L’Ironia Come Atteggiamento Proprio dell’Artista e Suscitato nello Spettatore

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La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:

  • arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
  • opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
  • la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
  • l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.

Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità dalla proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.

 

di Marta Matassoni

Sintesi

All’inizio del Novecento i filosofi russi Sergej N. Bulgakov e Nikolaj Berdjaev guardarono con preoccupazione agli esiti di futurismo e cubismo, avvertendo nella loro volontà di rinnovamento una grave crisi dell’arte e dell’umanità intera. Qualche anno più tardi il filosofo spagnolo Ortega y Gasset individuò una possibilità di salvezza nel “destino ironico” dell’arte, che si sarebbe attuato pienamente nelle ricerche dell’italiano Piero Manzoni nel corso degli anni Sessanta. Fortemente debitore delle sperimentazioni duchampiane Manzoni si fece promotore di un’operazione dadaista concettuale d’impronta esplicitamente ironica, modificando radicalmente la natura dell’opera d’arte e instaurando un nuovo dialogo con lo spettatore.
Parole chiave: Ortega y Gasset, Piero Manzoni, ironia, Dada, arte concettuale

Il destino ironico dell’arte e il “fattore Duchamp”

Tra 1915 e 1918 i filosofi russi Sergej N. Bulgakov (1871-1944) e Nikolaj Berdjaev (1874-1948), poco dopo aver visitato la mostra di Picasso presso la galleria Ščukin di Mosca, rilevarono con grande sconcerto la presenza di una grave frattura nel rapporto fra arte e vita, “fra la creatività e l’essere” (Berdjaev, 2012: 41), anticipando una questione che sarebbe stata centrale anche nei decenni successivi e di cui tutt’oggi si discute1.
Qualche anno più tardi il filosofo spagnolo Ortega y Gasset (1883-1955) ne La disumanizzazione dell’arte (1925) tentava di analizzare quel cambiamento senza precedenti innescato all’interno del panorama artistico novecentesco dalle avanguardie storiche, che avrebbero condizionato in maniera irreversibile anche tutte le manifestazioni artistiche a venire, individuando una possibilità di salvezza proprio nel destino ironico dell’arte. Tra le diverse tendenze proprie di questa “arte nuova” il filosofo individuava, infatti, oltre all’inconfutabile presenza di una nuova sensibilità estetica, un’essenziale ironia di fondo (Ortega y Gasset, 2016: 17) e descriveva le nuove correnti artistiche come “un fenomeno d’indole equivoca […] perché equivoci sono tutti i grandi fatti di questi anni in corso” (2016: 44). Quel carattere serio e ieratico dell’arte del passato, che talvolta “pretendeva perfino di condurre a salvamento la sorte umana” (2016: 45), non sembrava più essere una componente propria dell’arte dell’ultimo secolo. Proprio questa ironia, notava Ortega, è ciò che sconcerta maggiormente la sensibilità delle persone serie, che si rifiutano di riconoscere nella farsa l’essenziale vocazione dell’arte2. Questa, infatti, in quanto rappresentazione, risulta necessariamente orientata alla ricerca della finzione, finalità che può scaturire soltanto da una “condizione di spirito gioviale” (2016: 45).
Ortega, del resto, non sarebbe stato il primo a evidenziare l’intento ironico dell’arte, dal momento che, come ricorda lui stesso, all’inizio del XIX secolo un gruppo di romantici tedeschi guidati dai fratelli Schlegel aveva dichiarato l’Ironia la più alta categoria estetica ed eletto il poeta moderno come l’ironista per eccellenza (Givone, 2011: 64). Quest’ultimo, infatti, dopo aver sottoposto a un’attenta critica i materiali della tradizione, li trasforma radicalmente, conducendo l’arte verso “l’indistinzione fra apparenza e verità, fra il serio e lo scherzoso” (2011: 65). Nel suo tentativo di creazione di un orizzonte irreale l’arte non si libera del suo concetto di verità, ma questa viene semplicemente trasferita in un altrove, “cui si risale non già perché sia possibile raggiungerla, ma perché il risalimento è compito fine a se stesso” (2011: 64).
Prima ancora che Ortega pubblicasse La disumanizzazione dell’arte, la riflessione sull’ironia in relazione alle diverse manifestazioni artistiche, venne affrontata anche da Luigi Pirandello, che ne individuò una certa somiglianza con il concetto di “umorismo” (Pirandello, 1994: 10), strumento essenziale per cogliere le più profonde contraddizioni della realtà, da lui teorizzato nell’omonimo saggio pubblicato nel 1908 (Ardizzola, 2014: 9). Pirandello descrive l’umorismo come “sentimento del contrario”, e cioè come un complesso stato d’animo che consente all’artista di vedere un aspetto della realtà, avvertendone al tempo stesso il suo contrario (Pirandello, 1994: 116). L’umorismo, che consiste dunque in un “fenomeno di sdoppiamento” (1994: 175), non esclude la comicità, ma questa ne rappresenta solo il momento iniziale per lasciare spazio a una riflessione più profonda.
L’analisi di Pirandello sull’umorismo, sebbene trovi maggiori affinità con la pittura espressionista più che con le successive manifestazioni artistiche, come non manca di sottolineare Paola Ardizzola (2014: 8), è comunque sintomatica dell’affermarsi della tendenza, rilevabile già nelle opere del belga James Ensor3 (Fig.1), a servirsi dell’ironia come strumento per aggredire la società del proprio tempo. Il fine era quello di rivelarne superstizioni, vizi e ipocrisie, esortando lo spettatore a modificare la sua idea di arte.

