuribili” (Barbero e Pola, 2010: 45). La scelta di inserire degli animali vivi sarà stata forse anche discussa con l’amico Pascali, che in un’intervista spiegava: “È come la storia di prendere in mano un uccello che prima volava, un passero, una rondine…veramente, mi trovo a contatto con un essere che non fa parte dei calcoli, capisci, esisteva già e ha la mia stessa presenza, mia stessa carica di vita, mia stessa natura.” (Lonzi, 2010:15). In Kounellis manca, tuttavia, il distacco ironico pascaliano: l’animale non è il soggetto dell’opera ma è l’opera, gli uccelli invadono lo spazio della galleria con la loro presenza rumorosa, sfidando tutte le convenzioni del sistema dell’arte. Nelle opere dell’artista greco è presente una carica di contestazione sarcastica che le rende quasi aggressive nei confronti dell’osservatore. “I fiori erano quasi una cosa decorativa – dirà – con le gabbie volevo invece disegnare una cornice che con il passare del tempo sporcasse a terra. Così nel carbone c’è una cattiveria nel voler sporcare sotto, è lo stacco tra la struttura e la sensibilità vitale.” (Celant, 1983: 46).

A novembre dello stesso anno, Sargentini presenta una seconda mostra di Kounellis, nella quale vengono esposte le opere Cactus, Pappagallo, Acquario e Cotoniera. Ancora una volta lo spazio ospita creature viventi e a chi vorrebbe leggere le opere secondo criteri puramente estetici l’artista oppone la presenza fisica e reale dell’animale: “una cosa assurda come è legato il pensiero a certi ragionamenti proprio condizionanti, perché uno, così, non riesce a vedere nemmeno che lì c’è un pappagallo, che non è un accostamento di colori, perché il pappagallo è il pappagallo, no?” (Lonzi, 2010: 157). Nel catalogo viene pubblicata la trascrizione di un bizzarro dialogo tra alcuni bambini in visita alla mostra e il pappagallo, una conversazione senza regole e alla pari perché i bambini non sono ancora condizionati dalle convenzioni sociali. Infatti, come afferma Calvesi, “le but ultime de Kounellis semble être l’élaboration d’un espace où, en y entrant, l’homme ne se sentirait plus supérieur à la bête ni même au charbon, mais plutôt une partie intégrante d’un monde libre et sans hiérarchies” (Calvesi, 1969: 36).

Fuoco Immagine Acqua Terra

Pochi mesi dopo Sargentini organizza una mostra collettiva che riunisce molti giovani artisti, gran parte dei quali confluirà nel movimento dell’Arte Povera. Fuoco Immagine Acqua Terra, che inaugura l’8 giugno 1967, presenta i lavori di Bignardi, Schifano, Ceroli, Gilardi, Pistoletto, Kounellis e Pascali, riassumendo “diverse tipologie linguistiche ed operative attorno al dialogo tra la dimensione organica e primordiale degli elementi vitali e la propositività di una nuova immagine” (Barbero e Pola, 2010: 21). 

Gli elementi naturali sono in primo piano; c’è chi, come Gilardi, lavora ad una riproduzione della natura, e chi la rende parte dell’opera: Kounellis, nel suo Senza Titolo (fig. 2) fa emergere una vera e propria fiamma da un fiore metallico; “il più sottile degli elementi – commenta Boatto nel catalogo – esercita il suo aereo incantamento, celebra la liturgia del fuoco” (Barbero e Pola, 2010: 65). Le opere di Pascali rivelano nuovamente un atteggiamento ironico: le sue Pozzanghere e i Metri cubi di terra contengono da un lato la presenza della natura, degli elementi primari della terra e dell’acqua, dall’altro un equivoco: i metri cubi non sono realmente pieni di terra, hanno una struttura cava ed un rivestimento sottile di terra. “La terra ricopre il cubo di legno, è l’idea della terra ma non è terra” (Bonito Oliva, 2004: 63) commenta Kounellis, sottolineando quell’aspetto di simulazione che è proprio di Pascali e distante invece dalla sua visione. Kounellis non imita la natura, ma mira a svelarne alcuni frammenti, “il suo fuoco – afferma Calvesi – prima che un elemento visivo, è quasi un simbolo, un fulcro, un mitico ombelico di realtà”(Barbero e Pola, 2010: 58).

