L’arte dell’essere e l’essere dell’arte di Manuela Barbarossa

Il non visibile suscita da sempre un profondo interesse. Non più del visibile, questo non lo si può affermare. Ma lo suscita in forma affatto differente, lasciando intravvedere l’idea o fors’anche la speranza che, in quanto non visibile, possa essere più rivelatore e illuminante dell’essere.

Tuttavia, il visibile, anche se tale, non è detto che… lo si veda. O meglio. Lo sguardo che coglie il visibile è un momento di un tutto, una sorta di percezione “fermo immagine”, poiché la sola funzione visiva, non connessa a una struttura complessa sentimentale, ideativa e simbolica, non è in grado di dirci nulla di più di ciò che vediamo. Quello che vediamo non è poco, certo. Ma vediamo ciò che è nel suo mostrarsi. Nel venire a noi.

La strutturazione linguistica ci consente di identificare quello che vediamo attraverso il nome. Le parole e le cose. O più precisamente L’Ordre des choses, “L’ordine delle cose” di cui ci parla Foucault, dove la rappresentazione della cosa è sempre il suo essere ciò che è. Ma la capacità di rappresentare laldiladelladiqua, scritto rigorosamente tutto attaccato, come oramai propongo da tempo, e scandendo la parola con un unico respiro, ci consente anche di cogliere il non visibile in quanto parte integrante dell’universo tutto.

La psicoanalisi, la filosofia e prima ancora la produzione artistica, ci hanno insegnato che il non visibile produce il suo effetto attraverso il visibile. Spesso in forma eclatante, fantastica, violenta e come tale disarmante. Come nell’arte. Altre volte in modo più silente, ma non meno incisivo, come nei sogni notturni, quella fantastica produzione onirica che ci avvicina al mondo degli Dei e alla stessa realizzazione artistica. O nei lapsus. Ancora di più, nei sintomi. Il sintomo quale emergenza dell’essere è un venire alla luce e rappresenta la punta di un iceberg che fuoriesce ma nello stesso tempo si rivela celandosi nella sua forza significante.

Il non visibile della psicoanalisi esalta e qualifica il visibile, lo eleva sottraendolo alla “funzione visiva” tout court, al factum brutum. Lo sottrae al qui ed ora. Alla letteralità. Alla pochezza strumentale della reificazione, consegnandolo alla magica forza del simbolico. Eccolo laldiladelladiqua! Scritto rigorosamente tutto attaccato, che consente l’emergere di un sapere che è una sorta di “logosantilogos”. Sempre rigorosamente tutto attaccato. Si, perché “neltuttoattaccato” l’effetto scenico, fonico, ideativo impatta e offre un sussulto emotivo non indifferente. Offre l’idea. Offre la cosa non cosificata.

Tracey Emin. Thriving on Solitude (det.), 2020. JHA Collection © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Nell’arte assistiamo alla potenza trasformativa e prorompente del simbolico che accompagna il non visibile in un percorso che gli consente di essere ciò che è. E lo fa esaltando il visibile. Una sorta di metafisica della forma. Il non visibile non è infatti ciò che non si vede. É ciò che, pur vedendosi, non si mostra. Il non mostrarsi, monstrum, è il celarsi che va portato alla luce.

Arte e psicoanalisi che spesso si intrecciano portano alla luce connettendo attraverso il simbolico il particolare all’universale. Nella psicoanalisi il sintomo è quel particolare di un universale, come la punta dell’iceberg che si diceva. Nell’arte è la rappresentazione estetica dell’essere, nelle sue declinazioni. Siamo al cospetto metaforicamente della mitica trasmutazione del piombo in oro. L’oro, il non visibile, emerge. Si mostra. Viene alla luce. Nella potenza trasformativa e disvelativa dell’alchimia il simbolico trova una sorta di apoteosi e irrompe.

