L’Ironia Come Atteggiamento Proprio dell’Artista e Suscitato nello Spettatore

La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:

  • arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
  • opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
  • la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
  • l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.

Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità dalla proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.

 

di Marta Matassoni

Sintesi

All’inizio del Novecento i filosofi russi Sergej N. Bulgakov e Nikolaj Berdjaev guardarono con preoccupazione agli esiti di futurismo e cubismo, avvertendo nella loro volontà di rinnovamento una grave crisi dell’arte e dell’umanità intera. Qualche anno più tardi il filosofo spagnolo Ortega y Gasset individuò una possibilità di salvezza nel “destino ironico” dell’arte, che si sarebbe attuato pienamente nelle ricerche dell’italiano Piero Manzoni nel corso degli anni Sessanta. Fortemente debitore delle sperimentazioni duchampiane Manzoni si fece promotore di un’operazione dadaista concettuale d’impronta esplicitamente ironica, modificando radicalmente la natura dell’opera d’arte e instaurando un nuovo dialogo con lo spettatore.
Parole chiave: Ortega y Gasset, Piero Manzoni, ironia, Dada, arte concettuale

Il destino ironico dell’arte e il “fattore Duchamp”

Tra 1915 e 1918 i filosofi russi Sergej N. Bulgakov (1871-1944) e Nikolaj Berdjaev (1874-1948), poco dopo aver visitato la mostra di Picasso presso la galleria Ščukin di Mosca, rilevarono con grande sconcerto la presenza di una grave frattura nel rapporto fra arte e vita, “fra la creatività e l’essere” (Berdjaev, 2012: 41), anticipando una questione che sarebbe stata centrale anche nei decenni successivi e di cui tutt’oggi si discute1.
Qualche anno più tardi il filosofo spagnolo Ortega y Gasset (1883-1955) ne La disumanizzazione dell’arte (1925) tentava di analizzare quel cambiamento senza precedenti innescato all’interno del panorama artistico novecentesco dalle avanguardie storiche, che avrebbero condizionato in maniera irreversibile anche tutte le manifestazioni artistiche a venire, individuando una possibilità di salvezza proprio nel destino ironico dell’arte. Tra le diverse tendenze proprie di questa “arte nuova” il filosofo individuava, infatti, oltre all’inconfutabile presenza di una nuova sensibilità estetica, un’essenziale ironia di fondo (Ortega y Gasset, 2016: 17) e descriveva le nuove correnti artistiche come “un fenomeno d’indole equivoca […] perché equivoci sono tutti i grandi fatti di questi anni in corso” (2016: 44). Quel carattere serio e ieratico dell’arte del passato, che talvolta “pretendeva perfino di condurre a salvamento la sorte umana” (2016: 45), non sembrava più essere una componente propria dell’arte dell’ultimo secolo. Proprio questa ironia, notava Ortega, è ciò che sconcerta maggiormente la sensibilità delle persone serie, che si rifiutano di riconoscere nella farsa l’essenziale vocazione dell’arte2. Questa, infatti, in quanto rappresentazione, risulta necessariamente orientata alla ricerca della finzione, finalità che può scaturire soltanto da una “condizione di spirito gioviale” (2016: 45).
Ortega, del resto, non sarebbe stato il primo a evidenziare l’intento ironico dell’arte, dal momento che, come ricorda lui stesso, all’inizio del XIX secolo un gruppo di romantici tedeschi guidati dai fratelli Schlegel aveva dichiarato l’Ironia la più alta categoria estetica ed eletto il poeta moderno come l’ironista per eccellenza (Givone, 2011: 64). Quest’ultimo, infatti, dopo aver sottoposto a un’attenta critica i materiali della tradizione, li trasforma radicalmente, conducendo l’arte verso “l’indistinzione fra apparenza e verità, fra il serio e lo scherzoso” (2011: 65). Nel suo tentativo di creazione di un orizzonte irreale l’arte non si libera del suo concetto di verità, ma questa viene semplicemente trasferita in un altrove, “cui si risale non già perché sia possibile raggiungerla, ma perché il risalimento è compito fine a se stesso” (2011: 64).
Prima ancora che Ortega pubblicasse La disumanizzazione dell’arte, la riflessione sull’ironia in relazione alle diverse manifestazioni artistiche, venne affrontata anche da Luigi Pirandello, che ne individuò una certa somiglianza con il concetto di “umorismo” (Pirandello, 1994: 10), strumento essenziale per cogliere le più profonde contraddizioni della realtà, da lui teorizzato nell’omonimo saggio pubblicato nel 1908 (Ardizzola, 2014: 9). Pirandello descrive l’umorismo come “sentimento del contrario”, e cioè come un complesso stato d’animo che consente all’artista di vedere un aspetto della realtà, avvertendone al tempo stesso il suo contrario (Pirandello, 1994: 116). L’umorismo, che consiste dunque in un “fenomeno di sdoppiamento” (1994: 175), non esclude la comicità, ma questa ne rappresenta solo il momento iniziale per lasciare spazio a una riflessione più profonda.
L’analisi di Pirandello sull’umorismo, sebbene trovi maggiori affinità con la pittura espressionista più che con le successive manifestazioni artistiche, come non manca di sottolineare Paola Ardizzola (2014: 8), è comunque sintomatica dell’affermarsi della tendenza, rilevabile già nelle opere del belga James Ensor3 (Fig.1), a servirsi dell’ironia come strumento per aggredire la società del proprio tempo. Il fine era quello di rivelarne superstizioni, vizi e ipocrisie, esortando lo spettatore a modificare la sua idea di arte.

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Fig.1: James Ensor, Autoritratto con maschere, 1899, olio su tela, 117×80 cm, Aichi, Ménard Art Museum


Se i pittori espressionisti
credevano ancora nell’arte, al contrario, i dadaisti operarono un rovesciamento anche del tradizionale statuto di opera d’arte. La polemica contro la società aveva orientato molte delle opere espressioniste, ma i dadaisti assunsero una posizione ancor più radicale, opponendosi a tutto ciò che era espressione di quella società, comprese le sue manifestazioni artistiche (De Micheli, 2018: 156). Massimo protagonista dell’arte di Dada fu naturalmente Marcel Duchamp, che contravvenne a tutto quello che fino a quel momento era stato elemento portante e imprescindibile dell’opera d’arte e, attraverso una serie di operazioni fortemente connesse al caso e impregnate di ironia, propose come oggetti esteticamente rilevanti comunissimi prodotti pre-confezionati, seriali, anonimi (Barilli, 2005: 189).

Come evidenzia Maurizio Calvesi (2008: 323), fondamentale era la decontestualizzazione dell’oggetto prelevato e la sua conseguente destinazione a una funzione inaspettata e inconsueta, che generava nell’osservatore un effetto di spaesamento (Fig. 2).

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Fig. 2: Marcel Duchamp, Fountain, 1917, replica 1964, porcellana, 36x48x61, Londra Tate Modern

Il “fattore Duchamp”, come lo chiama Alessandro Del Puppo (2013: 40-41), fu indispensabile per l’affermarsi di un’arte che si sarebbe rifugiata sempre più nell’anestetico: Duchamp, attraverso le tecniche del comico e dell’ironia, dimostrò come, anziché rincorrere forme ingannevoli e illusorie, la realtà intera, nei suoi aspetti più concreti e banali, poteva essere riconosciuta come artistica. Tra lo spettatore e l’oggetto iniziò così a stabilirsi un nuovo e inconsueto rapporto, impostato sulla componente dell’ironia, essenziale nella logica duchampiana, ma anche in molte delle successive correnti artistiche.

Ironia e provocazione nell’opera di Piero Manzoni

Negli anni Sessanta del Novecento con le sue scatolette di Merda d’artista (Fig. 3) l’italiano Piero Manzoni (1933-1963), con un atto ancora più estremo rispetto agli scandali suscitati dalle opere duchampiane (Argan 1970: 656), si era fatto promotore di un’operazione dadaista concettuale d’impronta esplicitamente ironica. Secondo una paradossale messa in discussione dello statuto di opera d’arte, così come era avvenuto per Fountain (1917), l’artista aveva riempito novanta scatolette dei suoi escrementi, ciascuna dal contenuto netto di trenta grammi, tutte conservate al naturale e rigorosamente “made in Italy” (Celant, 2014: 143). In questa ironica operazione di inscatolamento Manzoni aveva trasformato la materia più bassa e umile che esiste, vendendola a peso d’oro e conferendole la dignità di opera d’arte. Qualora si volesse verificare l’effettivo contenuto della scatoletta, si finirebbe col distruggere irrimediabilmente l’opera, annullandone il valore (Criqui, 1992: 22).

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Fig. 3: Piero Manzoni, Merda d’artista n. 68, maggio 1961, scatoletta di latta, carta stampata, cm 4,8 x 6,4 Milano Fondazione Piero Manzoni. Foto Agostino Osio © Fondazione Piero Manzoni Milano by SIAE 2018

Rifacendosi alle pratiche di rovesciamento e spaesamento proprie dei ready-made, Manzoni invitava l’osservatore ad assumere una prospettiva differente; se nella frustrazione della visibilità dell’opera, chiusa nella scatoletta, vi è un’adesione a una ricerca di tipo mentalistico e di impronta concettuale, si nota parallelamente una decisa affermazione del valore supremo del corpo attraverso il coinvolgimento delle stesse funzioni vitali dell’artista, che si poneva in anticipo della Body Art (Barilli, 2005: 293).

In questa irriverente operazione si rileva, inoltre, una critica verso il feticismo e la brama di possesso di alcuni collezionisti d’arte (Celant, 2014: 143): ad essi l’artista, provocatoriamente, aveva dichiarato di voler offrire qualcosa di veramente intimo e personale come i suoi stessi escrementi (Dutton, 2008: 202).

Nell’ottica di Manzoni, al di là dell’atto dichiaratamente demistificatorio, il compito dell’artista doveva diventare anche quello di renderci vigili e consapevoli del nostro stesso esistere: non è più necessario articolare alcun messaggio, “c’è solo da essere, c’è solo da vivere” (Criqui, 1992: 24).

