Verso la nostra fase due

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di Arturo Galansino, Ludovica Sebregondi, Riccardo Lami e Matthias Favarato

Ottantaquattro: tanti sono i giorni da domenica 8 marzo, inizio del lockdown di Palazzo Strozzi, a lunedì 1° giugno, data della riapertura della mostra Tomás Saraceno. Aria. Inizia anche per Palazzo Strozzi una “fase due” nell’epoca del COVID-19, che parte anche da un bilancio e un ripensamento del nostro progetto online IN CONTATTO verso una sua nuova evoluzione.

IN CONTATTO è nato con immediatezza, spontaneità e un forte senso di urgenza, in un momento di totale incertezza su quello che sarebbe successo nelle settimane successive. Fin da subito abbiamo voluto reagire a questa crisi con un chiaro obiettivo: non perdere il rapporto con i nostri visitatori, con la volontà di sentirli vicini in un momento di profonda insicurezza per tutti noi, disorientati da una situazione nuova e sconosciuta. La mostra di Tomás Saraceno è stata un punto di partenza perfetto, quasi profetica nel suo riflettere sulla fragilità del nostro mondo. E il paragone con la tela di ragno a illustrare l’ambiente in cui siamo inseriti, fortemente collegato alle opere di Saraceno, è il più adeguato per definire la rete di relazioni che in questo periodo ci ha tenuto uniti. Una rete legata al mondo online, attorno a cui sono gravitate necessariamente tutte le nostre attività quotidiane tra cui anche soddisfare il nostro bisogno di cultura e bellezza.

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Il videomessaggio di Tomás Saraceno

La nostra scelta per IN CONTATTO è stata quella di unire il sito e i canali social attraverso la creazione di contenuti nuovi e originali con cui rileggere, e non solo rievocare in chiave amarcord, alcuni momenti della storia di Palazzo Strozzi, riscoprendo un loro nuovo valore alla luce dell’attualità del presente. È così che abbiamo trattato temi mai così attuali come l’interconnessione, l’isolamento, il senso di Nazione e comunità, la famiglia, l’inclusività. Per rivolgerci a pubblici differenti, abbiamo dato spazio a punti di vista diversi, come dimostrano gli autori dei contributi – interni ed esterni alla Fondazione Palazzo Strozzi – con cui abbiamo voluto guardare non al passato ma sempre al presente e al futuro. Un impulso fondamentale è stato dato dai videomessaggi degli artisti che hanno voluto testimoniare la propria vicinanza a Palazzo Strozzi, in considerazione del loro forte legame con noi, ma anche all’Italia intera. Marina Abramović, Ai Weiwei, Jeff Koons e Tomás Saraceno hanno fatto sentire il loro sostegno, ottenendo un riscontro straordinario. Tra tutti emerge quello di Marina che ha ottenuto quasi un milione di visualizzazioni.

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Il videomessaggio di Marina Abramović

Anche altri numeri possono aiutare a raccontare questo progetto. Sulla piattaforma IN CONTATTO abbiamo pubblicato ventiquattro contributi, letti da quasi 60.000 utenti unici. Sui canali social, tra Facebook e Instagram, abbiamo pubblicato oltre 100 post, raggiungendo oltre un milione e mezzo di persone e facendo crescere la nostra community online del 10% in solo due mesi. L’elevato tempo medio trascorso sulle pagine di IN CONTATTO rappresenta inoltre un dato estremamente interessante, dimostrando che le persone hanno preferito focalizzare la loro attenzione in una fruizione non superficiale, nonostante il momento di frenesia nel consumo dei contenuti online. La “top 5” degli articoli più letti è rappresentata da Siamo tutti sulla stessa barca, Abbracci spezzati, A tavola con Pontormo, Uomini, albicocchi e mucche, Il cielo in una stanza. Non si tratta di una semplice classifica, ma di un vero e proprio specchio della poliedricità del nostro approccio e della varietà di interessi dei nostri lettori. Una menzione speciale la merita il progetto educativo a distanza L’ARTE A CASA dedicato alle famiglie con bambini e ragazzi, che è stato visitato da quasi 6.000 utenti, molti dei quali ci hanno inviato anche i risultati delle varie attività. Inoltre abbiamo apprezzato l’affetto e la stima di chi, da tempo, segue le nostre iniziative: la newsletter è stato infatti lo strumento principale attraverso il quale IN CONTATTO è stato fruito, a dimostrazione della vicinanza del nostro pubblico anche in un momento di distanziamento fisico.