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Fig.1: James Ensor, Autoritratto con maschere, 1899, olio su tela, 117×80 cm, Aichi, Ménard Art Museum


Se i pittori espressionisti
credevano ancora nell’arte, al contrario, i dadaisti operarono un rovesciamento anche del tradizionale statuto di opera d’arte. La polemica contro la società aveva orientato molte delle opere espressioniste, ma i dadaisti assunsero una posizione ancor più radicale, opponendosi a tutto ciò che era espressione di quella società, comprese le sue manifestazioni artistiche (De Micheli, 2018: 156). Massimo protagonista dell’arte di Dada fu naturalmente Marcel Duchamp, che contravvenne a tutto quello che fino a quel momento era stato elemento portante e imprescindibile dell’opera d’arte e, attraverso una serie di operazioni fortemente connesse al caso e impregnate di ironia, propose come oggetti esteticamente rilevanti comunissimi prodotti pre-confezionati, seriali, anonimi (Barilli, 2005: 189).

Come evidenzia Maurizio Calvesi (2008: 323), fondamentale era la decontestualizzazione dell’oggetto prelevato e la sua conseguente destinazione a una funzione inaspettata e inconsueta, che generava nell’osservatore un effetto di spaesamento (Fig. 2).

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Fig. 2: Marcel Duchamp, Fountain, 1917, replica 1964, porcellana, 36x48x61, Londra Tate Modern

Il “fattore Duchamp”, come lo chiama Alessandro Del Puppo (2013: 40-41), fu indispensabile per l’affermarsi di un’arte che si sarebbe rifugiata sempre più nell’anestetico: Duchamp, attraverso le tecniche del comico e dell’ironia, dimostrò come, anziché rincorrere forme ingannevoli e illusorie, la realtà intera, nei suoi aspetti più concreti e banali, poteva essere riconosciuta come artistica. Tra lo spettatore e l’oggetto iniziò così a stabilirsi un nuovo e inconsueto rapporto, impostato sulla componente dell’ironia, essenziale nella logica duchampiana, ma anche in molte delle successive correnti artistiche.

Ironia e provocazione nell’opera di Piero Manzoni

Negli anni Sessanta del Novecento con le sue scatolette di Merda d’artista (Fig. 3) l’italiano Piero Manzoni (1933-1963), con un atto ancora più estremo rispetto agli scandali suscitati dalle opere duchampiane (Argan 1970: 656), si era fatto promotore di un’operazione dadaista concettuale d’impronta esplicitamente ironica. Secondo una paradossale messa in discussione dello statuto di opera d’arte, così come era avvenuto per Fountain (1917), l’artista aveva riempito novanta scatolette dei suoi escrementi, ciascuna dal contenuto netto di trenta grammi, tutte conservate al naturale e rigorosamente “made in Italy” (Celant, 2014: 143). In questa ironica operazione di inscatolamento Manzoni aveva trasformato la materia più bassa e umile che esiste, vendendola a peso d’oro e conferendole la dignità di opera d’arte. Qualora si volesse verificare l’effettivo contenuto della scatoletta, si finirebbe col distruggere irrimediabilmente l’opera, annullandone il valore (Criqui, 1992: 22).