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Fig. 2: Jannis Kounellis, S. T., 1967, Galleria L’Attico, ferro, becco con collettore, tubo di gomma, bombola a gas. Foto Claudio Abate. Giovanni Kounellis by SIAE 2018.

Ricostruzioni della natura

Il 1968 è per Pascali l’anno del massimo successo: dopo aver realizzato varie mostre personali e collettive 2 torna da Sargentini per una nuova esposizione in due fasi e viene chiamato a presentare alcune opere alla Biennale di Venezia. A L’Attico espone Ricostruzioni della natura presentando inizialmente i Bachi da setola e altri lavori in corso e, in un secondo momento, opere come Liane, Ponte, Cesto, Cavalletto, Tela di Penelope.

I Bachi sono creature sovradimensionate formate da spazzole di plastica colorata e sono accompagnati da alcuni bozzoli, posizionati negli angoli che incrementano la leggibilità del gioco di parole. Rappresentano, secondo Fagiolo Dell’Arco, “il lavoro più eloquente e svagato e forse meno profondo, ma chiariscono al massimo il suo metodo: la metamorfosi, un detto-fatto tra immagine e forma” (D’Elia, 1983: 26), sono l’immagine di un’immagine mentale, la concretizzazione di un cortocircuito linguistico – magari pensato inizialmente come battuta 3 – che suscita ironia nell’osservatore. “I suoi giochi di parole – osserva l’amico Vittorio Brandi Rubiu – non sono mai calembours fini a se stessi, ma innescano una reazione a catena” (Brandi Rubiu, 2013: 8).

Il contrasto tra elementi naturali e materiali industriali emerge anche nella seconda fase della mostra: le opere rappresentano strumenti e manufatti primitivi, ma fingono la materialità della corda con pagliette di ferro. Le Liane, il Ponte, il Cavalletto sembrano ricostruire un tempo lontano, un’era preistorica ideale, in cui ancora non esisteva il concetto di arte. I giochi di parole si accavallano: la lana d’acciaio forma una liana, il ponte levatoio ha quasi la struttura di un lavatoio. La Tela di Penelope e l’Arco di Ulisse alludono al mondo della mitologia, presente nel suo immaginario 4, secondo un’evocazione che si serve sempre dell’ironia.

All’interno della mostra Pascali transita spesso, compiendo quasi delle performance involontarie mentre, vestito di rafia come un “selvaggio”, dialoga in dialetto con la sua scimmia Cita; le sue azioni sono state lette in chiave tribale e sciamanica (Stocchi, 2017) ma potrebbero forse essere viste come una modalità di vivere le opere e l’ambiente della galleria, Pascali era d’altronde “più vicino a questa realtà perché si era astratto da essa come pietrificazione storica per conquistarla come la propria realtà individuale, biologica, naturale… realizzazione della fantasia” (Kounellis, 1993: 36).

A partire dal mese di giugno alcune opere di Pascali sono presenti alla XXXIV Biennale di Venezia; si tratta di lavori legati alla cultura primitivista e alla sua passione per l’arte negra, alcuni dei quali già esposti da Sargentini: Pelo, Contropelo, Cesto, Stuoia, Le penne d’Esopo, Archetipo, Solitario e Liane, Vedova blu. I giochi di parole e i rimandi ironici sono sempre presenti nelle opere che formano “un’isola di fantasia in mezzo alla contestazione studentesca che chiedeva all’arte un impegno politico al quale Pascali rispose con libero gioco” (Lodolo, 2012: 181). La contestazione e le lotte non sono, secondo Pascali, cosa da artisti; a differenza di Kounellis si tiene a distanza dal dibattito politico, mantenendo intatto il candore delle sue opere.

L’Attico dopo Pascali

Pascali trascorre in vacanza l’estate del 1968, l’ultima della sua vita; il 29 agosto, appena tornato a Roma, ha un incidente motociclistico che lo porta alla morte pochi giorni dopo.

