I giorni delle festività pasquali rievocano opere e immagini della mostra Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana, tenutasi a Palazzo Strozzi fra 2015 e 2016 a cura di Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Ludovica Sebregondi e Carlo Sisi. Il percorso espositivo ospitava opere di artisti italiani e internazionali offrendo un’originale riflessione sul sacro nell’arte moderna, sottolineandone il dialogo, le relazioni e, talvolta, i conflitti, grazie in particolare alla perdurante forza e modernità di immagini iconografiche tradizionali reinterpretate da artisti spesso non cristiani o non credenti.
Opera simbolo di questo tema è la Crocifissione bianca di Marc Chagall (Moishe Segal; Vitebsk 1887-Saint-Paul-de-Vence 1985). Nel superamento dell’iconografia classica, l’artista ci parla di dolore, massacri, persecuzioni religiose, migrazioni: allusioni storiche molto chiare quando l’opera venne dipinta nel 1938, anno della Notte dei Cristalli, pogrom antisemitico che segna l’inizio ufficiale dell’Olocausto nella Germania nazista.
Chagall tramuta il soggetto della crocifissione in lirica testimonianza della condizione degli ebrei, presentando Gesù come «l’archetipo del martire ebreo di tutti i tempi», simbolo della sofferenza del proprio popolo. Il tradizionale perizoma è sostituito da un tallit, lo scialle da preghiera, la corona di spine da un copricapo di tessuto. Una menorah occupa la parte centrale dell’opera. Sotto la croce e lateralmente incombono le devastazioni: sulla destra un soldato nazista sta appiccando il fuoco alla vela di una sinagoga ormai in fiamme, l’arca è rotta, sedie e libri di preghiera giacciono sulla strada, un rotolo della Torah sta bruciando e un vecchio fugge mentre una madre cerca di confortare il suo bambino.
L’artista è ritornato più volte nei suoi lavori sul rapporto tra ebrei e cristiani, ed è forse proprio il forte dialogo interreligioso che l’anima, a farne una delle opere d’arte preferite da papa Francesco, come da lui stesso dichiarato. In occasione del Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze, il 9 novembre 2015, l’opera fu eccezionalmente trasferita da Palazzo Strozzi al Battistero fiorentino, dove dialogava con i mosaici duecenteschi in una straordinaria unità fra l’arte antica e moderna nella riflessione sulla trascendenza.
Il tema della crocifissione è stato più volte il soggetto di opere di un artista italiano come Emilio Vedova (Venezia 1919-2006) senza considerazione di tipo religioso bensì in virtù della sua potente drammaticità, trovando ispirazione in particolare nei teleri di Tintoretto sulla Passione di Cristo nelle chiese veneziane. La Crocifissione contemporanea del 1953 testimonia l’approdo pieno di Vedova al linguaggio dell’informale ma allo stesso tempo, usando le parole di Palma Bucarelli, storica direttrice della GNAM di Roma, il dipinto rappresenta «una delle migliori espressioni dell’arte drammaticamente intensa e umana di questo artista».
Emilio Vedova, Crocifissione Contemporanea – Ciclo della protesta n. 4, 1953, Roma, GNAM – Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. Foto Antonio Idini
L’opera si stacca da precedenti versioni dell’artista sul tema. La crocifissione in sé è scomparsa, rimane solo la sua drammaticità tradotta dalla gestualità pittorica di Vedova che esprime una riflessione profonda sulla sofferenza, intesa come condizione esistenziale umana all’indomani della seconda guerra mondiale. Il tumulto della composizione, basato sul forte e dinamico contrasto fra il bianco e il nero delle pennellate, crea un vero e proprio campo di azione, astratto e allo stesso tempo teatrale che trova ancora un riferimento figurativo alla croce nella parte bassa al centro della tela: due linee nere, salde e nette, affiancate dalle uniche pennellate colorate di tutta l’opera, rosse come il sangue, che diventano un invito di profonda riflessione sul rapporto tra vita e morte.
Jean-François Millet, L’Angelus, 1857-1859, Parigi, Musée d’Orsay, legato di Alfred Chauchard, 1910. Foto © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay) / Hervé Lewandowski
Andando oltre l’iconografia della crocifissione, manifesto poetico e profondo dell’arte moderna sul senso religioso è L’Angelus, uno dei capolavori più noti dell’artista francese Jean-François Millet (Gréville 1814-Barbizon 1875). Preghiera che ricorda il saluto dell’angelo a Maria durante l’Annunciazione, già dal Trecento l’Angelus invitava i fedeli alla recita dell’Ave Maria in tre momenti diversi della giornata, al mattino, a mezzogiorno e alla sera. Attraverso il suono delle campane, con tre rintocchi brevi seguito da uno più lungo, il rito pervadeva la vita quotidiana. Come lo stesso Millet ricordava: «L’Angelus è un quadro che ho dipinto ricordando i tempi in cui lavoravamo nei campi e mia nonna, ogni volta che sentiva il rintocco della campana, ci faceva smettere per pregare».
La composizione è serrata e compatta. Ai piedi di due contadini raccolti in preghiera c’è una cesta, dietro una carriola con due sacchi. A sinistra un forcone piantato nel terreno dal ragazzo che ha interrotto il lavoro. Dietro le figure il campo si estende fino all’orizzonte dove si intravede appena la sagoma sbiadita di un piccolo borgo, con un campanile e alcune case. Memore delle tele di Constable, Millet pone il cielo come elemento fondamentale dell’opera, occupando oltre un terzo della superficie pittorica. Costuiti con forza da colori caldi e bruni i due contadini ci appaiono come in controluce, due figure esaltate nella loro umiltà ma allo stesso tempo nella loro grande dignità umana.
Come scrive in catalogo Carlo Sisi: «La “rustica bontà” diffusa nei quadri di Millet riguardava ogni aspetto della civiltà contadina, ora attingendo a componenti liriche – che per l’Angelus avevano fatto scrivere ad Alfred Sensier di suggestioni sonore riferibili al mormorio sommesso della campagna e al rintocco lontano delle campane – ora chiamando in causa il persistere della tradizione religiosa tra la popolazione rurale, di cui il celebre quadro di Millet rappresentò appunto la commovente testimonianza. Non a caso i commentatori dell’opera si soffermarono a descrivere l’incanto riflessivo della scena, aumentato dell’effetto trascolorante della luce, ma soprattutto il messaggio morale affidato ai due assorti protagonisti, umili e monumentali allo stesso tempo, silenziosi tramiti di un convinto e intenso messaggio morale».
Illustrando i ritmi immutabili che scandiscono la vita dei campi, Millet propone una riflessione sul rapporto tra uomo e natura secondo una dichiarazione di etica spirituale universale. La preghiera dei due contadini diviene meditazione sulla vita, un manifesto di speranza e fiducia nella natura.