Nel luglio del 1960 in occasione della performance condivisa di Consumazione dell’arte (Fig. 4), Manzoni invitava il pubblico a cibarsi di un uovo sodo timbrato con la propria impronta digitale (Celant, 2014: 139); con questo atto, dal carattere fortemente simbolico e provocatorio, intendeva trasmettere la propria creatività e lucidità esistenziale allo spettatore-consumatore, coinvolgendolo attivamente e accentuandone la percezione sensoriale4.

Del medesimo anno sono i Corpi d’aria5 (Fig. 5), “sculture da viaggio” che lo spettatore poteva gonfiare personalmente o acquistare a un prezzo maggiore già gonfiate dall’artista, trasformandosi in tal caso in Fiato d’artista6(Barbero, Pola, 2018: 77).

Alla messa in discussione dello statuto di opera d’arte si accompagna, dunque, anche una divertita e sarcastica riflessione sulla mercificazione dell’arte e sulla volubilità con cui il mercato crea valore: l’artista immette sul mercato qualcosa da lui stesso prodotto, che va a confondersi come bene di consumo insieme a una miriade di altre offerte (Celant, 2014: 144).

Nell’opera di Manzoni, oltre all’esigenza di ridefinire il ruolo dell’artista nella contemporaneità e di fare dell’opera d’arte un dirompente strumento di provocazione, emerge anche un’evidente critica verso la società dei consumi di massa, al cui rassicurante orizzonte visivo avevano aderito pienamente gli artisti della pop art. D’altra parte, il periodo storico in cui Manzoni si trova a operare, corrisponde all’apogeo del neocapitalismo, nonché allo sviluppo delle moderne strategie di marketing e al considerevole aumento del numero di consumatori (Del Puppo, 2013: 43-44). Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta la città di Milano era stata totalmente investita da questo processo di modernizzazione e industrializzazione, che aveva prodotto significative trasformazioni a livello sociale, politico e culturale, con le quali l’arte non aveva potuto fare a meno di misurarsi e interagire (Barbero, Pola 2018: 66).

Manzoni non credeva più in un’arte che fosse rappresentazione mimetica della realtà o espressione dell’interiorità dell’artista ed era estremamente critico verso tutti quei pittori che intervenivano sulla tela con il loro corpo e la loro soggettività (Celant 2014: 132-133). Non potendo più esprimere se stesso attraverso la superficie della tela, come prova la sua serie di Achromes (Fig. 6), in cui la materia si mostra come puro significante, Manzoni era arrivato a far coincidere l’arte con il soggetto stesso, con le sue azioni, i suoi gesti e le tracce del suo esistere (2014: 23).

A Roma nel 1961, in un’operazione tra il serio e lo scherzoso, aveva iniziato a riconoscere le prime persone quali opere d’arte, certificandone lo status con la propria firma e rilasciando persino una ricevuta di autenticità7 (2014: 144-146). Si poteva diventare temporaneamente opera d’arte anche salendo sulla Base Magica, che poi si trasformerà nello Socle du Monde (Fig. 7), piedistallo rovesciato a sostegno dell’intero pianeta che, come un duchampiano ready-made, viene elevato ad opera d’arte insieme a tutti i suoi abitanti (Galimberti, 2012: 87).

Nell’opera di Manzoni, con i suoi molteplici livelli di lettura e la presenza di una forte componente ironica, sembra emergere proprio ciò che Ortega avvertiva nelle avanguardie storiche e che poi avrebbe contraddistinto molte delle correnti artistiche successive. Se da un lato l’esito dell’operazione umoristica di Manzoni, di chiara derivazione duchampiana, aveva determinato la dissoluzione dell’“aura”8 e della sacralità propria dell’opera d’arte come unicum, dall’altro veniva riaffermata con forza la centralità dell’artista e della sua opera.

Quella di Manzoni non era dunque una sterile provocazione, ma rientrava in una riflessione più profonda, volta a creare un nuovo rapporto con lo spettatore e a stabilire un più saldo nesso tra arte e vita. Pur nella sua brevità, l’esperienza di Piero Manzoni, con la sua straordinaria carica innovativa, si rivelerà fondamentale per comprendere molti dei percorsi intrapresi dagli artisti degli anni Sessanta (Serraller, 1992: 38).

L’ironia come strumento di critica

Il difficile rapporto tra arte e società, che aveva generato un’accesa polemica dopo la prima guerra mondiale, a seguito della seconda s’inasprì a tal punto che la “morte” dell’arte sembrava ormai imminente e ineluttabile (Argan, 1970: 605). Lo choc provocato dalla seconda guerra mondiale ebbe profonde conseguenze sulle ricerche artistiche e il volto dell’arte, sottoposto a una continua metamorfosi, non sarebbe più stato lo stesso (Celant 2014: 105). Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, in Europa e negli Stati Uniti, alcuni artisti, come Piero Manzoni, iniziarono a indagare sulla natura e il senso dell’arte, arrivando a mettere in discussione l’oggetto artistico in quanto tale, non più in grado di trasmettere verità assolute e, come osservava Argan (1970: 608), spesso vittima di un mercato che finiva con lo svilire l’opera, abbassata a una merce qualunque. La volontà di trasgressione e rinnovamento, che si fecero più accese soprattutto in seguito alle contestazioni politiche e alle tensioni sociali del Sessantotto, sarebbe proseguita ancora per tutti gli anni Settanta, arrivando a sottoporre a un’aspra critica persino le stesse istituzioni espositive, che divennero oggetto di un’impietosa parodia9 (Del Puppo, 2013: 98-99). Tuttavia all’interno di quella che nel 1947 Max Horkheimer e Theodor Adorno definirono come “industria culturale”, l’arte poteva ancora avere una funzione essenziale: rivoltandosi contro il suo essere stata ridotta a bene di consumo, l’arte diventa caricatura e negazione di se stessa, “non nel senso di scomparire, togliersi di mezzo, hegelianamente morire […], ma nel senso di tenere aperta la possibilità di uno sguardo controluce sul mondo e di dar voce, paradossalmente, magari ammutolendo, alla ‘vita offesa’” (Givone, 2011: 126). Proprio sfruttando le armi del paradosso e dell’ironia, alcuni artisti tentarono di suscitare un atteggiamento critico nello spettatore, spingendolo a interrogarsi sul proprio modo di percepire e fruire la realtà.

Incredibilmente furono proprio gli artisti a minacciare la “morte” dell’arte che, nella sua tradizionale concezione, era stata fin troppo strumentalizzata e banalizzata (Argan, 1970: 608), eppure l’arte, proprio come aveva profetizzato Ortega (2016: 45), “in questa attitudine di annientare se stessa, continua ad essere arte e, per una miracolosa dialettica, la sua negazione diventa la sua conservazione e il suo trionfo”.

 

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Note


1 La riflessione sulla “crisi dell’arte” è stata affrontata da Hans Sedlmayr in Perdita del Centro. Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca (1948) e più recentemente da alcuni critici come Jean Clair.
2 “Ma l’artista ci invita a contemplare un’arte che è uno scherzo […] Invece di ridersi di qualcuno o di qualcosa […] l’arte nuova mette in ridicolo se stessa. E non ci si deve allarmare a sentire queste proposizioni. Mai l’arte ha palesato meglio il suo magico dono come in questa burla di se stessa”. J. Ortega y Gasset , La disumanizzazione dell’arte, Milano, 2016, p. 45
3 James Ensor (1860-1949) dichiarò nei suoi Scritti di essere stato “conquistato dall’ironia”, di cui si servì per deformare la pittura tradizionale, senza ancora trasformarla del tutto. Cfr. M.A. Caws (ed.), Manifesto: a century of -isms, University of Nebraska Press, 2001, p. 263
4 “Anche Manzoni divora l’uovo. Alla ricerca di un’auto-fecondazione […] mangia il suo stesso corpo, l’uovo segnato dal suo pollice. La conseguenza, condivisa dal pubblico, è la consapevolezza di un’unione mistica con l’arte, un’elevazione del soggetto a opera” G. Celant, Su Piero Manzoni, Milano, 2014, p. 140
5 “I Corpi d’aria, quelle sculture pneumatiche che nascono grazie al soffio-pneuma dell’artista, ripropongono il divino insieme all’umano. Pneuma è l’atto di ispirazione divina per il quale si soffia l’anima dentro la materia, che si trasforma così in materia animata vitale” F. C. Seraller, “Dire, essere, vivere”, in G. Celant (a cura di) Piero Manzoni, Electa, Milano, 1992, p. 36
6 Con i Corpi d’aria e la serie dei Fiati vi era anche una ripresa letterale da Duchamp, che nel 1966 in una lunga intervista aveva affermato: “each second, each breath is a work which is inscribed nowhere, which is neither visual nor celebral. It’s a sort of constant euphoria” P. Cabanne, Dialogues with Marcel Duchamp, Cambridge (MA), 1979, p. 72
7 “Su ogni ricevuta e ogni matrice, Manzoni incolla un bollino di colore rosso o giallo, verde o viola. Ogni colore ha un significato specifico: il rosso indica che l’individuo è un’opera d’arte completa e tale rimane sino alla sua morte. Il colore giallo che è valida solo la parte firmata. Con il colore verde si pongono a una condizione e una limitazione al gesto o all’atteggiamento plastico del corpo, per cui si è arte solo in certe posizioni, ad esempio dormendo, parlando, camminando o correndo. Infine il viola ha gli stessi effetti del rosso, solo che è «a pagamento». Tra gli ammessi all’empireo dell’arte: Marcel Broodthaers, Umberto Eco, Emilio Villa e Henk Peeters” Celant, op. cit., 2014, pp. 145-146
8 Walter Benjamin (1892-1940) aveva elaborato il concetto di “aura” dell’opera d’arte nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936, in cui sosteneva che, a causa della sua riproduzione tecnica, l’opera finiva col perdere la sua unicità e il suo carattere auratico, aprendo a un’esperienza del tutto diversa.
9 Nel 1969 l’artista statunitense Robert Barry inviò 4000 biglietti d’invito per tre mostre, che si sarebbero tenute ad Amsterdam, Torino e Los Angeles, con le quali informava i destinatari che durante l’esibizione la galleria sarebbe rimasta chiusa. Ancora più ironico il belga Marcel Broodthaers che istituì nella sua casa studio di Bruxelles un museo personale di arte moderna che, nella sua grottesca organizzazione, doveva rappresentare una parodia delle istituzioni espositive e degli eventi di politica culturale. Sulla critica istituzionale cfr. A. Del Puppo, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento, Torino, 2013, pp. 96-99

“Un’Inattesa Fanciullezza”: l’Attico negli Anni di Pascali, 1966 – 1968

La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:

  • arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
  • opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
  • la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
  • l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.

Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità della proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.

 

di Emma Rossi

Sintesi

Gli ultimi due anni di vita di Pino Pascali sono profondamente segnati dal rapporto con Fabio Sargentini e con gli artisti che gravitano intorno alla sua galleria, L’Attico. Un aspetto significativo nelle opere di tale periodo è l’ironia, che egli utilizza in base ad una concezione per certi versi affine ma fondamentalmente opposta a quella dell’amico Jannis Kounellis.

Parole chiave: L’Attico, Fabio Sargentini, Pino Pascali, Jannis Kounellis, ironia.

Introduzione

Nel 1966 prende forma lo stretto sodalizio tra Pino Pascali e Fabio Sargentini. Pascali è un giovane artista eclettico, pugliese ma formatosi all’Accademia di Roma, conosciuto nel mondo della pubblicità per i suoi lavori grafici ed anche già noto ai critici per le sue prime mostre presso La Tartaruga di Plinio De Martiis e da Sperone, a Torino. Fabio è figlio del gallerista Bruno Sargentini, proprietario de L’Attico, sta cercando l’indipendenza e l’occasione gli si offre proprio nell’incontro con Pascali: la mostra Pino Pascali Nuove sculture, che inaugura il 29 novembre, è la prima che lui organizza in completa autonomia e segna l’inizio di una nuova stagione in cui L’Attico sarà al centro della scena artistica romana. Fino all’11 settembre del 1968, data della tragica morte dell’artista a causa di un incidente, le mostre proposte sono grandemente influenzate dalla poetica di Pascali. L’altro artista di punta della galleria è in quegli anni Jannis Kounellis, di origine greca, giunto anch’egli a Roma nel 1956 e noto per alcuni lavori esposti a La Tartaruga. I due lavorano, per e con Sargentini, su temi comuni e si influenzano a vicenda nella ricerca.

Ricorrono, nelle opere presentate a L’Attico nel biennio 1966-1968, la tematica del gioco e i riferimenti al mondo dell’infanzia. Si evidenzia da parte degli artisti un atteggiamento interpretabile su più piani: se entrambi compiono operazioni “ironiche” in senso corrente, cioè si prendono gioco di determinate convenzioni, ad un livello più profondo si può operare una distinzione tra Pascali, che esercita l’ironia nel suo senso etimologico di “finzione” 1 e Kounellis, che si pone lo scopo contrario, cioè quello di svelare, per frammenti, la realtà così com’è.

Il mare in una stanza

La mostra Pino Pascali Nuove Sculture del 1966 si articola in due fasi espositive. Nella prima vengono presentate Decapitazione delle giraffe, Decapitazione del rinoceronte, Il grande rettile, Decapitazione della scultura, Ricostruzione del dinosauro. Nella seconda Il mare, La scogliera, Barca che affonda, Due balene.

Entrambi i gruppi sono formati da opere di grandi dimensioni, che riplasmano lo spazio della galleria. Protagonisti sono gli animali ed alcuni elementi della natura: Pascali proietta il visitatore in un mondo infantile e primordiale, di creature primitive come il dinosauro o tuttora esistenti, riportate alla forma più semplice possibile. L’operazione presenta diversi aspetti ironici: la Decapitazione delle giraffe fa il verso ai trofei di caccia e si prende gioco della “borghesia assassina, che ai propri muri appende parti mutile di animali che furono vivi” (Barbero e Pola, 2010: 33), la Ricostruzione del dinosauro invece allude sarcasticamente agli allestimenti dei musei paleontologici. In Decapitazione della scultura l’ironia è a doppio taglio: “il gioco è, da una parte, dare una forma vivente alla scultura, come se essa possedesse un’animalità plastica fondamentale, dall’altra decapitare questa forma plastica e astratta come se si trattasse di un animale” (Tonelli, 2010: 73).  E poi Il mare (fig. 1), l’opera che più stupisce i visitatori: 24 pannelli di onde colpite in un punto da un fulmine nero dalla forma serpentina di warburghiana memoria, con le Due balene che emergono con la coda dalla parete, come sospese al di sopra dell’acqua. L’opera occupa completamente una sala della galleria, impedendo al visitatore di camminarvi ed innescando una relazione inedita con lo spazio espositivo: “Pascali mi ha suggerito con Il Mare un altro modello di spazio – dichiarerà in seguito Sargentini –  e da allora sono stato fissato con lo spazio da interpretare, non solo da parte degli artisti ma anche da parte mia” (Barbero e Pola, 2010: 195).

L’artista definisce queste sue opere “finte sculture” in quanto la tecnica non assomiglia a quella della scultura vera e propria: la struttura interna è costituita da un telaio in legno e il rivestimento è di tela. Afferma infatti: “io penso di non essere uno scultore, ho questa immagine verso me stesso: è una cosa che potrebbe essere anche grave, ma chissà se è grave, per me anche quello è divertente”. In occasione dell’esposizione della serie delle Armi alla Galleria Sperone di Torino Pascali aveva scritto al gallerista: “penso che il problema è di ripulire l’immagine da qualsiasi attributo e simbolo ricollocandolo nella sua presenza oggettuale”(Tonelli, 2010: 49). L’intento di presentare un’immagine in purezza, al suo stato primordiale, è presente anche nella prima mostra a L’Attico: se le Armi avevano a primo impatto un’apparenza di veridicità, nelle “finte sculture” la finzione è ancor più evidente; “è la finzione – dice in un’intervista – che determina automaticamente l’identificazione con una certa immagine, una certa parola sul vocabolario, cannone, scultura, Brancusi” (Lonzi, 2010: 271).

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Fig. 1: Pino Pascali, Il mare, 1966, Galleria L’Attico, tela centinata dipinta su struttura di legno


Il giardino – I giuochi

A partire dal mese di marzo del 1967 L’Attico ospita una mostra personale di Kounellis. Il titolo è Il giardino – I giuochi e le opere sono di varia natura. Rose di tessuto sono applicate alle pareti con bottoni automatici, alcune gabbie contengono uccelli vivi e un ambiente specchiante prevede la presenza dell’artista stesso seduto al centro di binari giocattolo sui quali transita un trenino. Il riferimento, dichiarato anche dal titolo, è al gioco, ma in un’accezione diversa da quella intesa da Pascali: Kounellis presenta sì alcuni elementi legati all’infanzia, ma li inserisce in una dimensione altra “nella quale l’oggetto e la materia – inerte o vitale – sono veicolo di simbologie e allusività primordiali, non futuribili” (Barbero e Pola, 2010: 45). La scelta di inserire degli animali vivi sarà stata forse anche discussa con l’amico Pascali, che in un’intervista spiegava: “È come la storia di prendere in mano un uccello che prima volava, un passero, una rondine…veramente, mi trovo a contatto con un essere che non fa parte dei calcoli, capisci, esisteva già e ha la mia stessa presenza, mia stessa carica di vita, mia stessa natura.” (Lonzi, 2010:15). In Kounellis manca, tuttavia, il distacco ironico pascaliano: l’animale non è il soggetto dell’opera ma è l’opera, gli uccelli invadono lo spazio della galleria con la loro presenza rumorosa, sfidando tutte le convenzioni del sistema dell’arte. Nelle opere dell’artista greco è presente una carica di contestazione sarcastica che le rende quasi aggressive nei confronti dell’osservatore. “I fiori erano quasi una cosa decorativa – dirà – con le gabbie volevo invece disegnare una cornice che con il passare del tempo sporcasse a terra. Così nel carbone c’è una cattiveria nel voler sporcare sotto, è lo stacco tra la struttura e la sensibilità vitale.” (Celant, 1983: 46).

A novembre dello stesso anno, Sargentini presenta una seconda mostra di Kounellis, nella quale vengono esposte le opere Cactus, Pappagallo, Acquario e Cotoniera. Ancora una volta lo spazio ospita creature viventi e a chi vorrebbe leggere le opere secondo criteri puramente estetici l’artista oppone la presenza fisica e reale dell’animale: “una cosa assurda come è legato il pensiero a certi ragionamenti proprio condizionanti, perché uno, così, non riesce a vedere nemmeno che lì c’è un pappagallo, che non è un accostamento di colori, perché il pappagallo è il pappagallo, no?” (Lonzi, 2010: 157). Nel catalogo viene pubblicata la trascrizione di un bizzarro dialogo tra alcuni bambini in visita alla mostra e il pappagallo, una conversazione senza regole e alla pari perché i bambini non sono ancora condizionati dalle convenzioni sociali. Infatti, come afferma Calvesi, “le but ultime de Kounellis semble être l’élaboration d’un espace où, en y entrant, l’homme ne se sentirait plus supérieur à la bête ni même au charbon, mais plutôt une partie intégrante d’un monde libre et sans hiérarchies” (Calvesi, 1969: 36).

Fuoco Immagine Acqua Terra

Pochi mesi dopo Sargentini organizza una mostra collettiva che riunisce molti giovani artisti, gran parte dei quali confluirà nel movimento dell’Arte Povera. Fuoco Immagine Acqua Terra, che inaugura l’8 giugno 1967, presenta i lavori di Bignardi, Schifano, Ceroli, Gilardi, Pistoletto, Kounellis e Pascali, riassumendo “diverse tipologie linguistiche ed operative attorno al dialogo tra la dimensione organica e primordiale degli elementi vitali e la propositività di una nuova immagine” (Barbero e Pola, 2010: 21). 

Gli elementi naturali sono in primo piano; c’è chi, come Gilardi, lavora ad una riproduzione della natura, e chi la rende parte dell’opera: Kounellis, nel suo Senza Titolo (fig. 2) fa emergere una vera e propria fiamma da un fiore metallico; “il più sottile degli elementi – commenta Boatto nel catalogo – esercita il suo aereo incantamento, celebra la liturgia del fuoco” (Barbero e Pola, 2010: 65). Le opere di Pascali rivelano nuovamente un atteggiamento ironico: le sue Pozzanghere e i Metri cubi di terra contengono da un lato la presenza della natura, degli elementi primari della terra e dell’acqua, dall’altro un equivoco: i metri cubi non sono realmente pieni di terra, hanno una struttura cava ed un rivestimento sottile di terra. “La terra ricopre il cubo di legno, è l’idea della terra ma non è terra” (Bonito Oliva, 2004: 63) commenta Kounellis, sottolineando quell’aspetto di simulazione che è proprio di Pascali e distante invece dalla sua visione. Kounellis non imita la natura, ma mira a svelarne alcuni frammenti, “il suo fuoco – afferma Calvesi – prima che un elemento visivo, è quasi un simbolo, un fulcro, un mitico ombelico di realtà”(Barbero e Pola, 2010: 58).