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Fig. 3: Piero Manzoni, Merda d’artista n. 68, maggio 1961, scatoletta di latta, carta stampata, cm 4,8 x 6,4 Milano Fondazione Piero Manzoni. Foto Agostino Osio © Fondazione Piero Manzoni Milano by SIAE 2018

Rifacendosi alle pratiche di rovesciamento e spaesamento proprie dei ready-made, Manzoni invitava l’osservatore ad assumere una prospettiva differente; se nella frustrazione della visibilità dell’opera, chiusa nella scatoletta, vi è un’adesione a una ricerca di tipo mentalistico e di impronta concettuale, si nota parallelamente una decisa affermazione del valore supremo del corpo attraverso il coinvolgimento delle stesse funzioni vitali dell’artista, che si poneva in anticipo della Body Art (Barilli, 2005: 293).

In questa irriverente operazione si rileva, inoltre, una critica verso il feticismo e la brama di possesso di alcuni collezionisti d’arte (Celant, 2014: 143): ad essi l’artista, provocatoriamente, aveva dichiarato di voler offrire qualcosa di veramente intimo e personale come i suoi stessi escrementi (Dutton, 2008: 202).

Nell’ottica di Manzoni, al di là dell’atto dichiaratamente demistificatorio, il compito dell’artista doveva diventare anche quello di renderci vigili e consapevoli del nostro stesso esistere: non è più necessario articolare alcun messaggio, “c’è solo da essere, c’è solo da vivere” (Criqui, 1992: 24).

Nel luglio del 1960 in occasione della performance condivisa di Consumazione dell’arte (Fig. 4), Manzoni invitava il pubblico a cibarsi di un uovo sodo timbrato con la propria impronta digitale (Celant, 2014: 139); con questo atto, dal carattere fortemente simbolico e provocatorio, intendeva trasmettere la propria creatività e lucidità esistenziale allo spettatore-consumatore, coinvolgendolo attivamente e accentuandone la percezione sensoriale4.

Del medesimo anno sono i Corpi d’aria5 (Fig. 5), “sculture da viaggio” che lo spettatore poteva gonfiare personalmente o acquistare a un prezzo maggiore già gonfiate dall’artista, trasformandosi in tal caso in Fiato d’artista6(Barbero, Pola, 2018: 77).

Alla messa in discussione dello statuto di opera d’arte si accompagna, dunque, anche una divertita e sarcastica riflessione sulla mercificazione dell’arte e sulla volubilità con cui il mercato crea valore: l’artista immette sul mercato qualcosa da lui stesso prodotto, che va a confondersi come bene di consumo insieme a una miriade di altre offerte (Celant, 2014: 144).

Nell’opera di Manzoni, oltre all’esigenza di ridefinire il ruolo dell’artista nella contemporaneità e di fare dell’opera d’arte un dirompente strumento di provocazione, emerge anche un’evidente critica verso la società dei consumi di massa, al cui rassicurante orizzonte visivo avevano aderito pienamente gli artisti della pop art. D’altra parte, il periodo storico in cui Manzoni si trova a operare, corrisponde all’apogeo del neocapitalismo, nonché allo sviluppo delle moderne strategie di marketing e al considerevole aumento del numero di consumatori (Del Puppo, 2013: 43-44). Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta la città di Milano era stata totalmente investita da questo processo di modernizzazione e industrializzazione, che aveva prodotto significative trasformazioni a livello sociale, politico e culturale, con le quali l’arte non aveva potuto fare a meno di misurarsi e interagire (Barbero, Pola 2018: 66).

Manzoni non credeva più in un’arte che fosse rappresentazione mimetica della realtà o espressione dell’interiorità dell’artista ed era estremamente critico verso tutti quei pittori che intervenivano sulla tela con il loro corpo e la loro soggettività (Celant 2014: 132-133). Non potendo più esprimere se stesso attraverso la superficie della tela, come prova la sua serie di Achromes (Fig. 6), in cui la materia si mostra come puro significante, Manzoni era arrivato a far coincidere l’arte con il soggetto stesso, con le sue azioni, i suoi gesti e le tracce del suo esistere (2014: 23).

