L’oro, i rossi, gli azzurri di Beato Angelico non sono più quelli maestosi e impenetrabili delle tavole gotiche, ma nascondono sottintesi così contemporanei da affascinare persino un grande bad boy dell’arte come David Hockney che nella sua Annunciation II del 2017 (ora alla Fondation Vuitton di Parigi nella retrospettiva dedicata al pittore inglese) (ndr: la mostra si è conclusa il 1° settembre 2025) ne ha fornito un’intrigante versione lisergica in salsa pop. La sua rappresentazione del sacro e del divino (nonostante l’artista sia un frate domenicano, beatificato nel 1982 da Giovanni Paolo II) appare così moderna da avere ispirato Mark Rothko, maestro dell’informale, in capolavori come Untitled (Blu, Yellow, Green on Red) del 1954 e persino nella sua celebratissima Cappella (1964-1971) di Houston, Texas. Il senso del racconto (e dello spettacolo) che ha trasformato il suo ciclo di affreschi nel convento di San Marco a Firenze in un’attualissima installazione site-specific ha toccato così profondamente Bill Viola da avergli suggerito le meravigliose prospettive di video-opere come The Crossing (1996) e The Quintet of Ascension (2000).

Settant’anni dopo l’ultima grande mostra ai Musei Vaticani e al Museo di San Marco, il genio implacabile di Guido di Piero (Vicchio di Mugello, Firenze, 1395 circa – Roma, 1455), poi Fra Giovanni da Fiesole, ma universalmente noto come Beato Angelico (dal 1984 «patrono degli artisti»), torna protagonista assoluto della monografica («straordinaria e irripetibile», dicono i curatori) dal 26 settembre al 25 gennaio 2026 a Firenze nelle due sedi di Palazzo Strozzi e del Museo di San Marco.
Curata da Carl Brandon Strehlke con Angelo Tartuferi e Stefano Casciu la mostra mette in luce l’intera gamma dell’opera dell’artista: gli esordi con le miniature e i disegni, le pale d’altare, gli affreschi e i progetti culturali e spirituali. Oltre 140 le opere (affreschi e predelle comprese): il Giudizio Universale dal Museo di San Marco (1425-1428 circa); il Cristo come Re dei Re dalla Cattedrale di San Francesco di Livorno (1447-1450); l’Annunciazione dal Museo della Basilica di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Valdarno, Arezzo (1432); il Tabernacolo reliquiario di Santa Maria Novella con i funerali e l’Assunzione della Vergine dall’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston (1430 circa); la Crocifissione dal Metropolitan Museum of Art di New York (1418-1420); la Madonna dell’Umiltà dalla Thyssen-Bornemisza Collection di Madrid (1433-1435); il San Francesco dal Philadelphia Museum of Art (1427-1430).
Il percorso esplora le tappe della vita e della formazione dell’Angelico, ma anche il contesto culturale e iconografico dell’epoca, instaurando un dialogo tra le in fluenze fiamminghe, i contributi di altri grandi come Lorenzo Monaco, Masaccio, Filippo Lippi, e le sculture di Ghiberti, Michelozzo e Luca della Robbia.