Fabio Sargentini, sconvolto dal dolore per la perdita dell’amico, continua tuttavia a cercare il nuovo spazio espositivo che stavano immaginando insieme. Nel gennaio del 1969 Kounellis è il primo a misurarsi con le stanze della nuova sede de L’Attico in via Beccaria che è, ironia della sorte, una sorta di garage al piano interrato. L’artista dipinge per Sargentini anche la saracinesca di entrata (fig. 3), che diventa allo stesso tempo porta ed insegna. La mostra di Kounellis si intitola 12 cavalli vivi e le opere esposte sono realmente dodici cavalli: egli porta all’estremo l’operazione già in nuce ne Il giardino – I giuochi e in Pappagallo, invadendo lo spazio espositivo con dei frammenti di realtà vera; il confine tra arte e vita è annullato. La carica contestataria è fortissima: “quando le strutture, come la galleria, invadono troppo il mio mondo, ne mostro la profondità e tiro l’arco in modo che per loro è impossibile entrare, se entrano ci lasciano la pelle” dichiara Kounellis (Celant, 1983: 62). I cavalli con la loro presenza reale sconvolgono lo spazio neutrale della galleria, annientano la possibilità di una visione estetica e di una interpretazione. Il punto di arrivo di Kounellis è radicale e la sua posizione rispetto all’ironia è diametralmente opposta a quella di Pascali. Pascali aveva mantenuto l’atteggiamento del bambino “che copia il padre e si mette la pistola, perché il padre porta la pistola, e si mette la divisa, perché il padre porta la divisa” ma nel gioco del copiare crea una simulazione, una finzione diversa dalla realtà: “il bambino si mette una mazza al posto della pistola e si mette una giacca di carta oppure un cappello di cartone”. La sua operazione artistica aveva sempre mantenuto il carattere di finzione: “Copiare il padre, in fondo, potrebbe essere delle volte come, per me, fare dei cavalli. Io copio un cavallo: siccome non posso mettergli la pelle lucida col sudore, con le mosche che girano e con la rotondità dei muscoli che si muovono continuamente, io col materiale più semplice da usare per me metto la tela su delle costole di legno” (Lonzi, 2010: 266-267).

Pochi mesi prima sia Kounellis che Pascali avevano partecipato, insieme a Sargentini e all’artista Eliseo Mattiaci, alle riprese di SKMP2 di Luca Patella. Pascali aveva scelto di muoversi vicino e dentro il mare – l’elemento da cui proveniva e che tanto aveva caratterizzato i suoi lavori – e nell’ultima sua scena di baciare la testa di una scultura classica (elemento che comparirà anche in tante opere di Kounellis). Il bacio tra l’artista e la statua in mezzo al mare è stato visto poi, a causa delle tristi circostanze, come un addio alla Scultura, nella consueta modalità di “dissacrazione non ideologica”, “gioco”, “libertà incondizionata e priva di obiettivi utopistici” (Tonelli, 2010: 27), segno di una fiducia nell’arte che salva l’uomo “dalla serietà della vita” e suscita in lui “un’inattesa fanciullezza” (Ortega y Gasset, 1998: 89).

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Fig. 3: Jannis Kounellis, Saracinesca del garage della Galleria L’Attico, via C. Beccaria 22, Roma, 1968, acciaio dipinto a olio. Foto Sario Manicone Roma, Giovanni Kounellis, by SIAE 2018.

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Note


1 Si fa riferimento al significato originale del termine, derivante dal greco εἰρωνεία.


2 Tra le tante mostre collettive, italiane e internazionali, alle quali Pascali partecipa tra 1967 e 1968 si ricordano Arte povera – Im spazio curata da Germano Celant alla Galleria La Bertesca di Genova, e Lo spazio dell’immagine che si tiene a Palazzo Trinci a Foligno. Le maggiori esposizioni personali si tengono nel 1967 alla Galerie Thelen di Essen, alla Galerie Ars Intermedia di Colonia, da Iolas sia a Milano che a Parigi (Stocchi, 2017: 111-133).


3 Molti amici di Pascali ricordano le sue battute ed i suoi ricorrenti scherzi (Lodolo, 2012).


4 Pascali, in gioventù, aveva frequentato il liceo classico a Bari (Lodolo, 2012: 18-19).

 

La Bandiera Nazionale come Strumento di Lettura del Mondo

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La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:

  • arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
  • opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
  • la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
  • l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.

Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità della proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.

 

di Anna De Bernardis

Sintesi 

In tre opere di Giulio Paolini, Alighiero Boetti e Ivan Grubanov, i primi due – coetanei – attivi dagli anni Sessanta, e il secondo dai primi anni Duemila, la bandiera nazionale è trasformata da simbolo di uno Stato a vocabolo di un linguaggio artistico. Il significato simbolico e ideologico di partenza è sostituito da altro, nel tentativo di rappresentare lo scorrere del tempo, mutamenti politici in atto o già avvenuti, di rendere la precarietà di un simbolo.

