Ferita ad amore di Annalisa Ambrosio

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In italiano si può usare l’espressione “ferito a morte” per intendere che il guasto sarà fatale e che la ferita, appunto, non si rimarginerà. L’arte di Tracey Emin fa pensare a una particolare rivisitazione dell’espressione “ferita a morte”: non più “ferita a morte” ma “ferita ad amore”. Per capire che significa occorre fare un passo indietro.

Se c’è un elemento che pure uno sguardo non particolarmente esperto può notare e che accomuna molte delle opere di Emin, è un’aria di “deposizione”. E la deposizione, nel senso comune, altro non è se non il momento in cui un corpo si arrende alla gravità e alle altre forze che governano il mondo, quelle indipendenti dalla sua volontà, com’è capitato con il corpo di Cristo calato dalla croce, la più nota e iconica delle deposizioni.

In realtà, però, la deposizione è anche un fatto di ordine fisico, che riguarda ogni materia liquida: è la formazione del sedimento nel liquido, la sua trasformazione. Ciò che capita a una ferita quando inizia a chiudersi, al colore quando si aggruma, a una composizione quando dopo molto smontare e rimontare anch’essa si arrende a una forma di fissità e si placa in un codice, lo stesso capita alla lava dei vulcani, persino alle gocce d’acqua, che a un certo momento evaporano lasciando solo un deposito sulla superficie che prima le ospitava. Nella deposizione si può intravedere qualcosa come un grido (forse non a caso uno degli artisti più importanti nel percorso di Tracey Emin è stato Edward Munch), la traccia sonora e materica di quello che di una ferita rimane quando smette di sanguinare.

Degli arti di bronzo, scomposti, che si sa dove iniziano ma non dove finiscono, dei materiali di pittura sparsi per terra, un paesaggio di colore che si è spento andando in cerca degli angoli, corpi con le gambe aperte che respirano dopo essere stati lasciati soli o in attesa di non esserlo più. Ogni volta sembra che questo grande disordine ora immobile sia il frutto di una precedente esplosione di vita, proprio come la solitudine dopo il sesso: la deposizione è il momento subito dopo rispetto alla vita, la zona del suo svuotamento, il frangente in cui ne restano esposti i pezzi all’aria.

Tante delle opere di Emin hanno questo aspetto potentissimo di grandi ferite che si sono appena stabilizzate, e perciò ora sono capaci di dare luogo a un fatto, di raccontare una storia. La storia di ciò che c’è stato un passo prima, quando il sangue pulsava ancora, ma anche la storia della pace che c’è adesso.

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Tracey Emin. All I want is you (det.), 2016. Bruxelles, Xavier Hufkens Gallery © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Fra tutte le ferite possibili, com’è fatta quella causata dalla sofferenza amorosa? O dalla solitudine, cioè dell’assenza di amore? Il sentimento di innamoramento e quello di amore possono creare sofferenza per svariate ragioni, alcune di ordine culturale, che è possibile smorzare socialmente rendendo sempre più aperto, flessibile e accogliente il concetto di “amore realizzato”, non riconducendolo quindi a un’unica forma possibile troppo idealizzata ed elevata di relazione amorosa, sulla falsariga della fiaba romantica in cui due persone si incontrano e poi vivono insieme per sempre, innamorati e felici dal primo fino all’ultimo giorno. Oltre alla sofferenza di stampo sociale che si può provare se l’ideale amoroso condiviso non corrisponde alla vita che si vive, però, esiste un genere di sofferenza più metafisica e originaria che è legata al sentimento d’amore in modo ineludibile: l’esposizione continua alla violenza del caso.

L’amore intensifica e rende ancora più visibile una qualità della vita che è la sua instabilità, il fatto che non possiamo controllarla, deciderla, pianificarla, se non entro certi limiti. Non si può amare a comando, non si può essere amati a comando, non si può fare che le persone amate corrispondano all’immagine che ne abbiamo o che ne abbiamo avuto. La solitudine maggiore, più insopportabile, è quella di chi comprensibilmente aspetta di essere amato: l’attesa che l’amore arrivi, o l’attesa di una persona in particolare, di “un” amore. È questa una condizione del tempo in cui ciò che fa impazzire chi attende è la cognizione che: “non c’è niente che si possa fare”. A differenza delle altre faccende del mondo, l’amore nella gran parte dei casi si sottrae del tutto alla regola della buona volontà, per cui la fatica, l’impegno, il lavoro o lo studio praticati con costanza bastano per arrivare a ottenere il risultato. Mentre in amore, spesso, niente che si può fare assicura il risultato. Da questa impossibilità di agire deriva il sentimento di solitudine, che non può essere mascherato da un fare, perché non c’è una corrispondenza tra le iniziative che si mettono in atto e quanto si viene amati.

