Un medium pittorico per la scultura: le superfici riflettenti di Anish Kapoor

blank

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteDiane H. Bodart, Maître de conférences di Storia dell’arte moderna all’Università di Poitiers, rilegge le opere specchianti di Kapoor all’interno della lunga disputa sul paragone tra le arti, che tanta letteratura ha prodotto in epoca rinascimentale.

Le sculture specchianti di Anish Kapoor, ampliate alla scala urbana, sfidano le proprietà fondamentali dei monumenti pubblici. Per le dimensioni colossali nonché per la durezza e il peso dei materiali di realizzazione, i monumenti pubblici sono in genere destinati a rimanere saldamente ancorati al suolo, imponendo la loro visibile e costante presenza come qualcosa di inamovibile e immutabile. Presunto vettore di eternità, nel corso della storia hanno dato forma ad alcune delle più importanti espressioni di potere, marcando la topografia cittadina come enormi sigilli di dominio. Le gigantesche sculture riflettenti di Kapoor, come il Cloud Gate (2004) al Millennium Park di Chicago o la più recente opera ai piedi della cosiddetta Jenga Tower (2023), il grattacielo di Herzog & de Meuron al 56 di Leonard Street a New York, levitano leggere come grandi bolle appena atterrate su una piazza o intrappolate da un edificio, capaci di rispondere elasticamente alle asperità del terreno, ma sempre sul punto di scoppiare e svanire. Con la loro forma sfuggente e mutevole mettono in discussione la gravità materiale della scultura, mentre le qualità iper-riflettenti delle superfici in acciaio inossidabile, in cui si riverberano non solo i profili fissi degli edifici, ma anche le condizioni meteorologiche e di luce variabili e il quotidiano viavai urbano, interrompono definitivamente il senso di persistenza immutabile.

blank
Anish Kapoor, Cloud Gate, 2004
Photo Peter J. Schluz ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
blank
Anish Kapoor, untitled (56 Leonard Street), 2023
Photo Iwan Baan ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Tra gli esperimenti inaugurali del primo Rinascimento italiano nell’ambito della prospettiva, intesa come nuovo strumento per misurare, dominare e rappresentare il mondo, è inclusa una tavoletta dipinta dall’architetto Filippo Brunelleschi, raffigurante l’alzato del battistero di Firenze visto dalla cattedrale. Nella tavola, la parte superiore posta sopra l’orizzonte non era dipinta bensì ricoperta da una foglia d’argento lucida. Se osservata nella giusta posizione, riflessa in uno specchio di fronte al battistero, l’immagine sulla tavoletta si sovrapponeva perfettamente all’edificio reale, mentre il cielo si rifletteva nella lamina argentea. Dimostrando le potenzialità del nuovo strumento nel proiettare lo spazio architettonico tridimensionale su una superficie piana, Brunelleschi ne riconosceva contemporaneamente i limiti: i movimenti della natura, come la variazione della luce e il passaggio delle nuvole, non potevano essere ridotti alla logica geometrica della griglia prospettica. Gli oggetti specchianti che Kapoor colloca in spazi urbani attivano in modo analogo la tensione tra permanente e mutevole, superandola tuttavia simultaneamente. Infatti, sulla superficie riflettente delle sculture, non solo il cielo ma anche l’aspetto dello skyline cambia a seconda del tempo e dell’ora, includendo inoltre il continuo andirivieni di persone che anima la città.

blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Collocando la sua pratica all’intersezione tra scultura e pittura e fondendo la dimensione fisica della prima con la qualità illusoria della seconda, Kapoor ripropone i termini dell’antico dibattito comparativo tra le due arti, comunemente noto come “paragone”, che infiammò il discorso artistico durante il Rinascimento italiano. Nel contesto di questa disputa, la supremazia della scultura veniva rivendicata per la verità della sua sostanza fisica, che poteva essere attestata non solo con la visione dell’occhio ma anche con il tocco della mano, mentre la preminenza della pittura si basava sulla sua capacità di rappresentare l’intero mondo visibile, compresi la luce immateriale e i fenomeni atmosferici come nuvole, folgori e riflessi. Le superfici riflettenti sarebbero effettivamente diventate l’arma assoluta della pittura, sia negli scritti dei letterati sia nelle opere dimostrative dei pittori.

blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

In copertina: Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

I vuoti della Città ideale

blank

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteMorgan Ng, Assistant Professor al Dipartimento di Storia dell’Arte della Yale University, si ispira alle sculture che Kapoor fa emergere dal terreno per esplorare il mondo ipogeo come immaginato nel Rinascimento.