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Fig. 2: Jannis Kounellis, S. T., 1967, Galleria L’Attico, ferro, becco con collettore, tubo di gomma, bombola a gas. Foto Claudio Abate. Giovanni Kounellis by SIAE 2018.

Ricostruzioni della natura

Il 1968 è per Pascali l’anno del massimo successo: dopo aver realizzato varie mostre personali e collettive 2 torna da Sargentini per una nuova esposizione in due fasi e viene chiamato a presentare alcune opere alla Biennale di Venezia. A L’Attico espone Ricostruzioni della natura presentando inizialmente i Bachi da setola e altri lavori in corso e, in un secondo momento, opere come Liane, Ponte, Cesto, Cavalletto, Tela di Penelope.

I Bachi sono creature sovradimensionate formate da spazzole di plastica colorata e sono accompagnati da alcuni bozzoli, posizionati negli angoli che incrementano la leggibilità del gioco di parole. Rappresentano, secondo Fagiolo Dell’Arco, “il lavoro più eloquente e svagato e forse meno profondo, ma chiariscono al massimo il suo metodo: la metamorfosi, un detto-fatto tra immagine e forma” (D’Elia, 1983: 26), sono l’immagine di un’immagine mentale, la concretizzazione di un cortocircuito linguistico – magari pensato inizialmente come battuta 3 – che suscita ironia nell’osservatore. “I suoi giochi di parole – osserva l’amico Vittorio Brandi Rubiu – non sono mai calembours fini a se stessi, ma innescano una reazione a catena” (Brandi Rubiu, 2013: 8).

Il contrasto tra elementi naturali e materiali industriali emerge anche nella seconda fase della mostra: le opere rappresentano strumenti e manufatti primitivi, ma fingono la materialità della corda con pagliette di ferro. Le Liane, il Ponte, il Cavalletto sembrano ricostruire un tempo lontano, un’era preistorica ideale, in cui ancora non esisteva il concetto di arte. I giochi di parole si accavallano: la lana d’acciaio forma una liana, il ponte levatoio ha quasi la struttura di un lavatoio. La Tela di Penelope e l’Arco di Ulisse alludono al mondo della mitologia, presente nel suo immaginario 4, secondo un’evocazione che si serve sempre dell’ironia.

All’interno della mostra Pascali transita spesso, compiendo quasi delle performance involontarie mentre, vestito di rafia come un “selvaggio”, dialoga in dialetto con la sua scimmia Cita; le sue azioni sono state lette in chiave tribale e sciamanica (Stocchi, 2017) ma potrebbero forse essere viste come una modalità di vivere le opere e l’ambiente della galleria, Pascali era d’altronde “più vicino a questa realtà perché si era astratto da essa come pietrificazione storica per conquistarla come la propria realtà individuale, biologica, naturale… realizzazione della fantasia” (Kounellis, 1993: 36).

A partire dal mese di giugno alcune opere di Pascali sono presenti alla XXXIV Biennale di Venezia; si tratta di lavori legati alla cultura primitivista e alla sua passione per l’arte negra, alcuni dei quali già esposti da Sargentini: Pelo, Contropelo, Cesto, Stuoia, Le penne d’Esopo, Archetipo, Solitario e Liane, Vedova blu. I giochi di parole e i rimandi ironici sono sempre presenti nelle opere che formano “un’isola di fantasia in mezzo alla contestazione studentesca che chiedeva all’arte un impegno politico al quale Pascali rispose con libero gioco” (Lodolo, 2012: 181). La contestazione e le lotte non sono, secondo Pascali, cosa da artisti; a differenza di Kounellis si tiene a distanza dal dibattito politico, mantenendo intatto il candore delle sue opere.

L’Attico dopo Pascali

Pascali trascorre in vacanza l’estate del 1968, l’ultima della sua vita; il 29 agosto, appena tornato a Roma, ha un incidente motociclistico che lo porta alla morte pochi giorni dopo.

Fabio Sargentini, sconvolto dal dolore per la perdita dell’amico, continua tuttavia a cercare il nuovo spazio espositivo che stavano immaginando insieme. Nel gennaio del 1969 Kounellis è il primo a misurarsi con le stanze della nuova sede de L’Attico in via Beccaria che è, ironia della sorte, una sorta di garage al piano interrato. L’artista dipinge per Sargentini anche la saracinesca di entrata (fig. 3), che diventa allo stesso tempo porta ed insegna. La mostra di Kounellis si intitola 12 cavalli vivi e le opere esposte sono realmente dodici cavalli: egli porta all’estremo l’operazione già in nuce ne Il giardino – I giuochi e in Pappagallo, invadendo lo spazio espositivo con dei frammenti di realtà vera; il confine tra arte e vita è annullato. La carica contestataria è fortissima: “quando le strutture, come la galleria, invadono troppo il mio mondo, ne mostro la profondità e tiro l’arco in modo che per loro è impossibile entrare, se entrano ci lasciano la pelle” dichiara Kounellis (Celant, 1983: 62). I cavalli con la loro presenza reale sconvolgono lo spazio neutrale della galleria, annientano la possibilità di una visione estetica e di una interpretazione. Il punto di arrivo di Kounellis è radicale e la sua posizione rispetto all’ironia è diametralmente opposta a quella di Pascali. Pascali aveva mantenuto l’atteggiamento del bambino “che copia il padre e si mette la pistola, perché il padre porta la pistola, e si mette la divisa, perché il padre porta la divisa” ma nel gioco del copiare crea una simulazione, una finzione diversa dalla realtà: “il bambino si mette una mazza al posto della pistola e si mette una giacca di carta oppure un cappello di cartone”. La sua operazione artistica aveva sempre mantenuto il carattere di finzione: “Copiare il padre, in fondo, potrebbe essere delle volte come, per me, fare dei cavalli. Io copio un cavallo: siccome non posso mettergli la pelle lucida col sudore, con le mosche che girano e con la rotondità dei muscoli che si muovono continuamente, io col materiale più semplice da usare per me metto la tela su delle costole di legno” (Lonzi, 2010: 266-267).

Pochi mesi prima sia Kounellis che Pascali avevano partecipato, insieme a Sargentini e all’artista Eliseo Mattiaci, alle riprese di SKMP2 di Luca Patella. Pascali aveva scelto di muoversi vicino e dentro il mare – l’elemento da cui proveniva e che tanto aveva caratterizzato i suoi lavori – e nell’ultima sua scena di baciare la testa di una scultura classica (elemento che comparirà anche in tante opere di Kounellis). Il bacio tra l’artista e la statua in mezzo al mare è stato visto poi, a causa delle tristi circostanze, come un addio alla Scultura, nella consueta modalità di “dissacrazione non ideologica”, “gioco”, “libertà incondizionata e priva di obiettivi utopistici” (Tonelli, 2010: 27), segno di una fiducia nell’arte che salva l’uomo “dalla serietà della vita” e suscita in lui “un’inattesa fanciullezza” (Ortega y Gasset, 1998: 89).

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Fig. 3: Jannis Kounellis, Saracinesca del garage della Galleria L’Attico, via C. Beccaria 22, Roma, 1968, acciaio dipinto a olio. Foto Sario Manicone Roma, Giovanni Kounellis, by SIAE 2018.

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Note


1 Si fa riferimento al significato originale del termine, derivante dal greco εἰρωνεία.


2 Tra le tante mostre collettive, italiane e internazionali, alle quali Pascali partecipa tra 1967 e 1968 si ricordano Arte povera – Im spazio curata da Germano Celant alla Galleria La Bertesca di Genova, e Lo spazio dell’immagine che si tiene a Palazzo Trinci a Foligno. Le maggiori esposizioni personali si tengono nel 1967 alla Galerie Thelen di Essen, alla Galerie Ars Intermedia di Colonia, da Iolas sia a Milano che a Parigi (Stocchi, 2017: 111-133).


3 Molti amici di Pascali ricordano le sue battute ed i suoi ricorrenti scherzi (Lodolo, 2012).


4 Pascali, in gioventù, aveva frequentato il liceo classico a Bari (Lodolo, 2012: 18-19).

 

La Bandiera Nazionale come Strumento di Lettura del Mondo

La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:

  • arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
  • opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
  • la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
  • l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.

Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità della proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.

 

di Anna De Bernardis

Sintesi 

In tre opere di Giulio Paolini, Alighiero Boetti e Ivan Grubanov, i primi due – coetanei – attivi dagli anni Sessanta, e il secondo dai primi anni Duemila, la bandiera nazionale è trasformata da simbolo di uno Stato a vocabolo di un linguaggio artistico. Il significato simbolico e ideologico di partenza è sostituito da altro, nel tentativo di rappresentare lo scorrere del tempo, mutamenti politici in atto o già avvenuti, di rendere la precarietà di un simbolo.

Parole chiave: bandiera, linguaggio, nazione

Introduzione

“Si è spesso notato che lo Stato comincia (o ricomincia) con due atti fondamentali, uno detto di territorialità per fissazione di residenza, l’altro detto di liberazione per abolizione dei piccoli debiti” (Deleuze-Guattari, 1975: 221), un terzo atto, verrebbe da dire, è la creazione del suo emblema, la bandiera. “Simbolo di una nazione”, di un gruppo di persone che condividono storia, cultura, lingua, ovvero un’identità nazionale entro un territorio politico, la bandiera nazionale – nella sua materialità o nel sostrato di contenuti che racchiude –  diventa vocabolo artistico nell’opera di Giulio Paolini, Alighiero Boetti e Ivan Grubanov. L’attività dei primi due, coetanei, inizia negli anni Sessanta, mentre il terzo esordisce nei primi anni Duemila.