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Una selezione degli articoli di IN CONTATTO dal nostro blog.

E adesso, con la riapertura della mostra dal 1° giugno, si apre una nuova fase di IN CONTATTO che diviene una rubrica in uscita ogni due settimane. Palazzo Strozzi, come ogni istituzione culturale che voglia parlare al proprio tempo, si impegna a trattare i temi più rilevanti del presente e ogni nostra mostra e attività diventano così occasioni per indagare il mondo in cui viviamo in chiave sempre contemporanea. Nelle prossime settimane continueremo a portare avanti il progetto IN CONTATTO ispirandoci a quelle che Saraceno definisce “visioni di futuro e di realtà”. Parleremo delle mostre, delle attività e della vita di Palazzo Strozzi con la volontà di mantenere uno spazio di riflessione parallelo, un luogo di contaminazione e condivisione di punti di vista diversi.

Being Together, stare insieme

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di Riccardo Lami

Parlare di famiglia significa affrontare un argomento personale e intimo nella vita di ogni individuo, un tema a cui chiunque è legato secondo specifiche esperienze di rapporti e contesti. Come affrontato nella mostra Questioni di famiglia tenutasi a Palazzo Strozzi nel 2014, riflettere su come gli artisti trattano questo tema non comporta tanto domandarsi cosa sia la famiglia ai loro occhi: significa bensì investigare come essa svolga, oggi più che mai, un ruolo fondamentale nella vita di ognuno.

Il titolo della serie fotografica di John Clang Being Together (“Stare insieme”, 2010-2014) è un’espressione che risuona come quasi fuori luogo in questi giorni segnati da termini come isolamento, quarantena, distanziamento. Allo stesso tempo questa espressione sembra rispondere a una nostra urgenza profonda, mai come ora attuale: non essere soli, far parte di una “famiglia”, sia essa quella di origine sia quella che abbiamo scelto.

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John Clang, Being Together (Family), 2010. Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

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John Clang, Yeo family (New York, Sengkang), 2010, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

La serie di Clang è costituita da oltre quaranta ritratti di famiglie i cui membri sono fisicamente separati tra loro, lontani a volte migliaia di chilometri. In ogni fotografia, attraverso l’utilizzo di una webcam proiettata in scala 1:1 su una parete, alcune persone sono in collegamento con il luogo in cui si trovano uno o più membri della loro famiglia. Tutte le fotografie sono scattate tramite collegamenti internet in diretta, come in una normale videochiamata, e tutti gli ambienti ritratti sono le reali abitazioni delle persone che vivono lontane dalle proprie famiglie. Sono soggiorni o camere da letto, stanze popolate di oggetti che esprimono la vita quotidiana. Ogni ritratto crea una sorta di “riunione di famiglia” nel non-luogo dell’immagine fotografica, facendo emergere una ricerca di identità e appartenenza ma anche, al contrario, un profondo senso di estraneità e alienazione.

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John Clang, Goh family (Bellevue, Bedok), 2011, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

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John Clang, Lim family (London, Upper Serangoon), 2012, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

Cruciale nel ritratto di famiglia è la tensione tra dimensione pubblica e privata, un elemento che sta alla base del lavoro dell’artista israeliano Guy Ben-Ner. Nel video Soundtrack (2013) Ben-Ner, i propri figli e alcuni amici creano una sequenza di immagini che vengono sovrapposte a una parte del sonoro del film hollywoodiano La guerra dei mondi. L’invasione aliena del film di Spielberg diviene la colonna sonora per una serie di improbabili eventi domestici. La forza dell’opera sta nella sua capacità di creare un cortocircuito tra realtà e immaginazione in cui la figura della famiglia diviene un luogo ambiguo, sicuro e pericoloso allo stesso tempo, fulcro della ironica follia che domina tutto lo svolgimento del video.