In questa città nulla sfugge allo sguardo. Teorie di palazzi si susseguono davanti agli occhi: volumi geometrici nitidi, logge ariose, fulgide incrostazioni di marmo, architetture composte da piani e angoli ben definiti, visibili su ogni lato. Il tempio rotondo al centro della piazza è l’unica forma che sfida l’impietosa logica rettilinea della città, i motivi ripetuti della pavimentazione e la sequenza senza fine di campate. Qui le ombre si fanno evanescenti. Si dissolvono sotto l’inarrestabile luce del sole che inonda le superfici lapidee e si riversa nel reticolo di strade, insinuandosi anche nelle fessure più nascoste.

blank
Pittore dell’Italia centrale, Città ideale, 1480-1490 circa?, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.
Foto Scala, Firenze. Su concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo.

Questa visione urbana, radiosa e inquietante, è il soggetto di un lungo dipinto orizzontale noto come “tavola di Urbino”. L’opera è stata presumibilmente eseguita alla fine del XV secolo da un maestro dell’Italia centrale per la dinastia dei Montefeltro, signori appunto di Urbino, città da cui prende il nome la tavola, ed è oggi esposta nell’antico Palazzo Ducale. La tavola di Urbino ha goduto di uno status leggendario nella storia dell’arte rinascimentale. Generazioni di studiosi hanno visto in esso il manifesto trionfale del senso umanistico della realtà che emerse in quel periodo. A questo soggetto il mondo si sottomette come oggetto di analisi empirica totalizzante, contemplazione razionale e ri-creazione utopica.

Ma la città ideale rivela davvero tutti i suoi segreti? Quali oscure realtà potrebbero celarsi dietro le brillanti superfici di questa fantasia albertiana?

Due pozzi ottagonali identici, posti simmetricamente alle due estremità della piazza, risaltano in primo piano davanti agli occhi dell’osservatore, come a segnare il bordo di un proscenio teatrale. Questi pozzi introducono nell’immagine nuove interferenze ottiche; disturbano la città ideale con vuoti invisibili e insondabili. I pozzi aperti tracciano assi che si immergono verticalmente nelle profondità invisibili del terreno. Dal punto di vista pittorico, producono lo stesso effetto inquietante di strane forme nere sospese in modo incongruente nel vuoto bianco e uniforme di una galleria espositiva modernista. Come tunnel spazio-temporali, queste aperture risucchiano l’immaginazione dell’osservatore da un mondo limpido, reticolare e conoscibile, trascinandola in una realtà alternativa dalle coordinate incerte.

Se potessimo seguire questa pista e scendere nei pozzi, arriveremmo probabilmente a un paesaggio sotterraneo come quello raffigurato da certi artisti e architetti del Quattrocento. Figure come Mariano Taccola da Siena o il suo seguace Francesco di Giorgio Martini, quest’ultimo forse collega del pittore della Città ideale alla corte dei Montefeltro (alcuni hanno addirittura ipotizzato che Francesco stesso possa essere l’autore della tavola). Nei loro disegni e schizzi la visione trascende limiti materiali e corporei. Le viscere della terra rivelano il loro contenuto come in una radiografia. Impenetrabili pareti montuose appaiono come volumi trasparenti che svelano la presenza di gallerie idrauliche e mulini sotterranei.

blank
Macchinario sotterraneo alimentato ad acqua, in Mariano di Jacopo detto Taccola, De ingeneis ac edificiis, libri III-IV (1432-1433), fol. 22r, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Palatino 766)
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Su concessione del Ministero della Cultura