A Roma nel 1961, in un’operazione tra il serio e lo scherzoso, aveva iniziato a riconoscere le prime persone quali opere d’arte, certificandone lo status con la propria firma e rilasciando persino una ricevuta di autenticità7 (2014: 144-146). Si poteva diventare temporaneamente opera d’arte anche salendo sulla Base Magica, che poi si trasformerà nello Socle du Monde (Fig. 7), piedistallo rovesciato a sostegno dell’intero pianeta che, come un duchampiano ready-made, viene elevato ad opera d’arte insieme a tutti i suoi abitanti (Galimberti, 2012: 87).

Nell’opera di Manzoni, con i suoi molteplici livelli di lettura e la presenza di una forte componente ironica, sembra emergere proprio ciò che Ortega avvertiva nelle avanguardie storiche e che poi avrebbe contraddistinto molte delle correnti artistiche successive. Se da un lato l’esito dell’operazione umoristica di Manzoni, di chiara derivazione duchampiana, aveva determinato la dissoluzione dell’“aura”8 e della sacralità propria dell’opera d’arte come unicum, dall’altro veniva riaffermata con forza la centralità dell’artista e della sua opera.

Quella di Manzoni non era dunque una sterile provocazione, ma rientrava in una riflessione più profonda, volta a creare un nuovo rapporto con lo spettatore e a stabilire un più saldo nesso tra arte e vita. Pur nella sua brevità, l’esperienza di Piero Manzoni, con la sua straordinaria carica innovativa, si rivelerà fondamentale per comprendere molti dei percorsi intrapresi dagli artisti degli anni Sessanta (Serraller, 1992: 38).

L’ironia come strumento di critica

Il difficile rapporto tra arte e società, che aveva generato un’accesa polemica dopo la prima guerra mondiale, a seguito della seconda s’inasprì a tal punto che la “morte” dell’arte sembrava ormai imminente e ineluttabile (Argan, 1970: 605). Lo choc provocato dalla seconda guerra mondiale ebbe profonde conseguenze sulle ricerche artistiche e il volto dell’arte, sottoposto a una continua metamorfosi, non sarebbe più stato lo stesso (Celant 2014: 105). Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, in Europa e negli Stati Uniti, alcuni artisti, come Piero Manzoni, iniziarono a indagare sulla natura e il senso dell’arte, arrivando a mettere in discussione l’oggetto artistico in quanto tale, non più in grado di trasmettere verità assolute e, come osservava Argan (1970: 608), spesso vittima di un mercato che finiva con lo svilire l’opera, abbassata a una merce qualunque. La volontà di trasgressione e rinnovamento, che si fecero più accese soprattutto in seguito alle contestazioni politiche e alle tensioni sociali del Sessantotto, sarebbe proseguita ancora per tutti gli anni Settanta, arrivando a sottoporre a un’aspra critica persino le stesse istituzioni espositive, che divennero oggetto di un’impietosa parodia9 (Del Puppo, 2013: 98-99). Tuttavia all’interno di quella che nel 1947 Max Horkheimer e Theodor Adorno definirono come “industria culturale”, l’arte poteva ancora avere una funzione essenziale: rivoltandosi contro il suo essere stata ridotta a bene di consumo, l’arte diventa caricatura e negazione di se stessa, “non nel senso di scomparire, togliersi di mezzo, hegelianamente morire […], ma nel senso di tenere aperta la possibilità di uno sguardo controluce sul mondo e di dar voce, paradossalmente, magari ammutolendo, alla ‘vita offesa’” (Givone, 2011: 126). Proprio sfruttando le armi del paradosso e dell’ironia, alcuni artisti tentarono di suscitare un atteggiamento critico nello spettatore, spingendolo a interrogarsi sul proprio modo di percepire e fruire la realtà.