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Guy Ben-Ner, Soundtrack, 2013
Courtesy l’artista e Pinksummer, Genova

Fin dagli anni Ottanta, in parallelo alla sua produzione su altri temi, il fotografo tedesco Thomas Struth ha lavorato alla serie Familienleben  (“Vita familiare”), serie di ritratti nati da incontri specifici con famiglie di amici, colleghi o conoscenti colti nei rispettivi spazi domestici. Tipico di tutto il lavoro di Struth è il forte controllo formale che qui esalta la messa a fuoco di ogni singolo dettaglio: gli sguardi e le espressioni dei soggetti, il loro abbigliamento, lo spazio. Ciascuna opera diviene una sorta di lente di ingrandimento tramite cui far emergere la specificità ma anche il valore esemplare di ogni famiglia. Ai soggetti è richiesto di guardare direttamente in camera con il massimo di immobilità e concentrazione. «Niente bambini o bambine sorridenti, niente madri o padri allegri. Quello che mi interessa veramente è dare al pubblico un posto da osservare che sia un po’ incerto e, al tempo stesso, un po’ ambiguo».

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Thomas Struth, The Falletti Family, Florence, 2005
De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

Ogni immagine presenta volti e contesti particolari, ma diviene anche modello per la chiara costruzione di ruoli, gerarchie, dinamiche. Citando quanto scrive Alois Riegl sul ritratto di gruppo olandese nel Seicento: «[Il ritratto di famiglia] non è né un’estensione del ritratto singolo né meccanica composizione di ritratti singoli in un quadro: esso è molto di più, la rappresentazione di una corporazione». Il singolo individuo rappresentato è definito dalla relazione con gli altri: essere il padre o la madre di, la figlia o il figlio di, e via dicendo. Parallelamente, chi osserva un ritratto di famiglia sembra quasi invitato a decodificare relazioni e parentele in funzione della propria realtà, ricollegando quelle immagini alla propria vita, ai propri legami, alla propria famiglia. A differenza di ritratti individuali o di gruppo in cui i soggetti rappresentati sono esaltati nelle loro caratteristiche uniche, il ritratto di famiglia non crea la rappresentazione di una realtà lontana o distaccata, bensì comune e, appunto, familiare.

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Thomas Struth, Untitled (New York Family 1), New York, 2001, De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

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Thomas Struth, The Richter Family 2, Cologne, 2002, De Pont museum of contemporary art, Tilburg NL

L’idea del ritratto di famiglia trova nelle opere di Nan Goldin una contrapposta rielaborazione. Celebre per un’impronta diaristica e fortemente realistica, il suo lavoro è sempre espressione di un legame inestricabile con la propria biografia. Nelle sue opere, la famiglia appare come il risultato un’esigenza esistenziale: «stare raggruppati insieme, basato sul senso di incompletezza del singolo individuo». La fotografia diviene uno strumento relazionale e la sua intera carriera diviene un viaggio per immagini di incontri e connessioni: «Non ho mai creduto che un solo ritratto possa determinare un soggetto, ma credo in una pluralità di immagini che testimoniano la complessità di una vita». Un forte senso di spontaneità si unisce a un rigoroso controllo formale che risulta evidente nell’uso della messa a fuoco, nella costruzione di piani prospettici ribaltati, nell’accurata composizione di luci e linee.

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Nan Goldin, Guido with his mother, grandmother and shadow, Turin, 1999, Guido Costa Projects & Matthews Marks Gallery

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Nan Goldin, My parents kissing on their bed, Salem, MA, 2004, Courtesy l’artista

In alcune immagini Nan Goldin crea un confronto generazionale all’interno di uno stesso gruppo familiare, in altre invece ritrae tabù come la sessualità dei genitori. Come lei stessa afferma: «Non credo che un solo ritratto possa esprimere ciò che una persona è». Le sue opere non hanno come scopo l’attestazione dell’identità di un soggetto, bensì l’affermazione di uno sguardo che testimonia una relazione umana, trasformandola in un ricordo che sopravviva al passare del tempo.

 

In copertina: John Clang, Tye family (Paris, Tanglin), 2012, Courtesy l’artista e Pékin Fine Arts, Beijing

Siamo tutti sulla stessa barca

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di Riccardo Lami e Ludovica Sebregondi

“Siamo tutti sulla stessa barca” affermava Marina Abramović sul manifesto da lei creato nel 2018 e affisso sulla facciata di Palazzo Strozzi in occasione della mostra Marina Abramovic. The Cleaner, riflettendo sul fatto che «siamo tutti sullo stesso pianeta: chi ama il mare ama la terra e chi ama la terra ama il nostro futuro». Nel 2020 questo slogan, nato in una prospettiva ambientalista, sta acquistando un significato più ampio: un messaggio di speranza e fiducia reciproca insieme alla riflessione sulla necessità di fare fronte comune in un periodo tanto difficile. In queste settimane sono state innumerevoli le citazioni che ne sono state fatte, sui social media in primo luogo. A Firenze, su un muro del popolare mercato di Sant’Ambrogio è addirittura apparso un manifesto, firmato con un’esplicita dichiarazione di derivazione, “D’après Marina Abramović”.