Queste visioni sotterranee trovano una sorprendente controparte nel più ampio immaginario letterario, teologico e artistico del Quattrocento. Si consideri il commento del 1472 alla Divina Commedia dantesca da parte di Antonio di Tuccio Manetti, architetto e intellettuale poliedrico. Manetti si prefisse un’impresa stupefacente: la descrizione topograficamente sistematica di «sito, forma e grandezza dell’Inferno». Con precisione numerica ossessiva, degna di Francesco di Giorgio Martini e delle sue geometrie sotterranee, specificò sia la larghezza dell’apertura sia la profondità di questa «enorme caverna». L’impulso rinascimentale a misurare razionalmente la terra assume qui una forma assurda e grottesca: il progetto di mappare una geografia infernale mai vista.

blank
Mappa di Gerusalemme, del vano infernale e del monte Purgatorio, in Girolamo Benivieni, Dialogo di Antonio Manetti, cittadino fiorentino circa al sito, forma, et misure dello Inferno di Dante Alighieri poeta excellentissimo, Firenze, Filippo di Giunta, 1506, Cornell University
PJ Mode Collection of Persuasive Cartography, Cornell University, Ithaca, New York

In copertina: Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

La scultura policroma nella Firenze del primo Rinascimento

blank

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteRachel Boyd, curatrice del Dipartimento di Scultura rinascimentale al Victoria & Albert Museum di Londra, indaga la nostra visione distorta dell’immagine che Firenze offriva nel Rinascimento, evidenziando come le sculture di Kapoor ci invitino a riflettere su questa storia locale e a considerare gli usi e le connotazioni dei pigmenti nella scultura rinascimentale.

Il colore è una caratteristica distintiva del tessuto urbano fiorentino. In una breve passeggiata per la città, lo spettatore si imbatte inevitabilmente in un’impressionate quantità di materiali, dalla pietra serena preferita da Brunelleschi al marmo verde di Prato utilizzato per la facciata romanica di San Miniato al Monte, dal porfido della Giustizia in cima alla colonna di piazza Santa Trinita alle superfici scintillanti di vetro, lapislazzuli, oro e marmo bianco del tabernacolo medievale realizzato da Orcagna per la Madonna di Orsanmichele.

blank
Basilica di San Miniato al Monte, Firenze, XI-XIII secolo.
Foto Scala, Firenze

Quello che vediamo oggi, tuttavia, è solo un’eco della centralità del colore nella cultura artistica della Firenze rinascimentale, poiché molte delle superfici dipinte di sculture e edifici si sono consumate con il tempo e con l’uso o sono state intenzionalmente private delle loro tonalità originali. Le vibranti sculture di pigmenti di Anish Kapoor, una selezione delle quali è inclusa nella mostra in corso a Palazzo Strozzi, invitano a riflettere su questa storia locale e a considerare gli usi e le connotazioni dei pigmenti nella scultura rinascimentale in particolare. Si tratta di una storia che solo ora inizia a essere esplorata, e in alcuni casi celebrata, dagli studiosi del periodo, anche se i pregiudizi nei confronti della scultura policroma – spesso liquidata come poco sofisticata, innaturale, troppo religiosa, sentimentale, appariscente o kitsch – rimangono radicati nella disciplina della storia dell’arte. I pigmenti colorati sono ancora considerati competenza esclusiva dei pittori della prima età moderna, non di coloro che creavano opere tridimensionali.

blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Sara Sassi ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Sara Sassi ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Scultori famosi come Lorenzo Ghiberti, Donatello e Luca della Robbia lavoravano con il colore in diversi modi. Tutti e tre avevano ricevuto un’educazione da orafi e la loro formazione li rendeva abili non solo nel disegno, nella realizzazione di modelli in cera e argilla come pure nel taglio e nella lucidatura di pietre preziose, ma anche nella smaltatura, una tecnica con cui sostanze vetrose vengono legate a un substrato attraverso l’uso del calore per creare superfici dai colori abbaglianti e riflettenti. Donatello usò una gamma di materiali colorati – dalla cera pigmentata rossa e verde ai frammenti di ceramica smaltata – per creare fondi riflettenti dai colori vivaci per i suoi rilievi in terracotta e marmo.