L’intensità risolutiva e medianica della psicoanalisi eleva a concetto ciò che non si mostra ma che esiste, e questo passaggio affonda le proprie radici nel mondo pulsionale e sensitivo, nel vortice delle passioni dell’anima e del corpo. Attraverso un atto di comprensione intuitiva e rapiti da un sentimento fondativo di noi stessi ci traghettiamo come Caronte nell’aldiladelladiqua.

Il simbolico non va confuso con l’etereo o con l’indefinito. Come si è detto, il non visibile che si vede ma non si mostra, eleva il visibile sottraendolo alla fenomenica presenza. Il non visibile, il simbolico, il particolare che dice di sé dell’universalità dell’essere, che lo sottende, è una sorta di formula alchemica che trasmuta il piombo in oro. Il corpo è alchimia. La vita è alchimia. Per Freud l’Io corpo con il quale veniamo al mondo e sentiamo il mondo e attraverso il quale siamo nel mondo, nel suo essere ciò che è, è anche altro da sé. Visibile e non visibile nel corpo si fondono. Non vi è necessità di precisare che oltre al corpo vi è un’anima. Il corpo è anima, come l’anima è corpo. Nessuna giustapposizione, ma appartenenza.

E così la potenza della psicoanalisi, come la potenza dell’arte è quella di utilizzare ancora oggi e per sempre la scrittura geroglifica quale strumento di comprensione dell’essere. Segni potenti scolpiti nellanimacorpo. Azioni, scene di quotidianità, di guerra, di morte, di natura, d’amore, figure che descrivono attraverso un universo simbolico l’esistente nella sua plastica verità. Un sogno, un sintomo, una tela, una scultura da guardare e interpretare come un antico muro egizio nel quale si consegna un sistema di scrittura del visibile e del non visibile, che eleva il visibile a forma dell’essere informandolo di sé.    

Tracey Emin. A Different Time – May 2020 (det.), 2020. Stiftung Der bewohnte Garten, Pullheim © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Il simbolico è potente. Sovverte l’ordine costituito della ragion d’essere del Logos, trasformandola nell’essere che trova ragione. Facendo emergere anche il suo lato oscuro. Oscurato. Oscurante. Nulla di più trasgressivo. Il ritrovamento del senso passando attraverso gli antichi geroglifici dellanimacorpo, dellaldiladelladiqua.

Il ritrovamento del senso attraverso il simbolico è fortemente rivoluzionario e mostra l’incanto del mondo, fungendo da passaggio tra l’umano e il divino. Tra il visibile e l’invisibile. Il simbolico diventa l’“arma” della rivoluzione che consente di fondare quel Sono Io identitario attraverso il ritrovamento del significato. Il significato non è un preciso contenuto stigmatizzato o ideologicamente orientato. Ma una condizione esistenziale di apertura all’invisibile. Una predisposizione. Una velocità della luce che illumina. Una parola. Un’immagine. Un suono.

L’alchimia trasformativa del simbolico è raccontata egregiamente da Paulo Coelho nel suo libro L’Alchimista, dove si racconta la storia di un giovane pastore in cerca di un tesoro. È la rappresentazione di un viaggio metafora dove il tesoro è l’anima del mondo, la cui scoperta consente di ricongiungersi con sé stessi. Questa alchimia trasformativa del simbolico è un fondamento fondativo dello sviluppo della coscienza creativa dell’esistenza.

Ma vi è anche il contraltare del simbolico che può trasformarsi nel buio dell’anima, nel disincanto prodotto dell’alienazione, dall’essere fuori di sé… dalla perdita di senso, della mortificazione dell’essere e che, come dice Adorno, fa amare la prigione, le inferriate rappresentate dalla finitezza del concreto, scambiato e frainteso come realtà. Il contraltare del simbolico, il suo lato oscuro e oscurante è dato infatti dalla fatticità che annovera tra le sue non doti, per dirla con lo stile di Alice del paese delle meraviglie il dominio, il desiderio di dominare. Il potere, la forza di piegare il mondo e la natura. Di dominare l’altro. E per farlo tutto deve essere ridotto a cosa cosificata. Il primato dell’oggettivazione funzionale celebra il possesso alienato del mondo e dell’altro, nell’imposizione di un Io artefatto, di un Io sono narcisistico, che vorrebbe piegare e possedere l’essere del mondo.