Parole chiave: bandiera, linguaggio, nazione

Introduzione

“Si è spesso notato che lo Stato comincia (o ricomincia) con due atti fondamentali, uno detto di territorialità per fissazione di residenza, l’altro detto di liberazione per abolizione dei piccoli debiti” (Deleuze-Guattari, 1975: 221), un terzo atto, verrebbe da dire, è la creazione del suo emblema, la bandiera. “Simbolo di una nazione”, di un gruppo di persone che condividono storia, cultura, lingua, ovvero un’identità nazionale entro un territorio politico, la bandiera nazionale – nella sua materialità o nel sostrato di contenuti che racchiude –  diventa vocabolo artistico nell’opera di Giulio Paolini, Alighiero Boetti e Ivan Grubanov. L’attività dei primi due, coetanei, inizia negli anni Sessanta, mentre il terzo esordisce nei primi anni Duemila.

Interessa qui analizzare tre opere accomunate dall’utilizzo di questo vocabolo artistico: Averroè (fig. 1) di Giulio Paolini (Genova 1940), Mappa (fig. 2) di Alighiero Boetti (Torino 1940 – Roma 1994) e United Dead Nations (fig. 3) di Ivan Grubanov (Belgrado 1976). Vi sono elementi di contatto? Quale significato assume, nei tre casi, questo simbolo e da quali esigenze deriva il suo utilizzo in un’opera artistica? Le tre opere sono analizzabili sulla base di un collegamento diretto col contesto storico, politico e culturale? In quale misura è possibile definirle politiche?

Paolini e Boetti: gli anni Sessanta

L’incontro fra Paolini e Boetti avviene nell’ambito della prima mostra di Arte Povera nel ’67, ma sarebbe riduttivo ascrivere la loro opera esclusivamente a questa esperienza. L’affermazione di Celant, curatore della mostra, che “il rapporto tra la rivolta degli anni Sessanta e questa ricerca è innegabile” (Celant 2012) non è completamente descrittiva di due opere come Averroè e le Mappe che, come vedremo, presentano un contenuto politico piuttosto latente ed un legame non diretto con la “rivolta” cui il critico fa riferimento.

Una questione di linguaggio

All’inizio degli anni ’60 Paolini, torinese, entra in contatto con l’ambiente delle gallerie milanesi e l’opera di Fontana e Manzoni 1, e romane, contesto d’indagine sull’iconizzazione della lettera e della scrittura, sviluppata, con differenti modalità, fra gli altri, da Kounellis e Schifano. Riflessione sul linguaggio interno all’opera d’arte, interesse per la linguistica strutturale, messa in discussione del codice artistico stesso e dei suoi strumenti, sono alcune delle cifre principali della produzione successiva di Paolini, che Menna colloca a cavallo fra le due linee analitiche dell’arte moderna, quella iconica e quella aniconica, ovvero delle immagini e delle figure (Menna, 1975: 64 2). Le sue sono “non opere finite, ma discorsi aperti sul linguaggio” (Quintavalle, 1976: 51).

La bandiera impossibile

Una lettura di Averroè 3 (1967) – opera in cui tutte le bandiere nazionali concorrono alla creazione di un totale di quindici bandiere, appese ad un’unica asta – come un “flags meltin’ pot” sarebbe, probabilmente, limitativa. L’elemento della mescolanza, in riferimento alla globalizzazione, già in atto in questi anni, è innegabilmente presente, ma occorre indagare più a fondo le intenzioni dell’artista.

“Le bandiere che ho scelto […] non sono ‘quelle’ bandiere, semplicemente sono più di una bandiera […] sono quelle quindici o altre quindici, o addirittura tutte le bandiere tranne quelle quindici. La scelta del numero e del tipo di bandiere non ha nessun carattere di leggibilità, ma solo un carattere numerico (Paolini in Lonzi, 1969: 305)”.

Il simbolo – la bandiera – perdendo leggibilità, subisce una sospensione della corrispondenza fra idea e immagine assoluta, non significa alcuna identità nazionale; le quindici bandiere “non valgono di per sé” (Lonzi, 1969: 305), sono una “bandiera impossibile” (Disch). L’intenzione di Paolini è dichiarare la precarietà della bandiera e del simbolo che porta con sé, la transitorietà della sua identità 4, la pesantezza di un vessillo carico di storia 5 e sempre in attesa 6.