blank
Donatello, Supplizio di san Giovanni Evangelista nell’olio bollente, 1435-1440 circa, Firenze, Basilica
di San Lorenzo, Sagrestia Vecchia.
Opera Medicea Laurenziana, Firenze. Foto Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Su concessione del Ministero della Cultura

Se Donatello sperimentava in modo costante con i materiali, creando una sorprendente gamma di effetti visivi, fu però il suo contemporaneo Luca della Robbia a realizzare una fusione quasi completa tra arte pittorica e scultorea. Negli anni trenta del Quattrocento, quando già vantava una carriera di successo nella lavorazione del marmo e del bronzo, egli sviluppò una nuova e particolare forma di scultura in terracotta rivestita di smalti colorati.

blank
Luca della Robbia, La visitazione, particolare del drappeggio della Vergine, 1440 circa, Pistoia, Chiesa di San Giovanni Fuorcivitas.
Foto Rachel Boyd. Su concessione dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Arezzo Cortona Sansepolcro.

Gli strati di colore – pigmenti mescolati per creare smalti, fusi con l’argilla mediante il fuoco e poi ulteriormente abbelliti con una fragile vernice rossa e, in alcuni casi, con l’oro, nonché con gioielli e abiti talvolta aggiunti dai devoti – invitano quindi lo spettatore, oggi come nel Rinascimento, a considerare alcune delle stesse domande suscitate dalle opere di Kapoor: come chiedeva Homi Bhabha più di dieci anni fa, la “pelle” dell’oggetto è sinonimo o emanazione naturale della forma o piuttosto un’aggiunta instabile e inorganica?

blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.

Vivissimi. Corpi di carne, cera e silicone

blank

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteFrancesca Borgo, professore alla School of Art History all’Università di St Andrews, ricostruisce la ricerca rinascimentale per la creazione di una statua che viva di vita propria e l’ampio uso della cera, sia nella tradizione artistica fiorentina che nell’arte di Anish Kapoor.

La grande massa di cera color sangue si muove tra le porte del palazzo. Svayambhu (2007), “sorto da sé”, avanza lento, senza preoccuparsi della propria mole: come mosso da una volontà di vita cieca alle circostanze – alla nostra presenza, a quelle porte in cui non è detto riesca a infilarsi – e in questo spingersi prende forma, scorticato dall’attrito con pareti, pavimento e stipiti, lasciando dietro di sé una scia amorfa di macchie. Plasmato non da mano umana, ma dall’accidente: scultura senza autore, senz’altra volontà se non la propria. È un oggetto che simula di essere soggetto; un corpo che si muove, che sporca e lascia tracce, nasce e muore. Il suo scopo non è la verità ma l’artificio, l’illusione dell’inanimato che prende vita: untrue, unreal.

blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Quella della statua che si anima e vive di vita propria è una favola impossibile che si racconta spesso. Da Pigmalione in avanti, creare la vita dove la vita manca, suggerendola attraverso il movimento, è una vecchia sfida dell’arte occidentale. L’arte «in sé non è viva ma isprimitrice di cose vive senza vita», scrive Leonardo (1452-1519); l’opera che non riesce a creare un’illusione di movimento nella materia inerte è «due volte morta», nella realtà e nella finzione, «se non le si aggiunge la vivacità dell’atto essa riman morta la seconda volta». Per questo l’artista deve cancellare ogni traccia del proprio fare, l’evidenza della mano e in particolare la visibilità del segno, in modo che l’opera appaia miracolosamente, appunto, “sorta da sé”.