George Simmel ha definito ogni amore un’“avventura” proprio perché consiste nella maggiore apertura al caso e all’imprevisto che riusciamo a descrivere: naturalmente anche le nostre singole vite sono continuamente esposte al caso, alla possibilità della morte o della ferita, ma siamo spesso immersi in uno scenario di costante rimozione di questa eventualità, della morte in particolare; quando si tratta invece dell’amore la rimozione è più complessa: anziché dimenticare se ne parla, si fa strategia, perché l’amore travolgente, a differenza della morte che non è in discussione, può sempre sorprenderci e arrivare anche se avevamo perso le speranza.

E poi c’è il corpo. Un corpo che la ferita d’amore fa sentire inutile, o sbagliato, un corpo freddo che deve essere conservato per l’amore. È il corpo il grande territorio sul quale si consuma lo spettacolo della sofferenza amorosa, non tanto o non solo per via della solitudine sessuale (dopotutto non è detto che sesso e amore vadano di pari passo), ma soprattutto perché il corpo ci mostra a suo modo lo scorrere del tempo e quindi sa quanto è passato dall’ultima volta che ci siamo sentiti amati.

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@traceyeminstudio, foto pubblicata su Instagram il 14 febbraio 2025

C’è un post sul profilo Instagram ufficiale di Tracey Emin, che risale al 14 febbraio: nella foto c’è una rosa rossa su un tavolo che ospita un quaderno di disegni e dei tubetti di pittura nera, in sottofondo un letto bianco e sfatto. L’artista scrive nel testo sotto l’immagine che non sa da chi ha ricevuto quella rosa, ma che l’ha fatta sentire bene. Aggiunge che il giorno di San Valentino è stato spesso stato occasione di pensieri estremamente dolorosi per lei, un giorno speciale alla rovescia in cui si sentiva davvero sola, più precisamente nel contrasto: «So much talk of love and I felt alone». Poi qualcosa è cambiato. Dopo che è stata malata, il senso di gratitudine per la vita ha prevalso rispetto alla percezione della solitudine.

Lo dice in una sola frase perfetta: «I never feel alone now… I feel warm and calmer». Qui c’è il non sentirsi più da soli come l’avvento di un tepore e di una calma maggiore, come la capacità di riuscire a godere del bene che arriva senza commisurarlo ad altri più inaccessibili gradi di amore.

È proprio questo, forse, l’insegnamento che l’arte di amare può dare con il passare degli anni, delle esperienze o delle solitudini: la “ferita ad amore” è quel genere di sofferenza che tutti vivono quando stanno esposti continuativamente alla paura di perdere, di essere delusi o trattati male, di non trovare, di restare soli. Ma a differenza della “ferita a morte”, la “ferita ad amore” non è la fine, perché in fondo a quella paura, a quel dolore, esiste la possibilità dolce di entrare in contatto con un sentimento maggiore, che corrisponde proprio all’amore per sé stessi, o meglio per la forma di vita che continua a scorrere dentro di noi. Proprio il non rimarginare completamente la ferita della nostra fragilità, passionalità, finitezza consente all’amore di manifestarsi ancora e ancora.

Per Erich Fromm, filosofo e psicoanalista, l’autore del famoso L’arte di amare, il fondamento di ogni amore è esattamente l’amore verso la vita. Un simile motore originario consente di dare all’amore più forme, se non tutte le forme a disposizione: «A volte penso alle relazioni umane come a qualcosa di morbido tipo la sabbia o l’acqua, cui diamo forma versandole in un determinato recipiente», scrive Sally Rooney nel romanzo Dove sei, mondo bello, e più avanti: «Magari certe amiche infelici sarebbero state perfettamente appagate come sorelle, o certe coppie sposate come genitori e figli, chissà. Ma come sarebbe costruire una relazione senza alcun tipo di forma prestabilita? Limitarsi a versare l’acqua e lasciarla cadere».

Certamente tra le strade che può prendere l’amore per la vita c’è anche l’arte.

In questo caso, pensando alle opere di Emin, sono le calcificazioni delle ferite a produrre gli oggetti artistici. La sofferenza viene deposta per accedere a quello che resta: amuleti potenti sparpagliati per il mondo, che parlano di sesso e di solitudine, ma non solo, anche di tutte le forme di amore che dal caos sono venute e che ancora devono venire.

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Tracey Emin. Everything is moving nothing Feels Safe. You made me Feel like This (det.), 2018. Private collection c/o Xavier Hufkens Gallery © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Annalisa Ambrosio ha studiato Filosofia e dal 2022 dirige Academy, laurea triennale in Scrittura della Scuola Holden di Torino, di cui è stata allieva. Per Zanichelli ha curato l’antologia di italiano La Seconda Luna (2018). Il suo ultimo saggio, L’amore è cambiato, è uscito per Einaudi nel 2025.

In copertina: Tracey Emin. Hurt Heart (det.), 2015. Melbourne, ACAF, Collection by Yashian Schauble, Australia © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025