Diablo, un personaggio di un fumetto Marvel, grazie a una forte alleanza con Mefisto, essere demoniaco, diventa immortale. Acquisisce poteri e capacità uniche di creare pozioni alchemiche, invenzioni geniali per mutare gli oggetti in oro, dare anima alla materia, controllare e dominare le menti. Sentimenti di potere, di immortalità di un corpo fuori di sé, estraneo al suo stato naturale, esorcismo della caducità, sono suscitati dall’assenza di una percezione rispettosa della vita che vive e che si realizza e nella quale la materia è percepite e intesa, ancora una volta fraintesa, come mera “cosa” senza… anima. E infatti, uno dei poteri di Diablo è proprio quello di dare anima, animare la materia. Che tracotanza! Animare la materia come se essa già non avesse la propria di anima. Come se l’anima non fosse già sua. Nessun animismo oltre datato, ma riconoscimento dell’altro fuori di sé e del suo diritto di esistenza a prescindere.

Ancora una volta il concetto di anima deve essere letto in forma simbolica, l’unica in grado di dare suggerimenti suggestivi di ciò che, pur non essendo del tutto comprensibile, capiamo. In assenza del simbolico, quale passaggio tra il visibile e l’invisibile, il corpo si perde ed è ridotto a carne, l’animale è merce da macello, la natura è sfruttamento, privata di anima. La vita è una “cosa” e si realizza in un accumulo di “cose”. Tutto è silenzio.

Tracey Emin. 5 Hours Long – With you in my mind (det.), 2020. Collection of Michelle Kennedy and Richard Tyler © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Nelle opere di Tracey Emin si tocca con mano il suo irresistibile e irrefrenabile bisogno di porre in essere questa mancanza, questa riduzione a cosa del corpo, della vita e di urlare al mondo la violenza prodotta dall’imporsi di un visibile reificato, privato della sua essenza metafisica. Del suo non visibile. E in un mondo che riduce tutto a “carne da macello”, espressione che proprio nella sua potenza simbolica irrompe nelle tele dell’artista, si sprofonda in quella solitudine che diviene perdimento. L’amore forse potrebbe ridefinirci. Forse. 

Resta che l’assenza del simbolico nello sviluppo dell’individuo, il suo annullamento e la sua mortificazione produce la manipolazione ideativa, affettiva, sessuale, pulsionale e sociale. La sua assenza incita al dominio dell’essere umano sulla natura e sull’altro ridotto a cosa. Lo stesso dominio si rivela essere un impulso presimbolico che produce la cosificazione dell’essere, dove l’oggetto è tale e vissuto nella sua unica funzione reale. Tutto è funzionale e privato del suo rappresentare se stesso e altro da sé. L’assenza di simbolico è il tocco del male. Quel tocco del male rappresentato egregiamente in un movie del 1998, che mette in risalto come il male, inteso come assenza di bene, passi attraverso l’annullamento dell’identità, il possesso dell’altro, del suo corpo ridotto a strumento, a veicolo del non essere. É quella riduzione dell’essere ad un Io asfittico, a un corpo di cui l’altro si appropria.

Credo che non vi sia scultura più potente e in grado di “redimere” il tocco del male della Pietà di Michelangelo. Già la parola pietà apre a un mondo di magia di sentimenti e di sensazioni che portano altrove dall’essere dove sei. Rappresentante di quel potentissimo simbolico che, pur attraversando la morte e la sofferenza, apre alla vita mostrando un corpo inerme abbracciato. Un corpo vivo nel suo non esserlo, perché amato, in grado di dare luce al buio del dolore infinito.