Interessa qui analizzare tre opere accomunate dall’utilizzo di questo vocabolo artistico: Averroè (fig. 1) di Giulio Paolini (Genova 1940), Mappa (fig. 2) di Alighiero Boetti (Torino 1940 – Roma 1994) e United Dead Nations (fig. 3) di Ivan Grubanov (Belgrado 1976). Vi sono elementi di contatto? Quale significato assume, nei tre casi, questo simbolo e da quali esigenze deriva il suo utilizzo in un’opera artistica? Le tre opere sono analizzabili sulla base di un collegamento diretto col contesto storico, politico e culturale? In quale misura è possibile definirle politiche?

Paolini e Boetti: gli anni Sessanta

L’incontro fra Paolini e Boetti avviene nell’ambito della prima mostra di Arte Povera nel ’67, ma sarebbe riduttivo ascrivere la loro opera esclusivamente a questa esperienza. L’affermazione di Celant, curatore della mostra, che “il rapporto tra la rivolta degli anni Sessanta e questa ricerca è innegabile” (Celant 2012) non è completamente descrittiva di due opere come Averroè e le Mappe che, come vedremo, presentano un contenuto politico piuttosto latente ed un legame non diretto con la “rivolta” cui il critico fa riferimento.

Una questione di linguaggio

All’inizio degli anni ’60 Paolini, torinese, entra in contatto con l’ambiente delle gallerie milanesi e l’opera di Fontana e Manzoni 1, e romane, contesto d’indagine sull’iconizzazione della lettera e della scrittura, sviluppata, con differenti modalità, fra gli altri, da Kounellis e Schifano. Riflessione sul linguaggio interno all’opera d’arte, interesse per la linguistica strutturale, messa in discussione del codice artistico stesso e dei suoi strumenti, sono alcune delle cifre principali della produzione successiva di Paolini, che Menna colloca a cavallo fra le due linee analitiche dell’arte moderna, quella iconica e quella aniconica, ovvero delle immagini e delle figure (Menna, 1975: 64 2). Le sue sono “non opere finite, ma discorsi aperti sul linguaggio” (Quintavalle, 1976: 51).

La bandiera impossibile

Una lettura di Averroè 3 (1967) – opera in cui tutte le bandiere nazionali concorrono alla creazione di un totale di quindici bandiere, appese ad un’unica asta – come un “flags meltin’ pot” sarebbe, probabilmente, limitativa. L’elemento della mescolanza, in riferimento alla globalizzazione, già in atto in questi anni, è innegabilmente presente, ma occorre indagare più a fondo le intenzioni dell’artista.

“Le bandiere che ho scelto […] non sono ‘quelle’ bandiere, semplicemente sono più di una bandiera […] sono quelle quindici o altre quindici, o addirittura tutte le bandiere tranne quelle quindici. La scelta del numero e del tipo di bandiere non ha nessun carattere di leggibilità, ma solo un carattere numerico (Paolini in Lonzi, 1969: 305)”.

Il simbolo – la bandiera – perdendo leggibilità, subisce una sospensione della corrispondenza fra idea e immagine assoluta, non significa alcuna identità nazionale; le quindici bandiere “non valgono di per sé” (Lonzi, 1969: 305), sono una “bandiera impossibile” (Disch). L’intenzione di Paolini è dichiarare la precarietà della bandiera e del simbolo che porta con sé, la transitorietà della sua identità 4, la pesantezza di un vessillo carico di storia 5 e sempre in attesa 6.

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Fig. 1. Giulio Paolini, Averroè, 1967, Torino, Fondazione Giulio e Anna Paolini. Foto Paolo Pellion di Persano © Giulio Paolini. Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino

Non è infrequente l’utilizzo, da parte dell’artista, di un linguaggio precostituito, considerato che, come lui stesso afferma, “È inutile e vano inventare qualcosa di proprio se possiamo scoprirlo nel passato” (Celant, 1972 in Menna, 1975:64). Naturalmente l’artista non si limita alla ripresa pedissequa del “passato”, ma trova nei segni di altri artisti i segni elementari – che Menna chiama “figure” – costitutivi del suo linguaggio (Menna, 1975:64). Averroè, nelle parole attribuitegli da Borges, dirà che “un grande poeta è meno inventore che scopritore” (Salerno, 1975: 96) 7.

In questo caso, potremmo sostenere, si serve della bandiera come vocabolo – che è simbolo al contempo – di un linguaggio preesistente, un “codice” che subisce una privazione del contenuto, anche ideologico, originario. Paolini scompone un sistema di rappresentazione della realtà, per creare un nuovo codice di lettura.

Nella sua opera la relazione fra immagine e parola (il titolo, che ha per lui un significato metalinguistico) è, spesso, contraddittoria, a suggerire una messa in discussione del “valore assertivo del quadro-rappresentazione” (Menna, 1975: 64) e il legame fra immagine e oggetto. Il titolo, Averroè, si riferisce al filosofo spagnolo di cultura islamica del XII secolo, “commentatore” di Aristotele e assertore della dottrina della doppia verità 8, il quale propose e sostenne la teoria della separazione dell’anima dall’intelletto cosiddetto potenziale impersonale – immortale poichè condiviso da ogni essere umano – e dall’intelletto universale – immortale per sua stessa natura. È riscontrabile una corrispondenza fra l’idea e l’immagine assoluta di cui parla Paolini e il concetto di intelletto potenziale e intelletto universale che ritroviamo nella filosofia di Averroè?

Il sensibile, secondo il pensiero di Averroè, è intelligibile in quanto reso tale da un’intelligenza da cui esso stesso “procede” (Vigorelli, 1992: 666): l’atto di conoscenza è, quindi, possibile solo in quanto predisposto, e l’uomo non ha capacità di comprensione propria ed indipendente, non è in grado di passare da intelletto potenziale ad intelletto agente. Forse Paolini identifica l’Artista con l’intelligenza che consente l’atto conoscitivo? Sarebbe scorretto dire che l’esistenza ab aeterno della materia e del mondo e, quindi, dell’intelletto universale – sostenuta dal filosofo – presenta punti di contatto con l’idea di immagine assoluta di Paolini?

Le ragioni di una serie

Diretto precedente delle Mappe è il Planisfero politico (1969), la stampa cartografica di un planisfero in cui i territori politici sono identificati dalle relative bandiere nazionali. Sbarazzatosi “di quel rigore eccessivo che voleva che, di un’unica idea, producessi soltanto un lavoro” (Boetti, 1992) e comprese le possibilità offerte da quell’unica idea 9, l’artista riflette sulle potenzialità di una serie, scegliendo come luogo di produzione un contesto estraneo all’arte contemporanea occidentale, ovvero Kabul dove, dal 1971 10, affida l’esecuzione delle Mappe ad alcune ricamatrici afghane – atto di delega che ricorda il Concettuale, anche se in questo caso prevale l’aspetto artigianale, con le imperfezioni che ne derivano.

La serie è un elenco – concetto su cui Boetti tornerà anche in opere successive 11 – che rende la dimensione del tempo, sia in rapporto ai lunghi tempi di produzione richiesti dal ricamo, sia per la rappresentazione “pittorica” di mutamenti politici e geografici (e, quindi, cartografici) che coinvolgono i cinque continenti. Ed è un’opera aperta, un discorso sull’esistenza, sul divenire del mondo, per la comprensione del quale ci si affida a sistemi di rappresentazione convenzionali, a priori, – definiti da Angela Vettese “un elenco di verità [inevitabilmente] transitorie” (Vettese, 2004: 93) – che Boetti sovrappone: la mappa, appunto, e la bandiera. Ad un terzo livello di comunicazione Boetti colloca la scrittura, sia occidentale che della lingua farsi 12: le cornici delle Mappe sono sempre ricamate con frasi di cui non sono dichiarati capolettera e senso di lettura, a suggerire la funzione meramente decorativa che la scrittura può assumere, che decade nel momento in cui si trova la “chiave di lettura”. 

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Fig. 2. Alighiero Boetti, Mappa, 1971-1973, Agata Boetti. Paolo Pellion di Persano, Alighiero Boetti by SIAE 2018

Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente nel senso che: il mondo è fatto come è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente; quando emerge l’idea di base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere” (Boetti, 1974: 202)

Le parole di Boetti sembrano rimandare a quelle attribuite da Borges ad Averroè: “Un grande poeta è meno inventore che scopritore” (Salerno, 1975: 96).

La Mappa (1971-73) di Boetti, e Averroè possono essere accostate per l’utilizzo di un linguaggio prestabilito: l’immagine della bandiera è preesistente, indipendente dalla volontà dell’artista, ne conosciamo le regole linguistiche fissate in codici di lettura. Ma se Paolini in un certo senso smantella questo linguaggio, Boetti ne utilizza le potenzialità a differenti livelli. 

Bandiere come maschere funebri

United Dead Nations 13 – che potremmo rendere con l’espressione Nazioni Unite Morte  proposta da Ivan Grubanov per il padiglione serbo alla Biennale d’Arte di Venezia del 2015, presenta elementi di forte contrasto rispetto alle due opere viste finora, dovuti in parte al mutato contesto storico e politico, oltre che artistico, in cui l’artista serbo lavora, in parte alla sua nazionalità. Egli stesso afferma “I am a visual artist on the boundary of two centuries. I want to take all the responsability implicit in this position 15” (Gray, 2006: 58).

Grubanov rintraccia nell’organizzazione della Biennale – contenitore di United Artistic Nations – per padiglioni nazionali 16 un riflesso del forte legame fra arte e politica: la storia dei padiglioni, infatti, si intreccia a quella degli stati nazionali; così, ad esempio, il padiglione jugoslavo fu convertito in padiglione della Serbia.

In certo modo come in Boetti, è presente la dimensione del tempo, ma in questa analisi emergono aspetti che potremmo definire più strettamente storici e politici. Le nazioni – secondo una visione organica – nascono e muoiono, e questo processo dal 1895 – anno di fondazione della Biennale – al 2015 ha interessato dieci stati 17, e quindi dieci bandiere, private del loro contenuto simbolico originario, ridotte a simboli “morti”, tragicamente vuoti, l’influenza dei quali non è, però, nel contesto post-globale, scomparsa: immerse in un composto di vernici chimiche, le bandiere lasciano traccia di sé 18 – come già nella dimensione della storia – su delle tele posizionate sul pavimento del padiglione e sul pavimento stesso.