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Fig. 1. Giulio Paolini, Averroè, 1967, Torino, Fondazione Giulio e Anna Paolini. Foto Paolo Pellion di Persano © Giulio Paolini. Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino

Non è infrequente l’utilizzo, da parte dell’artista, di un linguaggio precostituito, considerato che, come lui stesso afferma, “È inutile e vano inventare qualcosa di proprio se possiamo scoprirlo nel passato” (Celant, 1972 in Menna, 1975:64). Naturalmente l’artista non si limita alla ripresa pedissequa del “passato”, ma trova nei segni di altri artisti i segni elementari – che Menna chiama “figure” – costitutivi del suo linguaggio (Menna, 1975:64). Averroè, nelle parole attribuitegli da Borges, dirà che “un grande poeta è meno inventore che scopritore” (Salerno, 1975: 96) 7.

In questo caso, potremmo sostenere, si serve della bandiera come vocabolo – che è simbolo al contempo – di un linguaggio preesistente, un “codice” che subisce una privazione del contenuto, anche ideologico, originario. Paolini scompone un sistema di rappresentazione della realtà, per creare un nuovo codice di lettura.

Nella sua opera la relazione fra immagine e parola (il titolo, che ha per lui un significato metalinguistico) è, spesso, contraddittoria, a suggerire una messa in discussione del “valore assertivo del quadro-rappresentazione” (Menna, 1975: 64) e il legame fra immagine e oggetto. Il titolo, Averroè, si riferisce al filosofo spagnolo di cultura islamica del XII secolo, “commentatore” di Aristotele e assertore della dottrina della doppia verità 8, il quale propose e sostenne la teoria della separazione dell’anima dall’intelletto cosiddetto potenziale impersonale – immortale poichè condiviso da ogni essere umano – e dall’intelletto universale – immortale per sua stessa natura. È riscontrabile una corrispondenza fra l’idea e l’immagine assoluta di cui parla Paolini e il concetto di intelletto potenziale e intelletto universale che ritroviamo nella filosofia di Averroè?

Il sensibile, secondo il pensiero di Averroè, è intelligibile in quanto reso tale da un’intelligenza da cui esso stesso “procede” (Vigorelli, 1992: 666): l’atto di conoscenza è, quindi, possibile solo in quanto predisposto, e l’uomo non ha capacità di comprensione propria ed indipendente, non è in grado di passare da intelletto potenziale ad intelletto agente. Forse Paolini identifica l’Artista con l’intelligenza che consente l’atto conoscitivo? Sarebbe scorretto dire che l’esistenza ab aeterno della materia e del mondo e, quindi, dell’intelletto universale – sostenuta dal filosofo – presenta punti di contatto con l’idea di immagine assoluta di Paolini?

Le ragioni di una serie

Diretto precedente delle Mappe è il Planisfero politico (1969), la stampa cartografica di un planisfero in cui i territori politici sono identificati dalle relative bandiere nazionali. Sbarazzatosi “di quel rigore eccessivo che voleva che, di un’unica idea, producessi soltanto un lavoro” (Boetti, 1992) e comprese le possibilità offerte da quell’unica idea 9, l’artista riflette sulle potenzialità di una serie, scegliendo come luogo di produzione un contesto estraneo all’arte contemporanea occidentale, ovvero Kabul dove, dal 1971 10, affida l’esecuzione delle Mappe ad alcune ricamatrici afghane – atto di delega che ricorda il Concettuale, anche se in questo caso prevale l’aspetto artigianale, con le imperfezioni che ne derivano.

La serie è un elenco – concetto su cui Boetti tornerà anche in opere successive 11 – che rende la dimensione del tempo, sia in rapporto ai lunghi tempi di produzione richiesti dal ricamo, sia per la rappresentazione “pittorica” di mutamenti politici e geografici (e, quindi, cartografici) che coinvolgono i cinque continenti. Ed è un’opera aperta, un discorso sull’esistenza, sul divenire del mondo, per la comprensione del quale ci si affida a sistemi di rappresentazione convenzionali, a priori, – definiti da Angela Vettese “un elenco di verità [inevitabilmente] transitorie” (Vettese, 2004: 93) – che Boetti sovrappone: la mappa, appunto, e la bandiera. Ad un terzo livello di comunicazione Boetti colloca la scrittura, sia occidentale che della lingua farsi 12: le cornici delle Mappe sono sempre ricamate con frasi di cui non sono dichiarati capolettera e senso di lettura, a suggerire la funzione meramente decorativa che la scrittura può assumere, che decade nel momento in cui si trova la “chiave di lettura”. 