La capacità di moto proprio è – lo dice Aristotele – segnale inconfondibile di un essere vivente. Non è però solo il movimento a rendere Svayambhu un discendente del sogno rinascimentale di animazione dell’inanimato. Più di qualsiasi altro mezzo scultoreo, la cera è infatti legata ai processi della vita: nascita, metamorfosi, dissoluzione, rigenerazione. Al tempo stesso calda e fredda, flessibile e solida, amorfa e polimorfa, la cera sovverte l’aspettativa di immutabilità generalmente associata alla scultura. Risponde al nostro tocco, si scalda e modella: reagisce, e quindi è viva; anche nella storia ovidiana di Pigmalione, lo scultore percepisce l’animazione della statua sotto le dita come cera che si ammorbidisce al sole (Ovidio, Metamorfosi, X, 284). L’innata predisposizione al cambiamento, la docilità e l’arrendevolezza, la capacità metamorfica, hanno a lungo assicurato alla cera un posto di riguardo nella produzione artistica occidentale, in particolare come simulacro intero o parziale del corpo umano, soprattutto nei suoi stati di malattia, morte e lacerazione della carne.

blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Sara Sassi ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Sara Sassi ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Nel Rinascimento sono di cera le maschere mortuarie e gli ex voto che riproducono singole parti del corpo, malate o già risanate. Ma soprattutto – e in particolare a Firenze – sono di cera le effigi votive che un tempo, ammassate a migliaia, riempivano il santuario della Santissima Annunziata; sempre a Firenze, la cera sarà poi il materiale dei modelli anatomici che faranno del museo della Specola il centro della ceroplastica scientifica, quelle Veneri aperte, sventrate, indagate nei segreti delle viscere.

blank
Lodovico Cigoli, figura maschile detta Lo scorticato, 1598-1600, Firenze, Museo del Bargello.
Photo Luisa Ricciarini/Bridgeman Images

Celebrata già da Plinio per le sue qualità ultra mimetiche, soprattutto quando mischiata a pigmenti colorati, in particolare il rosso (Naturalis historia, XXI, 49), la forza della cera è tale da poter fare addirittura a meno della verosimiglianza. La donazione di una massa di cera grezza, non lavorata e non figurata, corrispondente al peso o alla statura del corpo sofferente e in sua sostituzione, descritta nelle fonti come mensuratio o ponderatio corporis, è un rituale votivo noto almeno dalla fine del XIII secolo. Esposti nei santuari assieme agli ex voto antropomorfi e assolutamente equivalenti dal punto di vista funzionale, questi blocchi di cera parlano del potere della materia stessa nel suggerire la vita, anche senza l’ausilio della mimesi. Presentano ciò che siamo senza immagine, come pura sostanza corporea. Come Svayambhu, la massa di cera non rappresenta un corpo ma lo presenta, attraverso una relazione che fa dell’affinità al vivente una qualità intrinseca del materiale, qualità che non ha nulla a che vedere con una scelta stilistica più o meno figurativa.

Non c’è verità in questa operazione: la cera è per antonomasia il materiale della finzione, dell’artificio, del fingersi altro da sé. È la materia dell’inganno – untrue, unreal – ancora di più quando utilizzata con esiti iperrealistici da artisti e artigiani.

blank
Clemente Susini, La sventrata (det.), 1781-1782,
Firenze, La Specola, Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze.
Photo Raffaello Bencini/Bridgeman Images

Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.

Oggetto/Non-oggetto

blank

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteTommaso Mozzati, professore di Storia dell’Arte Moderna all’Università degli Studi di Perugia, evidenzia la secolare vocazione della città di Firenze per la scultura.

Da Charles de Brosses a Joshua Reynolds, da Stendhal a John Ruskin, per arrivare alle esperienze sempre più frequenti della fine del secolo, il centro toscano si rispecchia nella sua galleria di sculture, venendo a identificarsi con quelle immagini, modello espressivo d’assoluta preminenza, testimonianza solida d’una funzione artefatta e archetipica.