Vi è del resto uno strettissimo rapporto tra il simbolico del mondo, le sue fantastiche creature e la pietas. Lo ripeto. L’amore forse potrebbe ridefinirci. Forse. La possibilità di accedere ad un universo di significati e di significanti, di sentire la vita propria e dell’altro attraverso il non visibile visibilissimo allo sguardo del sentimento dell’essere, consente al simbolico di respirare di vita propria. Tutto ciò ci conduce su un sentiero dell’oltre. Del c’è altro…

Su un sentiero di significazione, di fantasia, di poesia, di arte, di ricerca di senso e del conforto che non è mai abbastanza, e che offre la possibilità di affermare che c’è altro. Che cosa questo sia, poco importa. Le sue declinazioni saranno ciò che saranno. Importante è l’esserci altro. Non c’entra la credenza, la fede, la speranza, ma solo il fatto che c’è altro da qualche parte, dietro l’angolo. E il mondo a Dio piacendo ha sempre un… dietro l’angolo. Pur essendo tondo!

Abbandonate la strada maestra, le grandi strade e prendi i sentieri, diceva Pitagora. Ecco che dunque l’arte, il sogno, la fantasia, la scrittura i colori trasformano i lati oscuri in luce e ti indicano quale sentiero percorrere in compagnia di te stesso incontrando l’Altro. Ciò non significa che il sogno, l’arte o la poesia, il fantasticare, il gioco eliminino il dolore, ma che il dolore, la difficoltà, il pianto, assumono una posizione affatto differente: vengono sottratti al signore del male che tutto reifica e oscura, e consegnati a un mondo di super eroi.

Manuela Barbarossa è psicoanalista. Ha collaborato con la cattedra di Filosofia Morale II dell’Università degli Studi di Milano, con ricerche sul pensiero simbolico in seguito pubblicate. Già docente presso la Scuola Superiore di Formazione di Psicoterapia e Psicosomatica di Cremona, ha fondato PRISMA (l’Accademia di studi filosofici, psicoanalitici, sociali e di teoria critica in memoria del Prof. Luciano Frasconi).

In copertina: Tracey Emin. The Kiss (det.), 2020. Collection by Kenny Schachter © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Ferita ad amore di Annalisa Ambrosio

In italiano si può usare l’espressione “ferito a morte” per intendere che il guasto sarà fatale e che la ferita, appunto, non si rimarginerà. L’arte di Tracey Emin fa pensare a una particolare rivisitazione dell’espressione “ferita a morte”: non più “ferita a morte” ma “ferita ad amore”. Per capire che significa occorre fare un passo indietro.

Se c’è un elemento che pure uno sguardo non particolarmente esperto può notare e che accomuna molte delle opere di Emin, è un’aria di “deposizione”. E la deposizione, nel senso comune, altro non è se non il momento in cui un corpo si arrende alla gravità e alle altre forze che governano il mondo, quelle indipendenti dalla sua volontà, com’è capitato con il corpo di Cristo calato dalla croce, la più nota e iconica delle deposizioni.

In realtà, però, la deposizione è anche un fatto di ordine fisico, che riguarda ogni materia liquida: è la formazione del sedimento nel liquido, la sua trasformazione. Ciò che capita a una ferita quando inizia a chiudersi, al colore quando si aggruma, a una composizione quando dopo molto smontare e rimontare anch’essa si arrende a una forma di fissità e si placa in un codice, lo stesso capita alla lava dei vulcani, persino alle gocce d’acqua, che a un certo momento evaporano lasciando solo un deposito sulla superficie che prima le ospitava. Nella deposizione si può intravedere qualcosa come un grido (forse non a caso uno degli artisti più importanti nel percorso di Tracey Emin è stato Edward Munch), la traccia sonora e materica di quello che di una ferita rimane quando smette di sanguinare.