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Fig. 3 Ivan Grubanov, United Dead Nations, 2015, Padiglione Serbo alla 56. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia

Grubanov le utilizza come “matrici” mai uguali, informi pennelli ormai divenuti storia, ai quali nel presente è concesso solo lasciare un alone, una traccia sbiadita di ciò che furono. Ognuna delle tele19 – indissolubilmente legata alle bandiere di cui porta i segni – “not merely project an image [but] replaces the biopolitical influence of a flag with the biopolitical potency of a painting” (sito ufficiale dell’artista). La pittura ha, quindi, una “forza biopolitica” nell’affermazione di sé contro la politica. Quale significato può avere oggi, quando

tutti i paesi fanno parte dello stesso sistema [di organizzazioni transnazionali e sovranazionali] e sono sottoposti alle stesse pressioni […] che stanno soffocando e piegando la politica nazionale di tutto il mondo. E nonostante la disperata ostentazione delle bandiere nazionali, l’effetto di queste pressioni è l’esatto contrario della presunta ‘rinascita dello stato nazione’ (Dasgupta, 2018)

il termine nazione – che “sta invecchiando più in fretta degli imperi di cui ha preso il posto” (Dasgupta, 2018)?

Conclusioni

Alla presenza della bandiera nelle tre opere corrisponde l’intenzione di trasmettere il senso del legame con la visione del mondo di ciascun artista. Lo stesso non si può affermare per la veicolazione di un contenuto politico, come abbiamo visto non sempre evidente e in taluni casi quasi assente, ridotto ad un’allusione. Non stupisce che l’arte tenti di eludere le pressioni di un contesto storico – che non può che essere – fortemente politico allontanandosi dal presente, talvolta con ironia. Così come non meraviglia la distanza che Paolini e Boetti, due artisti poco più che ventenni nel ’68, pongono fra la loro opera e la politica: Boetti scriverà “non ho vissuto situazioni socio-culturali, né politiche. Me ne interessavo a livello cittadino, non da artista” (Bandini, 1972:178). L’arte di Grubanov, artista di altra generazione e altra nazionalità è, invece, come abbiamo visto, fortemente immersa nella dimensione politica.

La bandiera – “materia prima” nel caso di Paolini e Grubanov, riprodotta col ricamo in Boetti – è sempre “segnale precario”: per Paolini la precarietà è insita nella mancanza di reciprocità fra idea ed immagine assoluta; per Boetti e Grubanov si dichiara nei mutamenti politici21. Se in Paolini prevale l’attesa, in Boetti assume rilevanza il tempo, che in Grubanov diventa tempo passato, ma che non smette di esercitare il proprio influsso sul presente. Forse le Mappe non sono mai state “attuali”: mentre le ricamatrici intessevano i fili, quei cambiamenti politici – con quelli economici, sociali, culturali che comportano – e geografici che affascinavano tanto Boetti, erano costantemente in atto. Grubanov convalida una condizione passata, le sue bandiere sono corpi morti, immobili, inermi, eliminati nella storia, ma ricordati dalla storia stessa. Elenco non finito – come le Mappe? – di simboli di imperi e nazioni ormai inesistenti, che hanno date di nascita e di morte22.

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Note

 

1 Come lui, Paolini opera per riduzione in una tensione all’eliminazione del “contenuto”, e rifiuta gli elementi costitutivi del quadro (Quintavalle, 1976: 40)

2 Infatti, come sostiene Quintavalle, dal punto di vista formale è difficile trovare un parallelo coevo (Quintavalle, 1976: 39)

3 Esposta per la prima volta nel ’68 alla mostra “Arte Povera” alla Galleria de’ Foscherari a Bologna, curata da Germano Celant

4 Paolini intende anche dichiarare, come già detto, la transitorietà dell’identità fra idea e immagine assoluta

5 Motivo per cui l’opera non si libra in aria

6 L’allestimento dell’opera – poggiata a terra contro la parete, in verticale, oppure su una base trasparente – veicola un senso di attesa

7 Averroè si riferisce al fatto che il Corano contiene in sé l’intera poesia umana

8 Secondo la quale: la ragione suggeriva ad Averroè (1126-1198) che l’intelletto (potenziale) fosse uno, mentre la fede lo spingeva a credere il contrario.

9 Boetti fu spronato anche gallerista Gian Enzo Sperone

10 Anno del suo primo viaggio in Afghanistan. Nel ’72 acquista un hotel proprio a Kabul, rinominato One Hotel

11 Ad esempio ne I mille fiumi più lunghi del mondo (1977)

12 Ossia la lingua parlata in Afghanistan, anche detta dari

13 Vi è anche un riferimento alle Nazioni Unite (United Nations)

14 Curato da Lidija Merenik

15 “Sono un visual artist vivente a cavallo tra due secoli. Intendo prendermi la responsabilità insita in questa posizione”

16 A partire dal 1907

  17 Impero Austro-Ungarico (1867-1918), Impero Ottomano (1299-1922), Gran Colombia (1819-1930), Tibet (1913-1951), Repubblica Araba Unita (1958-1971), Vietnam del Sud (1955-1975), Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990), URSS (1922-1991), Cecoslovacchia (1918-1992) e Jugoslavia (1918-2003)

18 Come “maschere funebri”

19 Che dopo l’intervento Grubanov rimuove, lasciando nel padiglione solo le bandiere disposte a mucchi

20 Ossia “non si limitano a proiettare un’immagine [ma] […] sostituiscono all’influenza biopolitica di una bandiera, la forza biopolitica di un dipinto” (dal sito ufficiale dell’artista)

21 E geografici, nel caso di Boetti

22 Che figurano sulle pareti del padiglione

 

Il Fuorimostra di Nascita di una Nazione

Dal 16 marzo al 22 luglio 2018 Palazzo Strozzi ospita la mostra Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano: uno straordinario viaggio attraverso ottanta opere di artisti come Renato Guttuso, Lucio Fontana, Alberto Burri, Emilio Vedova, Enrico Castellani, Piero Manzoni, Mario Schifano, Mario Merz e Michelangelo Pistoletto.
L’esposizione, a cura di Luca Massimo Barbero, vede per la prima volta riunite assieme opere emblematiche del fermento culturale italiano del secondo dopoguerra, gli anni del cosiddetto “miracolo economico”, momento di trasformazione profonda della società italiana fino alla fatidica data del 1968.
È in questo ventennio che prende forma una nuova idea di arte, proiettata nella contemporaneità attraverso una straordinaria vitalità di linguaggi, materie e forme. Un itinerario artistico, quello della mostra, che parte dalla diatriba tra Realismo e Astrazione, prosegue con il trionfo dell’Arte Informale per arrivare alle sperimentazioni su immagini, gesti e figure dell’Arte Pop in giustapposizione con le esperienze della pittura monocroma fino ai nuovi linguaggi dell’Arte Povera e dell’Arte Concettuale.  width=Vedute della mostra Nascita di una Nazione a Palazzo Strozzi. Foto Alessandro Moggi.

Al fine di esaltare la fondamentale rete di collaborazioni con musei e istituzioni del territorio, Palazzo Strozzi propone il Fuorimostra di Nascita di una Nazione: un ampio itinerario tra luoghi di Firenze e della Toscana che si pone l’obiettivo di valorizzare mete e beni della regione.

 width=L’Accademia della Crusca a Firenze

La mostra a Palazzo Strozzi trova così una ideale prosecuzione in diversi luoghi di Firenze e della Toscana, in musei e istituzioni fiorentini quali l’Accademia della Crusca, l’Archivio Storico del Comune, la Biblioteca Nazionale Centrale, la Collezione Roberto Casamonti, la Fondazione Teatro della Toscana, il Gabinetto G.P. Vieusseux, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, il Museo Salvatore Ferragamo, il Museo Marino Marini, il Museo Novecento e la sede regionale della RAI a Firenze ma anche con le città di Carrara, Empoli, Fiesole, Lucca, Pieve Santo Stefano (AR), Pistoia, Pontedera e Prato, permettendo la creazione di specifiche collaborazioni culturali con l’obiettivo di valorizzare luoghi quali ad esempio il Museo Piaggio, il Piccolo Museo del Diario, Palazzo Fabroni e il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci.

 width=Il Piccolo Museo del Diario a Pieve Santo Stefano (AR)

 width=Il Museo Piaggio a Pontedera

Il Fuorimostra di Nascita di una Nazione (sempre scaricabile e gratuito) vi condurrà in un itinerario completo di luoghi e eventi con cui scoprire e approfondire l’arte di questo periodo.

Scarica il Fuorimostra

Cinque motivi per visitare Nascita di una Nazione

La mostra Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano a Palazzo Strozzi dal 16 marzo al 22 luglio 2018 è un avvenimento imperdibile nell’anno che celebra il 50esimo anniversario del Sessantotto.
Uno straordinario viaggio tra arte, politica e società nell’Italia dal fermento culturale italiano del secondo dopoguerra, gli anni del cosiddetto “miracolo economico”, momento di trasformazione profonda della società italiana, fino al periodo della contestazione del Sessantotto attraverso ottanta opere di artisti come Renato Guttuso, Lucio Fontana, Alberto Burri, Emilio Vedova, Enrico Castellani, Piero Manzoni, Mario Schifano, Mario Merz e Michelangelo Pistoletto.

Abbiamo chiesto al curatore Luca Massimo Barbero le ragioni che la rendono la mostra unica nel panorama italiano e internazionale.

1. La vitalità dell’informe
Le opere dei grandi maestri degli anni ’50 esposte in mostra sottolineano la loro intensa ricerca sulla materia. I lavori di artisti come Burri, Fontana, Vedova hanno traghettato la materia nei decenni successivi rendendola protagonista delle sperimentazioni successive.

 width=Veduta della mostra con l’opera di Lucio Fontana Concetto spaziale, New York 10 in primo piano, sullo sfondo Scontro di situazioni ’59-II-1 di Emilio Vedova e Geremia di Mirko.
Foto Alessandro Moggi.

 

2. La libertà del monocromo: un nuovo spazio bianco
Il visitatore potrà esplorare quell’idea di opera nuova cara agli artisti degli anni ’60, i quali riscrivono la forma dell’opera d’arte come su un foglio vergine. Allo stesso tempo, questo foglio bianco è anche un nuovo schermo pieno di luce e il monocromo diventa un nuovo inizio.

 width=Veduta della sala della mostra Monocromo come libertà. Foto Alessandro Moggi.