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Fig. 2. Alighiero Boetti, Mappa, 1971-1973, Agata Boetti. Paolo Pellion di Persano, Alighiero Boetti by SIAE 2018

Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente nel senso che: il mondo è fatto come è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente; quando emerge l’idea di base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere” (Boetti, 1974: 202)

Le parole di Boetti sembrano rimandare a quelle attribuite da Borges ad Averroè: “Un grande poeta è meno inventore che scopritore” (Salerno, 1975: 96).

La Mappa (1971-73) di Boetti, e Averroè possono essere accostate per l’utilizzo di un linguaggio prestabilito: l’immagine della bandiera è preesistente, indipendente dalla volontà dell’artista, ne conosciamo le regole linguistiche fissate in codici di lettura. Ma se Paolini in un certo senso smantella questo linguaggio, Boetti ne utilizza le potenzialità a differenti livelli. 

Bandiere come maschere funebri

United Dead Nations 13 – che potremmo rendere con l’espressione Nazioni Unite Morte  proposta da Ivan Grubanov per il padiglione serbo alla Biennale d’Arte di Venezia del 2015, presenta elementi di forte contrasto rispetto alle due opere viste finora, dovuti in parte al mutato contesto storico e politico, oltre che artistico, in cui l’artista serbo lavora, in parte alla sua nazionalità. Egli stesso afferma “I am a visual artist on the boundary of two centuries. I want to take all the responsability implicit in this position 15” (Gray, 2006: 58).

Grubanov rintraccia nell’organizzazione della Biennale – contenitore di United Artistic Nations – per padiglioni nazionali 16 un riflesso del forte legame fra arte e politica: la storia dei padiglioni, infatti, si intreccia a quella degli stati nazionali; così, ad esempio, il padiglione jugoslavo fu convertito in padiglione della Serbia.

In certo modo come in Boetti, è presente la dimensione del tempo, ma in questa analisi emergono aspetti che potremmo definire più strettamente storici e politici. Le nazioni – secondo una visione organica – nascono e muoiono, e questo processo dal 1895 – anno di fondazione della Biennale – al 2015 ha interessato dieci stati 17, e quindi dieci bandiere, private del loro contenuto simbolico originario, ridotte a simboli “morti”, tragicamente vuoti, l’influenza dei quali non è, però, nel contesto post-globale, scomparsa: immerse in un composto di vernici chimiche, le bandiere lasciano traccia di sé 18 – come già nella dimensione della storia – su delle tele posizionate sul pavimento del padiglione e sul pavimento stesso.

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Fig. 3 Ivan Grubanov, United Dead Nations, 2015, Padiglione Serbo alla 56. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia

Grubanov le utilizza come “matrici” mai uguali, informi pennelli ormai divenuti storia, ai quali nel presente è concesso solo lasciare un alone, una traccia sbiadita di ciò che furono. Ognuna delle tele19 – indissolubilmente legata alle bandiere di cui porta i segni – “not merely project an image [but] replaces the biopolitical influence of a flag with the biopolitical potency of a painting” (sito ufficiale dell’artista). La pittura ha, quindi, una “forza biopolitica” nell’affermazione di sé contro la politica. Quale significato può avere oggi, quando

tutti i paesi fanno parte dello stesso sistema [di organizzazioni transnazionali e sovranazionali] e sono sottoposti alle stesse pressioni […] che stanno soffocando e piegando la politica nazionale di tutto il mondo. E nonostante la disperata ostentazione delle bandiere nazionali, l’effetto di queste pressioni è l’esatto contrario della presunta ‘rinascita dello stato nazione’ (Dasgupta, 2018)

il termine nazione – che “sta invecchiando più in fretta degli imperi di cui ha preso il posto” (Dasgupta, 2018)?