Degli arti di bronzo, scomposti, che si sa dove iniziano ma non dove finiscono, dei materiali di pittura sparsi per terra, un paesaggio di colore che si è spento andando in cerca degli angoli, corpi con le gambe aperte che respirano dopo essere stati lasciati soli o in attesa di non esserlo più. Ogni volta sembra che questo grande disordine ora immobile sia il frutto di una precedente esplosione di vita, proprio come la solitudine dopo il sesso: la deposizione è il momento subito dopo rispetto alla vita, la zona del suo svuotamento, il frangente in cui ne restano esposti i pezzi all’aria.

Tante delle opere di Emin hanno questo aspetto potentissimo di grandi ferite che si sono appena stabilizzate, e perciò ora sono capaci di dare luogo a un fatto, di raccontare una storia. La storia di ciò che c’è stato un passo prima, quando il sangue pulsava ancora, ma anche la storia della pace che c’è adesso.

Tracey Emin. All I want is you (det.), 2016. Bruxelles, Xavier Hufkens Gallery © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Fra tutte le ferite possibili, com’è fatta quella causata dalla sofferenza amorosa? O dalla solitudine, cioè dell’assenza di amore? Il sentimento di innamoramento e quello di amore possono creare sofferenza per svariate ragioni, alcune di ordine culturale, che è possibile smorzare socialmente rendendo sempre più aperto, flessibile e accogliente il concetto di “amore realizzato”, non riconducendolo quindi a un’unica forma possibile troppo idealizzata ed elevata di relazione amorosa, sulla falsariga della fiaba romantica in cui due persone si incontrano e poi vivono insieme per sempre, innamorati e felici dal primo fino all’ultimo giorno. Oltre alla sofferenza di stampo sociale che si può provare se l’ideale amoroso condiviso non corrisponde alla vita che si vive, però, esiste un genere di sofferenza più metafisica e originaria che è legata al sentimento d’amore in modo ineludibile: l’esposizione continua alla violenza del caso.

L’amore intensifica e rende ancora più visibile una qualità della vita che è la sua instabilità, il fatto che non possiamo controllarla, deciderla, pianificarla, se non entro certi limiti. Non si può amare a comando, non si può essere amati a comando, non si può fare che le persone amate corrispondano all’immagine che ne abbiamo o che ne abbiamo avuto. La solitudine maggiore, più insopportabile, è quella di chi comprensibilmente aspetta di essere amato: l’attesa che l’amore arrivi, o l’attesa di una persona in particolare, di “un” amore. È questa una condizione del tempo in cui ciò che fa impazzire chi attende è la cognizione che: “non c’è niente che si possa fare”. A differenza delle altre faccende del mondo, l’amore nella gran parte dei casi si sottrae del tutto alla regola della buona volontà, per cui la fatica, l’impegno, il lavoro o lo studio praticati con costanza bastano per arrivare a ottenere il risultato. Mentre in amore, spesso, niente che si può fare assicura il risultato. Da questa impossibilità di agire deriva il sentimento di solitudine, che non può essere mascherato da un fare, perché non c’è una corrispondenza tra le iniziative che si mettono in atto e quanto si viene amati.

George Simmel ha definito ogni amore un’“avventura” proprio perché consiste nella maggiore apertura al caso e all’imprevisto che riusciamo a descrivere: naturalmente anche le nostre singole vite sono continuamente esposte al caso, alla possibilità della morte o della ferita, ma siamo spesso immersi in uno scenario di costante rimozione di questa eventualità, della morte in particolare; quando si tratta invece dell’amore la rimozione è più complessa: anziché dimenticare se ne parla, si fa strategia, perché l’amore travolgente, a differenza della morte che non è in discussione, può sempre sorprenderci e arrivare anche se avevamo perso le speranza.

E poi c’è il corpo. Un corpo che la ferita d’amore fa sentire inutile, o sbagliato, un corpo freddo che deve essere conservato per l’amore. È il corpo il grande territorio sul quale si consuma lo spettacolo della sofferenza amorosa, non tanto o non solo per via della solitudine sessuale (dopotutto non è detto che sesso e amore vadano di pari passo), ma soprattutto perché il corpo ci mostra a suo modo lo scorrere del tempo e quindi sa quanto è passato dall’ultima volta che ci siamo sentiti amati.