Incredibilmente furono proprio gli artisti a minacciare la “morte” dell’arte che, nella sua tradizionale concezione, era stata fin troppo strumentalizzata e banalizzata (Argan, 1970: 608), eppure l’arte, proprio come aveva profetizzato Ortega (2016: 45), “in questa attitudine di annientare se stessa, continua ad essere arte e, per una miracolosa dialettica, la sua negazione diventa la sua conservazione e il suo trionfo”.

 

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Note


1 La riflessione sulla “crisi dell’arte” è stata affrontata da Hans Sedlmayr in Perdita del Centro. Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca (1948) e più recentemente da alcuni critici come Jean Clair.
2 “Ma l’artista ci invita a contemplare un’arte che è uno scherzo […] Invece di ridersi di qualcuno o di qualcosa […] l’arte nuova mette in ridicolo se stessa. E non ci si deve allarmare a sentire queste proposizioni. Mai l’arte ha palesato meglio il suo magico dono come in questa burla di se stessa”. J. Ortega y Gasset , La disumanizzazione dell’arte, Milano, 2016, p. 45
3 James Ensor (1860-1949) dichiarò nei suoi Scritti di essere stato “conquistato dall’ironia”, di cui si servì per deformare la pittura tradizionale, senza ancora trasformarla del tutto. Cfr. M.A. Caws (ed.), Manifesto: a century of -isms, University of Nebraska Press, 2001, p. 263
4 “Anche Manzoni divora l’uovo. Alla ricerca di un’auto-fecondazione […] mangia il suo stesso corpo, l’uovo segnato dal suo pollice. La conseguenza, condivisa dal pubblico, è la consapevolezza di un’unione mistica con l’arte, un’elevazione del soggetto a opera” G. Celant, Su Piero Manzoni, Milano, 2014, p. 140
5 “I Corpi d’aria, quelle sculture pneumatiche che nascono grazie al soffio-pneuma dell’artista, ripropongono il divino insieme all’umano. Pneuma è l’atto di ispirazione divina per il quale si soffia l’anima dentro la materia, che si trasforma così in materia animata vitale” F. C. Seraller, “Dire, essere, vivere”, in G. Celant (a cura di) Piero Manzoni, Electa, Milano, 1992, p. 36
6 Con i Corpi d’aria e la serie dei Fiati vi era anche una ripresa letterale da Duchamp, che nel 1966 in una lunga intervista aveva affermato: “each second, each breath is a work which is inscribed nowhere, which is neither visual nor celebral. It’s a sort of constant euphoria” P. Cabanne, Dialogues with Marcel Duchamp, Cambridge (MA), 1979, p. 72
7 “Su ogni ricevuta e ogni matrice, Manzoni incolla un bollino di colore rosso o giallo, verde o viola. Ogni colore ha un significato specifico: il rosso indica che l’individuo è un’opera d’arte completa e tale rimane sino alla sua morte. Il colore giallo che è valida solo la parte firmata. Con il colore verde si pongono a una condizione e una limitazione al gesto o all’atteggiamento plastico del corpo, per cui si è arte solo in certe posizioni, ad esempio dormendo, parlando, camminando o correndo. Infine il viola ha gli stessi effetti del rosso, solo che è «a pagamento». Tra gli ammessi all’empireo dell’arte: Marcel Broodthaers, Umberto Eco, Emilio Villa e Henk Peeters” Celant, op. cit., 2014, pp. 145-146
8 Walter Benjamin (1892-1940) aveva elaborato il concetto di “aura” dell’opera d’arte nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936, in cui sosteneva che, a causa della sua riproduzione tecnica, l’opera finiva col perdere la sua unicità e il suo carattere auratico, aprendo a un’esperienza del tutto diversa.
9 Nel 1969 l’artista statunitense Robert Barry inviò 4000 biglietti d’invito per tre mostre, che si sarebbero tenute ad Amsterdam, Torino e Los Angeles, con le quali informava i destinatari che durante l’esibizione la galleria sarebbe rimasta chiusa. Ancora più ironico il belga Marcel Broodthaers che istituì nella sua casa studio di Bruxelles un museo personale di arte moderna che, nella sua grottesca organizzazione, doveva rappresentare una parodia delle istituzioni espositive e degli eventi di politica culturale. Sulla critica istituzionale cfr. A. Del Puppo, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento, Torino, 2013, pp. 96-99