Conclusioni

Alla presenza della bandiera nelle tre opere corrisponde l’intenzione di trasmettere il senso del legame con la visione del mondo di ciascun artista. Lo stesso non si può affermare per la veicolazione di un contenuto politico, come abbiamo visto non sempre evidente e in taluni casi quasi assente, ridotto ad un’allusione. Non stupisce che l’arte tenti di eludere le pressioni di un contesto storico – che non può che essere – fortemente politico allontanandosi dal presente, talvolta con ironia. Così come non meraviglia la distanza che Paolini e Boetti, due artisti poco più che ventenni nel ’68, pongono fra la loro opera e la politica: Boetti scriverà “non ho vissuto situazioni socio-culturali, né politiche. Me ne interessavo a livello cittadino, non da artista” (Bandini, 1972:178). L’arte di Grubanov, artista di altra generazione e altra nazionalità è, invece, come abbiamo visto, fortemente immersa nella dimensione politica.

La bandiera – “materia prima” nel caso di Paolini e Grubanov, riprodotta col ricamo in Boetti – è sempre “segnale precario”: per Paolini la precarietà è insita nella mancanza di reciprocità fra idea ed immagine assoluta; per Boetti e Grubanov si dichiara nei mutamenti politici21. Se in Paolini prevale l’attesa, in Boetti assume rilevanza il tempo, che in Grubanov diventa tempo passato, ma che non smette di esercitare il proprio influsso sul presente. Forse le Mappe non sono mai state “attuali”: mentre le ricamatrici intessevano i fili, quei cambiamenti politici – con quelli economici, sociali, culturali che comportano – e geografici che affascinavano tanto Boetti, erano costantemente in atto. Grubanov convalida una condizione passata, le sue bandiere sono corpi morti, immobili, inermi, eliminati nella storia, ma ricordati dalla storia stessa. Elenco non finito – come le Mappe? – di simboli di imperi e nazioni ormai inesistenti, che hanno date di nascita e di morte22.

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Note

 

1 Come lui, Paolini opera per riduzione in una tensione all’eliminazione del “contenuto”, e rifiuta gli elementi costitutivi del quadro (Quintavalle, 1976: 40)

2 Infatti, come sostiene Quintavalle, dal punto di vista formale è difficile trovare un parallelo coevo (Quintavalle, 1976: 39)

3 Esposta per la prima volta nel ’68 alla mostra “Arte Povera” alla Galleria de’ Foscherari a Bologna, curata da Germano Celant

4 Paolini intende anche dichiarare, come già detto, la transitorietà dell’identità fra idea e immagine assoluta

5 Motivo per cui l’opera non si libra in aria

6 L’allestimento dell’opera – poggiata a terra contro la parete, in verticale, oppure su una base trasparente – veicola un senso di attesa

7 Averroè si riferisce al fatto che il Corano contiene in sé l’intera poesia umana

8 Secondo la quale: la ragione suggeriva ad Averroè (1126-1198) che l’intelletto (potenziale) fosse uno, mentre la fede lo spingeva a credere il contrario.

9 Boetti fu spronato anche gallerista Gian Enzo Sperone

10 Anno del suo primo viaggio in Afghanistan. Nel ’72 acquista un hotel proprio a Kabul, rinominato One Hotel

11 Ad esempio ne I mille fiumi più lunghi del mondo (1977)

12 Ossia la lingua parlata in Afghanistan, anche detta dari

13 Vi è anche un riferimento alle Nazioni Unite (United Nations)

14 Curato da Lidija Merenik

15 “Sono un visual artist vivente a cavallo tra due secoli. Intendo prendermi la responsabilità insita in questa posizione”

16 A partire dal 1907

  17 Impero Austro-Ungarico (1867-1918), Impero Ottomano (1299-1922), Gran Colombia (1819-1930), Tibet (1913-1951), Repubblica Araba Unita (1958-1971), Vietnam del Sud (1955-1975), Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990), URSS (1922-1991), Cecoslovacchia (1918-1992) e Jugoslavia (1918-2003)

18 Come “maschere funebri”

19 Che dopo l’intervento Grubanov rimuove, lasciando nel padiglione solo le bandiere disposte a mucchi

20 Ossia “non si limitano a proiettare un’immagine [ma] […] sostituiscono all’influenza biopolitica di una bandiera, la forza biopolitica di un dipinto” (dal sito ufficiale dell’artista)

21 E geografici, nel caso di Boetti

22 Che figurano sulle pareti del padiglione