@traceyeminstudio, foto pubblicata su Instagram il 14 febbraio 2025

C’è un post sul profilo Instagram ufficiale di Tracey Emin, che risale al 14 febbraio: nella foto c’è una rosa rossa su un tavolo che ospita un quaderno di disegni e dei tubetti di pittura nera, in sottofondo un letto bianco e sfatto. L’artista scrive nel testo sotto l’immagine che non sa da chi ha ricevuto quella rosa, ma che l’ha fatta sentire bene. Aggiunge che il giorno di San Valentino è stato spesso stato occasione di pensieri estremamente dolorosi per lei, un giorno speciale alla rovescia in cui si sentiva davvero sola, più precisamente nel contrasto: «So much talk of love and I felt alone». Poi qualcosa è cambiato. Dopo che è stata malata, il senso di gratitudine per la vita ha prevalso rispetto alla percezione della solitudine.

Lo dice in una sola frase perfetta: «I never feel alone now… I feel warm and calmer». Qui c’è il non sentirsi più da soli come l’avvento di un tepore e di una calma maggiore, come la capacità di riuscire a godere del bene che arriva senza commisurarlo ad altri più inaccessibili gradi di amore.

È proprio questo, forse, l’insegnamento che l’arte di amare può dare con il passare degli anni, delle esperienze o delle solitudini: la “ferita ad amore” è quel genere di sofferenza che tutti vivono quando stanno esposti continuativamente alla paura di perdere, di essere delusi o trattati male, di non trovare, di restare soli. Ma a differenza della “ferita a morte”, la “ferita ad amore” non è la fine, perché in fondo a quella paura, a quel dolore, esiste la possibilità dolce di entrare in contatto con un sentimento maggiore, che corrisponde proprio all’amore per sé stessi, o meglio per la forma di vita che continua a scorrere dentro di noi. Proprio il non rimarginare completamente la ferita della nostra fragilità, passionalità, finitezza consente all’amore di manifestarsi ancora e ancora.

Per Erich Fromm, filosofo e psicoanalista, l’autore del famoso L’arte di amare, il fondamento di ogni amore è esattamente l’amore verso la vita. Un simile motore originario consente di dare all’amore più forme, se non tutte le forme a disposizione: «A volte penso alle relazioni umane come a qualcosa di morbido tipo la sabbia o l’acqua, cui diamo forma versandole in un determinato recipiente», scrive Sally Rooney nel romanzo Dove sei, mondo bello, e più avanti: «Magari certe amiche infelici sarebbero state perfettamente appagate come sorelle, o certe coppie sposate come genitori e figli, chissà. Ma come sarebbe costruire una relazione senza alcun tipo di forma prestabilita? Limitarsi a versare l’acqua e lasciarla cadere».

Certamente tra le strade che può prendere l’amore per la vita c’è anche l’arte.

In questo caso, pensando alle opere di Emin, sono le calcificazioni delle ferite a produrre gli oggetti artistici. La sofferenza viene deposta per accedere a quello che resta: amuleti potenti sparpagliati per il mondo, che parlano di sesso e di solitudine, ma non solo, anche di tutte le forme di amore che dal caos sono venute e che ancora devono venire.

Tracey Emin. Everything is moving nothing Feels Safe. You made me Feel like This (det.), 2018. Private collection c/o Xavier Hufkens Gallery © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Annalisa Ambrosio ha studiato Filosofia e dal 2022 dirige Academy, laurea triennale in Scrittura della Scuola Holden di Torino, di cui è stata allieva. Per Zanichelli ha curato l’antologia di italiano La Seconda Luna (2018). Il suo ultimo saggio, L’amore è cambiato, è uscito per Einaudi nel 2025.

In copertina: Tracey Emin. Hurt Heart (det.), 2015. Melbourne, ACAF, Collection by Yashian Schauble, Australia © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025