 

3. La nascita della nuova immagine
Nelle opere di artisti come Giosetta Fioroni e Domenico Gnoli, l’abbandono del realismo tradizionale per far apparire nuove figure che sono allo stesso tempo memoria storica, idoli della contemporaneità e personaggi sognati.

 width=Giosetta Fioroni, La modella inglese, 1969, Collezione privata, Courtesy Galleria Mucciaccia. Foto Schiavinotto Roma.

 

4. Unisce politica, esistenzialismo e divertimento
Per artisti come Franco Angeli e Mario Schifano l’opera d’arte diventa un gigantesco tazebao dove l’archeologia del passato si trasforma in una sorta di cartone del presente. Qui i giovani mettono insieme l’esistenzialismo e la nuova musica, creando un corto circuito straordinario e ironico, tutto italiano, fatto di paradossi e contrasti e che potremmo definire “tra il Piper e il partito”.

 width=Veduta della sala della mostra Cronaca e politica. Foto Alessandro Moggi.

 

5. Nuove geografie del pensiero
L’uomo e l’artista diventano una macchina pensante, impegnata, che porta nell’arte contemporanea dei nuovi gesti e dei nuovi pensieri. La materia del decennio precedente, brulicante di esistenzialismo, ora diventa punto di partenza per nuove meditazioni e nuovi orizzonti. L’Italia è laboratorio di un’arte concettuale dirompete e… povera. In mostra lavori emblematici come quelli di Luciano Fabro, Mario Merz, Giuseppe Penone e Michelangelo Pistoletto.

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Rovesciare i propri occhi_1970_EC004

Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970, Collezione privata. Paolo Mussat Sartor @ Archivio Penone, Giuseppe Penone, by SIAE 2018

 

La mostra Nascita di una Nazione è aperta tutti i giorni inclusi i festivi dalle ore 10.00 alle ore 20.00 (ultimo ingresso alle 19.00).
Ogni giovedì dalle ore 10.00 alle ore 23.00 (ultimo ingresso alle 22.00).

Un anno di mostre: il 2018 di Palazzo Strozzi

Dopo il grande successo della mostra Il Cinquecento a Firenze, conclusa il 21 gennaio con il grande successo di oltre 150.000 visitatori, il 2018 di Palazzo Strozzi continua. Ecco le mostre prenderanno vita nei prossimi mesi dell’anno.

 

NASCITA DI UNA NAZIONE. TRA GUTTUSO, FONTANA E SCHIFANO
Dal 16 marzo al 22 luglio 2018

 width=Uno straordinario viaggio tra arte, politica e società nell’Italia tra gli anni Cinquanta e il periodo della contestazione del Sessantotto attraverso ottanta opere di artisti come Renato Guttuso, Lucio Fontana, Alberto Burri, Emilio Vedova, Enrico Castellani, Piero Manzoni, Mario Schifano, Mario Merz e Michelangelo Pistoletto.

L’esposizione, a cura di Luca Massimo Barbero, vede per la prima volta riunite assieme opere emblematiche del fermento culturale italiano tra gli anni Cinquanta e la fine degli Sessanta. È in questo ventennio che prende forma una nuova idea di arte, proiettata nella contemporaneità attraverso una straordinaria vitalità di linguaggi, materie e forme. Un itinerario artistico, quello della mostra, che parte dalla diatriba tra Realismo e Astrazione, prosegue con il trionfo dell’Arte Informale per arrivare alle sperimentazioni dell’Arte Pop in giustapposizione con le esperienze della pittura monocroma fino ai nuovi linguaggi dell’Arte Povera e dell’Arte Concettuale.

 

THE FLORENCE EXPERIMENT
Dal 19 aprile al 26 agosto 2018

 width=Il nuovo progetto site specific del celebre artista tedesco Carsten Höller e del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, a cura di Arturo Galansino, direttore della Fondazione Palazzo Strozzi: un grande esperimento che studia l’interazione tra esseri umani e piante attraverso l’installazione di due monumentali scivoli nel cortile rinascimentale e uno speciale laboratorio scientifico in Strozzina collegato alla facciata di Palazzo Strozzi.

The Florence Experiment utilizzerà in modo totalmente inedito diversi spazi di Palazzo Strozzi attraverso questi due momenti di coinvolgimento dei visitatori: la discesa da 20 metri di altezza dal loggiato superiore al cortile di Palazzo Strozzi attraverso gli scivoli e l’accesso a due speciali sale cinematografiche in Strozzina. Le emozioni di eccitazione, sorpresa, divertimento, timore vissute dai partecipanti saranno messe a confronto con la crescita e le reazioni di diverse tipologie di piante al fine di studiare l’empatia tra organismi vegetali ed esseri umani.

 

MARINA ABRAMOVIĆ
Dal 21 settembre 2018 al 20 gennaio 2019

Una grande mostra dedicata a Marina Abramović, una delle personalità più conosciute e controverse dell’arte contemporanea, celebre per l’utilizzo del proprio corpo come strumento di espressione.

L’evento si pone come una straordinaria retrospettiva, frutto del diretto coinvolgimento dell’artista, che riunirà oltre 100 opere dagli anni Settanta a oggi offrendo, oltre ad una panoramica sui lavori più famosi della sua carriera e alla riesecuzione dal vivo di sue celebri performance, la possibilità di scoprire la meno nota produzione degli esordi.

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Ti ricordiamo che diventando Amico di Palazzo Strozzi è possibile prendere parte a tutte queste mostre attraverso un esclusivo programma di sconti e vantaggi riservati.

Tante mostre per un Palazzo unico

Palazzo Strozzi è un luogo molto speciale nel panorama culturale italiano.

Simbolo dell’architettura rinascimentale a Firenze, la prima pietra del palazzo fu gettata all’alba del 6 agosto 1489 per volere di Filippo Strozzi che morì prima che il palazzo fosse ultimato. Rappresenta l’esempio perfetto dell’ideale dimora signorile del Rinascimento e nel complesso appare come una piccola fortezza nel cuore della città. Il palazzo rimase proprietà della famiglia Strozzi fino al 1937, anno in cui fu acquistato dall’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, e successivamente ceduto allo Stato nel 1999, che lo ha dato in concessione al Comune di Firenze. Dalla Seconda Guerra Mondiale Palazzo Strozzi è stato considerato lo spazio più importante a Firenze per le grandi mostre temporanee.

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Questa infatti è la particolarità che differenzia Palazzo Strozzi rispetto alla maggior parte delle istituzioni culturali italiane: Palazzo Strozzi non è un “museo”, non ospita una collezione di opere d’arte permanente, ma è un luogo in cui diverse mostre temporanee si succedono fra di loro. Le opere qui esposte provengono ogni volta da diversi musei internazionali o dalle dimore dei prestatori privati, che hanno la fortuna di essere i custodi di questi capolavori.

 width=Le sale dell’ultima mostra a Palazzo Strozzi Il Cinquecento a Firenze (21 settembre 2017-21 gennaio 2018)

All’interno degli spazi del Piano Nobile e delle antiche cantine della Strozzina, con una superficie espositiva di oltre 2000 metri quadri, ogni anno la Fondazione Palazzo Strozzi produce e organizza mostre, eventi ed installazioni che spaziano dall’archeologia al Rinascimento fino all’epoca moderna e all’arte contemporanea. La durata di queste esposizioni è quindi limitata nel tempo.

 width=Vedute della mostra Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim a Palazzo Strozzi (19 marzo-24 luglio 2016)

In occasione di ogni evento espositivo il palazzo si trasforma.
Sono tantissimi i professionisti che con il loro impegno e lavoro contribuiscono a realizzare quella che sembra quasi una “magia”, modellando e quasi rivoluzionando gli spazi interni in accordo con le tematiche specifiche di ciascuna mostra.

 width=La mostra Potere e pathos. Bronzi del mondo ellenistico a Palazzo Strozzi (14 marzo-21 giugno 2015)

 

 width=Le sale della mostra a Palazzo Strozzi Ai Weiwei. Libero (23 settembre 2016-22 gennaio 2017)

 

Se siete curiosi di scoprire come verranno trasformati gli spazi di Palazzo Strozzi in occasione della prossima mostra Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano, potrete scoprirlo di persona dal 16 marzo!

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Caterina un progetto con l’artista Cristina Pancini per A più voci

A più voci è il programma che dal 2011 la Fondazione Palazzo Strozzi dedica alle persone con Alzheimer e a chi se ne prende cura. Per ogni mostra vengono realizzati cicli di tre incontri, progettati e condotti in collaborazione con educatori geriatrici.

Fin dall’inizio di A più voci nel 2011 il terzo incontro di ogni ciclo è stato concepito come un “laboratorio”, nel quale favorire la comunicazione tra caregiver e persona con Alzheimer attraverso linguaggi differenti da quelli verbali.
Dalla primavera del 2016 si è aggiunta una nuova voce al progetto, quella di un artista, e il laboratorio è diventato, più propriamente, “un’esperienza”.
Dopo Virginia Zanetti, che ha collaborato nel 2016, a partire da gennaio 2017 abbiamo chiesto all’artista Cristina Pancini di creare un progetto specifico legato alle opere di Bill Viola. Dopo riflessioni, inciampi e passi avanti, sorretti da forte dialogo condiviso, ha preso forma il progetto Caterina.

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Il punto di partenza è stata l’opera Catherine’s Room, dove Bill Viola si è ispirato alla predella con Storie di Santa Caterina tra beate domenicane attribuita al pittore senese Andrea di Bartolo. È la stessa Santa la cui vita è narrata nella Legenda Maior scritta nel 1393 da Raimondo da Capua.

 width=Bill Viola, Catherine’s Room, 2001, Courtesy Bill Viola Studio

Per la sua installazione video Bill Viola è stato attirato soprattutto dalle scene in basso della tavola di Andrea di Bartolo, che raccontano la vita intima di donne sole, con un tono quotidiano, scene in cui si ripete lo stesso spazio interno.

 width=Andrea di Bartolo, Caterina da Siena fra quattro beate domenicane e scene delle vite, 1394-1398 circa, Venezia, Gallerie dell’Accademia

Emergono quindi tre Caterine: la Catherine di Bill Viola, la Santa Caterina del libro e quella della tavola trecentesca, tre rappresentazioni diverse e contemporaneamente un’unica figura.
Il progetto di Cristina si articola intorno a una nuova Caterina, questa volta una ragazza in carne e ossa che i partecipanti di A più voci hanno l’opportunità di incontrare: Caterina – Cristina o più semplicemente “Caterina”.