Il Marchese de Sade perso nell’infilata delle sale della Galleria degli Uffizi – in Toscana nell’estate-autunno 1775 – avrebbe riunito nei carnets del suo Voyage d’Italie, il ricordo delle antichità restaurate da Michelangelo a quello delle Veneri anatomiche acquisite dal granduca, marmo contro cera, dividendo il racconto tra il capitolo dedicato alla galleria e quello sui moeurs degli abitanti, senza trascurare Gli effetti della peste di Gaetano Giulio Zumbo:

[…] si vede un sepolcro pieno d’innumerevoli cadaveri nei quali è possibile osservare i diversi gradi della decomposizione, dal cadavere di un uomo appena morto a quello completamente divorato da vermi.

blank
Gaetano Giulio Zumbo, Gli effetti della peste, 1691-1695. Museo della Specola, Firenze.
Photo © Nicolò Orsi Battaglini/Bridgeman Images

Tale ribaltamento dell’immagine di Firenze, riscritta all’alba della modernità nella materia stessa dei suoi indici illustri, risuona con l’invito a un artista come Anish Kapoor, in città per la prima, grande mostra monografica, concepita tracciandone il cursus in opere più o meno recenti, dalle superfici immateriali di Newborn (2019) al rosso intenso, in assottigliamento perpetuo, dell’istallazione Svayambhu (2007), dai solidi di To Reflect an Intimate Part of the Red (1981) all’organico Tongue Memory (2016).
Da sempre infatti Kapoor sottolinea l’ambizione di cercare, attraverso il lavoro sul medium, «più di una mera presenza fisica» (nel rispetto della categoria del truly made o «fatto realmente», tratteggiata nel 1998 da Homi K. Bhabha «come l’incontro del materiale con il non-materiale»), il desiderio di tradurre, in «ogni oggetto concreto […] un pari non-oggetto, misterioso».

blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
blank
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Nella scarsezza di rimandi espliciti agli Old Masters del pantheon occidentale, è in questo senso significativo che il titolo imposto alla colossale realizzazione per la Turbine Hall della Tate Modern inaugurata nell’ottobre del 2002 nell’ambito della Unilever Series rappresenti invece un omaggio inequivocabile. Stando a quanto sottolineato da Thomas Zaunschirm, l’idea di chiamarla Marsyas (2002) fu suscitata in Kapoor dal ricordo della tela di Tiziano consacrata al supplizio del sileno, un capolavoro estremo conservato al Museo Arcivescovile di Kroměříž, che avrebbe fatto un passaggio a Londra per la mostra monografica aperta appena qualche mese dopo negli spazi della National Gallery. Un mito sanguinoso di “svuotamento”, di “scarnificazione”, quello centrato sul supplizio imposto da Apollo al suo concorrente in una gara musicale; ma anche il richiamo a un’assenza, a un negativo, al “non oggetto” costituito dalla pelle di Marsia, come allusa nella membrana in PVC usata da Kapoor per la sua scultura, gonfia di vuoto e d’ombra.

Non a caso, riferendosi al Rinascimento in una rara dichiarazione sul tema condivisa con Donna De Salvo nel 2002, Kapoor avrebbe affermato:

Come oggetto, cercavo di collegarlo alla storia dell’arte e a uno schema mitologico che mi interessa perché oscuro. […] lo trasforma in un corpo. Rovescia lo spazio, non solo quello dell’immaginazione, ma anche quello delle viscere.

È in questa convinzione che il percorso dell’artista avverte la creazione artistica come un passaggio verso «il non familiare – unheimlich – l’insoluto, qualcosa di restituito allo spazio psichico, allo spazio psicologico», laddove il concetto freudiano, quello del “perturbante”, suggerisce «uno spazio che è interiore», rendendo ogni opera un diaframma varcato dallo sguardo di chi le sta di fronte, in grado di ripensarsi attraverso di essa con inedita lucidità.

blank
Anish Kapoor, Marsyas, 2002, Tate Modern, London.
Photo John Riddy ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.

Architettura e illusione a Palazzo Strozzi

blank

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteDario Donetti, professore di Storia dell’Architettura all’Università degli Studi di Verona, esplora il rapporto tra Palazzo Strozzi, che accoglie l’esposizione, e l’arte di Kapoor.