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A sinistra: Marina Abramović, We’re All in the Same Boat, manifesto per Barcolana 50, 2018.
A destra: Michela Carlotta Tumiati, Lima, 2020.

Riflettendo sulla propria vita, Marina ha da sempre portato alla ribalta temi cruciali della condizione umana, riuscendo a comunicare come nessun altro artista col presente, interpretandone le contraddizioni e le urgenze. Alla fiducia nella comunità, ad aprirsi agli altri, Marina è arrivata partendo dalle prime performance nelle quali metteva alla prova la propria capacità di resistenza individuale e passando attraverso le performance insieme a Ulay. E tra queste oggi ci appare con grande forza e attualità contemporanea Rest Energy (1980), una prova estrema di fiducia, in cui per quattro minuti e venti secondi la vita di Marina era nelle mani di Ulay, creando un’indimenticabile immagine di tensione, metafora del nostro rapporto con l’altro.

«Io reggevo un grosso arco e Ulay ne tendeva la corda, reggendo tra le dita la base di una freccia puntata contro il mio petto. Eravamo entrambi in uno stato di tensione costante, ciascuno tirando dalla sua parte, con il rischio che, se Ulay avesse mollato la presa, avrei potuto trovarmi con il cuore trafitto. Nel frattempo, al nostro petto era attaccato un piccolo microfono, di modo che il pubblico sentisse il battito amplificato dei nostri cuori. E questi battevano sempre più veloci» (da Attraversare i muri, trad. it. 2016).

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Ulay/Marina Abramović, Rest Energy, 1980, Amsterdam, LIMA Foundation.
Courtesy of Marina Abramović Archives e LIMA, MAC/2017/034

Col tempo il flusso di energia, lo scambio profondo che in precedenza si creava tra lei e Ulay ha incluso sempre più persone alla ricerca di una «completa vulnerabilità e apertura nei confronti del pubblico». Manifesto ne è The Artist is Present tenutasi al MoMA di New York nel 2010 in cui di fronte all’artista serba, immobile e in silenzio, si sono alternate 1675 persone che erano invitate a sedersi di fronte a lei e a fissarla per tutto il tempo che volevano. In quell’occasione Marina ha percepito l’«enorme bisogno delle persone di avere anche solo un contatto». E nel marzo 2020 le sue parole che riflettono sul rapporto con l’altro risuonano come non mai.

«Verso la fine di The Artist is Present provavo una stanchezza mentale e fisica mai sentita. Inoltre, il mio punto di vista, tutto quello che prima mi era sembrato importante – la vita quotidiana, le cose che mi piacevano e quelle che non mi piacevano – erano cambiati completamente». Come in tutto il suo percorso artistico, Marina riflette sulla privazione per rivalutare l’essenziale. L’isolamento, il silenzio, il venire meno di un rapporto diretto con l’altro ci fanno capire l’importanza di restare in contatto e di dare valore allo sguardo e alla presenza di chi ci sta davanti.

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Marina Abramović, The Artist is Present, 2010, New York, Abramović LLC.
Photo Marco Anelli. Courtesy of Marina Abramović Archives e Sean Kelly, New York, MAC/2017/071

«Siamo così alienati gli uni dagli altri? In che modo la società ci ha resi così distanti? Ci mandiamo sms senza mai incontrarci, anche se viviamo a due passi. Ecco come nasce la solitudine delle persone. Non c’è stato un secondo in cui questa sedia è rimasta vuota. I visitatori in fila dormivano fuori dal museo, aspettando per ore e ore, anche per tornare ancora. Cosa stava succedendo? Io ti guardo, ti sento, vieni fotografato e tutti gli altri ti guardano, ti scrutano e tu non sai dove guardare, se non dentro di te. E nel momento in cui sei davvero dentro te stesso, in quel preciso momento tutte le tue emozioni e le tue sensazioni affiorano e ti travolgono. Ecco perché le persone iniziano a piangere: è un’esperienza totalizzante. Ciò non avviene nell’intimo delle nostre case, perché non siamo più in contatto con noi stessi. Ma sul palco che ho creato appositamente, è successo davvero qualcosa, qualcosa di diverso, che non avevo mai fatto prima». (Marina Abramović)