Al centro della mostra, la prima ricostruzione «in presenza» della Pala di San Marco (1438-1442), rimossa dall’altar maggiore di San Marco (per il quale Cosimo de’ Medici l’aveva commissionata), poi smembrata e infine dispersa in più musei (la stessa passione per Beato Angelico che avrebbe conquistato Botticelli, Lippi, Chagall e persino Goethe alimentò anche un mercato di smembramenti e vendite più o meno leciti). La Pala ritrova qui 17 dei suoi 18 elementi: in origine tutti inseriti in un supporto ligneo che la mostra restituisce in forma di profilo disegnato.
Ci sono la tavola principale (con la Madonna, il Bambino, angeli e santi, una Sacra Conversazione e una Crocifissione dipinta che sembra letteralmente uscire dalla tavola), i 9 elementi della predella (con le storie di Cosma e Damiano e un Seppellimento di Cristo che richiama inequivocabilmente Bill Viola) e 7 degli 8 santi dei pilastri (mancherà soltanto per la precarietà del suo stato attuale, precarietà provocata dall’ennesimo smembramento, il Sant’Antonio Abate dell’Art Institute di Chicago).
La Pala arriva in mostra dopo il restauro eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure (2012-2019). La Fondazione Friends of Florence sostiene adesso il restauro dell’affresco raffigurante San Domenico in adorazione del Crocifisso nel chiostro di Sant’Antonino all’interno del Museo di San Marco (restauro che verrà ultimato per la mostra) e quattro anni fa aveva sponsorizzato l’allestimento della nuova Sala del Beato Angelico nel museo diretto dal 2024 da Marco Mozzo.
La Pala ricomposta si conferma capolavoro di straordinaria intensità spirituale e innovazione stilistica, rivelando tutte le sfumature del suo linguaggio e del suo significato simbolico, offrendo al pubblico un’esperienza contemplativa di rara profondità, la stessa che sembra frenare i visitatori del museo da ogni possibile tentazione di selfie davanti al Beato Angelico e in particolare davanti ai suoi affreschi nelle celle di questo convento oggi ormai svuotato (l’unico domenicano che celebra messa arriva da Santa Maria Novella) che ospita ancora la cella del sindaco «santo» Giorgio La Pira.
L’origine della Pala si lega agli anni cruciali della Firenze del Quattrocento, un periodo caratterizzato da un forte rinnovamento culturale e spirituale, in cui la committenza medicea e il convento di San Marco si intrecciano in una strategia di affermazione identitaria. Commissionata da Cosimo de’ Medici (è lui il personaggio inginocchiato davanti alla Madonna che nella tavola centrale guarda lo spettatore), la Pala non doveva limitarsi a essere un elemento devozionale: evocava, più che altro, un messaggio politico-culturale, una sorta di manifesto della nuova identità medicea e un tributo alla spiritualità domenicana. Per questa ragione, la scelta del Beato Angelico risponde alla volontà di coniugare rigore iconografico e sensibilità.
La forma (quasi) quadrata della Pala centrale (220 centimetri x 227), tra le più antiche testimonianze di Sacra Conversazione rappresenta un’innovazione rispetto alle consuete pale a predella orizzontale o a trittico, proponendo un’armonia, sicuramente più moderna, tutta giocata tra spazio e tempo, in una nuova prospettiva di rappresentazione. La scena si svolge in un hortus conclusus, un giardino chiuso che non solo «richiama» la figura della Vergine, simbolo di purezza spirituale, ma mette in scena anche uno spazio di comunità, di meditazione, di dialogo tra il divino e l’umano. I santi (Lorenzo, Giovanni Evangelista, Marco, Domenico, Francesco, Pietro Martire, Cosma e Damiano) non appaiono più semplici figure statiche, bensì interlocutori in un dialogo spirituale vivo, ma anche in qualche modo politico. La figura di Damiano vista quasi completamente da tergo (mentre in quella di Cosma si ritrova un cripto-ritratto del committente Cosimo) rimanda alla memoria del gemello di Cosimo, Damiano, che si ritiene morto subito dopo la nascita, o quella del fratello minore, Lorenzo, scomparso nel 1440.

La profondità spaziale ottenuta attraverso principi costruttivi innovativi (come la collocazione «in rilevo» della Crocifissione in una sorta di trompe l’oeil che suggerisce un dialogo diretto con il celebrante) permette agli sguardi e alle posture di comunicare emozioni profonde, elevando la scena da una semplice rappresentazione sacra a un’esperienza contemplativa coinvolgente. Le arcate, avvolte dalla penombra e illuminate da una luce che filtra da destra, suggeriscono l’intervento simbolico della luce di Cristo mentre (più prosaicamente) il velo liturgico di ispirazione bizantina che avvolge la scena e il tappeto mediceo sono richiami di traffici orientali e di ricchezze, che sottolineano la volontà di Beato Angelico di integrare mondi culturali diversi per donare unicità e ricchezza alla composizione.
E se le figure dei santi nei pilastri vengono realizzate in base all’incidenza della luce, la sequenza delle tavole della predella propone con il Miracolo della gamba nera o con la Guarigione di Palladia un racconto vivissimo.
La storia della Pala di San Marco è dunque una storia di perdite e di rinascite (saranno i preraffaelliti nella seconda metà dell’Ottocento a restituire al Beato Angelico la fama ingiustamente perduta nel Seicento), ma resta prima di tutto la storia di un maestro implacabile nella sua grandezza e nella sua modernità.
Da «La Lettura» («Corriere della Sera»), 20 luglio 2025.
Stefano Bucci (Fiesole, Firenze, 1957) è redattore delle pagine culturali del «Corriere della Sera» e del supplemento culturale «La Lettura». Dopo la Scuola superiore di giornalismo della Luiss di Roma ha lavorato al «Lavoro» di Genova e al «Domenicale» del «Sole 24-Ore».
In copertina: Beato Angelico, Pala di San Marco, Tavola principale (det.), 1438-1442, Firenze, Museo di San Marco, inv. 1890 n. 8505. Su concessione del Ministero della Cultura – Direzione regionale Musei nazionali Toscana – Museo di San Marco.