L’architettura del Rinascimento, a partire dal suo avvio eroico nella Firenze del XV secolo, è nell’intendimento comune l’espressione di una sensibilità spaziale improntata a misura, armonia, organicità. Se vi è un’architettura che può confermarlo, che legittimamente si può riconoscere come un prodotto di quell’idealismo di forme e spazio, è proprio il palazzo progettato per Filippo Strozzi, sul finire del Quattrocento, da Giuliano da Sangallo. Allo stesso tempo, questa dimora monumentale, frutto di ambizioni sociali che sconvolsero il paesaggio urbano fiorentino, è il pretesto per un sottile esercizio di rappresentazione, svolto principalmente su una pelle architettonica felicemente disconnessa dai volumi che riveste. Perciò, per i significati spaziali di cui può caricarsi, diventa particolarmente evocativo il dialogo tra un edificio così radicato nell’immaginario dell’architettura rinascimentale e l’arte di Anish Kapoor, che a più riprese ha messo alla prova i limiti geometrici della scatola muraria, insistendo sulle ambiguità dei rapporti di scala, esplorando soglie e terreni liminali, penetrando il potenziale illusorio della membrana e del rivestimento.

blank
Palazzo Strozzi
Foto Ela Bialkowska OKNOstudio

Le bugne scollate fanno capire che già nelle intenzioni del suo architetto la facciata fa da supporto a una forma di pura rappresentazione: una superficie da disegnare, anch’essa, come la carta; una pelle ambigua che dissimula il costruito e lascia campo all’illusorio o, quantomeno, all’imitazione di un altro da sé. In questo caso, della naturalità dell’architettura lapidea.

Il senso che Anish Kapoor ha dell’architettura ci mostra, con particolare eloquenza, come la pelle posta a rivestire gli oggetti di grande scala – sia che essa consista di membrane plastiche, come Leviathan (2011) o di metalli più o meno politi, pensando a Cloud Gate (2004) o a Memory (2008) – ne possa mascherare l’effettiva consistenza in termini di massa, alterando sostanzialmente la percezione che il corpo ha dello spazio architettonico o della scala dell’intorno urbano. Ma non è forse così per buona parte dell’architettura del Rinascimento e, più in generale, per la stagione del classicismo?

blank
Anish Kapoor, Cloud Gate, 2004
© Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Anche nell’architettura del Rinascimento, di Sangallo e di Cronaca, e della stessa casa degli Strozzi, sopravvive un elemento in cui l’ornato coincide con la struttura, che disinnesca l’ambiguità della lingua degli ordini, o piuttosto la rivela, appunto, per via di contrasto. È la colonna, lemma centrale del discorso classicista: tanto più se monolitica, cioè matericamente destinata a essere supporto, in modo da affermare senza ambiguità la sua natura tettonica, che è il significato primario di questo segno condiviso.

Nel cortile del palazzo solidi cilindri di pietra si stagliano contro il vuoto per sostenere il pieno dei muri intonacati e, proprio perché isolati, esaltano le origini di una lingua che è ormai divenuta allusione. Danno, anche, la misura dell’edificio: diventano il metro per apprezzarne la scala, per indirizzare (o forzare?) la lettura che i sensi possono produrre dello spazio. Così, come la colonna senza fine, Endless Column (1992), che attraversa in tutta la sua altezza una delle sale angolari di Palazzo Strozzi, nel Rinascimento gli ordini mantengono la loro capacità di plasmare, sul piano della percezione, i rapporti dimensionali tra l’osservatore e l’edificio; di riconoscere nel corpo lo strumento per fare esperienza dei misteri della scala, come già dell’illusione carica di significati della sua architettura.

blank
Palazzo Strozzi, Cortile
Foto James O’Mara
blank
Anish Kapoor, Endless Column, 1992.
Palazzo Strozzi, 2023, foto Ela Bialkowska OKNOstudio
© Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.