Il primo passo dell’esperienza rimane l’osservazione delle opere in mostra, ogni anziano con il proprio caregiver. Poi si torna nella sala del laboratorio, trasformata per l’occasione in uno spazio da esplorare attraverso quattro postazioni appositamente preparate e accompagnate ognuna da una lettera d’istruzioni: scrivere il proprio indirizzo di casa; guardare dentro la stanza per esaminarla con occhio attento e fotografarla; entrare in relazione con alcuni oggetti posti su un tavolo; guardare fuori (dalla finestra).

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La stanza costituisce anche una “sala d’attesa” per l’ultima tappa, che avviene in uno spazio separato in cui si trova Caterina. Qui ogni anziano con il proprio accompagnatore trova un taccuino, una penna e un’altra lettera. “È da molto tempo che non esco”, c’è scritto.
Quali possono essere i consigli da dare a qualcuno che sta per mettersi in viaggio dopo un periodo di separazione dal mondo? Riprendendo la tradizione dell’Album Amicorum le pagine si sono riempite con i suggerimenti di ognuno: “trova una brava sorella”, “annusa il profumo di una rosa”, “non perdere di vista il cielo e il mare”. Sono questi pensieri ad accompagnare Caterina nei suoi viaggi, dai quali sono giunti i racconti sotto forma di lettera indirizzata a ogni partecipante.

 width=Caterina è diventata anche una pubblicazione, frutto di un lavoro a più mani, dove ogni aspetto, dalla scelta della carta all’impaginazione, da ogni singolo testo al tipo di carattere sono stati pensati e realizzati con cura. Una cartellina raccoglie quattro quaderni con le parole di ogni partecipante e le lettere che Caterina ha inviato dopo essere uscita nel mondo.

La pubblicazione nasce come collaborazione con la casa editrice Boîte.
Si ringrazia Cordenons per la fornitura della carta.

Scopri di più sul programma A più Voci a Palazzo Strozzi

Ultimi giorni per Il Cinquecento a Firenze e Utopie Radicali

Domenica 21 gennaio sarà l’ultimo giorno di apertura per le mostre in corso in questo momento a Palazzo Strozzi. Restano quindi pochissimi giorni per visitare Il Cinquecento a Firenze e Utopie Radicali, due mostre molto diverse fra loro ma entrambe imperdibili.

 width=Il Cinquecento a Firenze. Tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna, a cura di Carlo Falciani e Antonio Natali, permette un dialogo tra eccezionali opere sacre e profane, di cui numerose saranno restaurate per l’occasione, di artisti come Michelangelo, Bronzino, Giorgio Vasari, Rosso Fiorentino, Pontormo, Santi di Tito, Giambologna, Bartolomeo Ammannati.
Ultimo atto d’una trilogia di mostre sull’arte fiorentina del Cinquecento, iniziata con Bronzino nel 2010 e Pontormo e Rosso Fiorentino nel 2014 la mostra affronta attraverso opere pittoriche e scultoree lo sviluppo dell’arte fiorentina nella seconda metà del XVI secolo, una straordinaria stagione ricca di cultura e di estro intellettuale, segnata dalla Controriforma del Concilio di Trento e dalla figura di Francesco I de’ Medici, uno dei più geniali rappresentanti del mecenatismo di corte in Europa.

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La mostra Utopie Radicali. Oltre l’architettura: Firenze 1966-1976, ospitata negli spazi della Strozzina, celebra la straordinaria stagione creativa fiorentina del movimento radicale tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Il percorso riunisce per la prima volta in un’unica mostra le opere visionarie di gruppi e personalità come Archizoom, Remo Buti, 9999, Gianni Pettena, Superstudio, UFO e Zziggurat, in un caleidoscopico dialogo tra oggetti di design, video, installazioni, performance e narrazioni capaci di raccontare un altro mondo possibile, un’utopia critica che ha avuto il merito di rompere con lo status quo di quegli anni, rendendo Firenze il centro di una rivoluzione di pensiero che ha segnato lo sviluppo delle arti a livello internazionale.

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Giovedì 18 gennaio, in concomitanza con l’ultima giornata di apertura serale fino alle ore 23.00 (ultimo ingresso alle 22.00) si terrà il Giovedì per i Giovani.
Una serata diversa dal solito in cui le mostre si animeranno grazie alla presenza di un gruppo di guide molto speciali: gli studenti del Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze) e dell’Istituto Ernesto Balducci (Pontassieve, FI) che saranno disponibili a fornire informazioni sulle opere del percorso espositivo.
L’attività è gratuita con il biglietto di ingresso delle mostre.

Ricordiamo inoltre che giovedì dalle ore 18.00 i giovani fino ai 26 anni e gli studenti universitari potranno visitare entrambe le mostre con uno speciale biglietto congiunto a € 5,00.

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Per chi invece volesse visitare le mostre con una delle nostre guide è possibile farlo partecipando alle visite organizzate per singoli visitatori.
Per la mostra Il Cinquecento a Firenze le visite sono previste giovedì 18 gennaio alle 16.00 e alle 18.00, il costo è di € 10,00 oltre al biglietto di ingresso.
Per info e prenotazioni
da lunedì a venerdì
9.00-13.00; 14.00-18.00
Tel. 055 2469600
prenotazioni@palazzostrozzi.org

Per la mostra Utopie Radicali la visita si terrà domenica 21 gennaio alle 16.30.
La visita è gratuita e senza prenotazione fino a esaurimento dei posti. Non comprende il biglietto d’ingresso.

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In questi ultimi giorni di mostra è molto probabile che ci sia un’affluenza straordinaria di visitatori. Se volete evitare qualsiasi coda ed entrare direttamente nelle mostre, è possibile acquistare i biglietti online.

Alla scoperta del Cinquecento a Firenze

Nell’aprile del 1940 la Mostra del Cinquecento Toscano inaugurò Palazzo Strozzi come spazio espositivo e nel 1980, nelle sale dello stesso palazzo, Il primato del disegno fece comprendere la varietà, complessità e qualità dell’arte fiorentina del sedicesimo secolo; sulla seconda metà insiste oggi Il Cinquecento a Firenze ultimo atto di una trilogia a cura di chi scrive, iniziata con Bronzino nel 2010 e proseguita con Pontormo e Rosso Fiorentino nel 2014.

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La rassegna attuale celebra un’epoca eccezionale per virtù culturali e per estro intellettuale, all’interno della quale, fra le molte vie possibili, è stata scelta quella del confronto fra le istanze della vasariana ‘maniera moderna’ e quelle della controriforma. Una stagione unica, segnata da un lato dagli esiti del concilio di Trento e dall’altro dalla figura di Francesco I de’ Medici, uno dei più geniali rappresentanti del mecenatismo di corte in Europa, aperto al mito e alle scienze, qui ricordato a cinquant’anni dalla pubblicazione del fondamentale Principe dello Studiolo di Luciano Berti.

Diciannove impegnativi interventi di restauro eseguiti in occasione della mostra, hanno permesso di restituire leggibilità a opere fondamentali, spesso in condizioni precarie per complessi problemi di conservazione. Dopo l’esposizione sarà riconsegnato al godimento pubblico un patrimonio di qualità straordinaria, per lo più finora ingiustamente negletto.

 width=Veduta della prima sala della mostra, in primo piano il Dio fluviale di Michelangelo

Le prime due sale riassumono quanto è stato presentato nelle mostre su Bronzino e Pontormo e Rosso, esibendo opere che in esse non erano esposte e accostando capolavori degli anni Venti del Cinquecento creati da artisti che sarebbero stati maestri indiscussi di tutto un secolo, a cominciare da Andrea del Sarto e Michelangelo.

Le meditazioni svolte da Andrea nella Pietà di Luco (1523-1524) furono cruciali negli anni che videro la Chiesa di Roma ribadire, al cospetto di dissensi e dinieghi divulgati dal pensiero luterano, principi fondamentali come la presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata. Andrea fu modello di stile per i pittori fiorentini: da quelli spregiudicati cresciuti alla sua ombra (Pontormo e Rosso, appunto) a quelli annoverati nella genealogia ideale che da Pontormo prende le mosse per proseguire col Bronzino e pervenire ad Alessandro Allori, fino a intaccare il Seicento. Le opere di Andrea furono copiate e studiate per decenni, non solo per le loro doti stilistiche, ma anche per aver con largo anticipo mostrato quella chiarezza espositiva e quel modo accostante d’offrirsi che erano ricercati dal concilio di Trento.

 width=Andrea del Sarto, Compianto su Cristo morto (Pietà di Luco), 1523-1524, olio su tavola, Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina

Anche Michelangelo fu modello di riferimento imprescindibile per gli artisti, soprattutto per le opere della Sagrestia Nuova, lasciata incompiuta al momento della partenza per Roma nel 1534, ma qui evocata dal Dio fluviale (1526-1527 circa) dopo il restauro. Il Mercurio di Bandinelli indica da subito la compresenza in mostra di temi sacri e profani.

 width=Veduta della mostra, in primo piano: Baccio Bandinelli, Mercurio, ante 1512, Parigi, Musée du Louvre, Département des Sculptures

In un’esedra si squadernano in un confronto inedito, da manuale di storia dell’arte e come in un trittico ideale, tre capisaldi di tutta l’arte occidentale: la Deposizione dalla croce di Volterra del Rosso Fiorentino (1521), la Deposizione di Santa Felicita del Pontormo (1525-1528) e il Cristo deposto di Besançon del Bronzino (1543-1545 circa).

Al pari di Andrea del Sarto nella Pietà di Luco, anche il Pontormo sceglie di rendere esplicita la presenza del corpo di Cristo nell’ostia consacrata immaginandosi due angeli che ne depongono il cadavere sull’altare sottostante: la pala di Santa Felicita viene a porsi lungo una linea storico-figurativa che unisce la visione naturalistica di Andrea del Sarto alle riflessioni teologiche che il Bronzino svolge un ventennio dopo nella cappella di Eleonora in Palazzo Vecchio, quando si confronta con lo stesso soggetto.

Percorso diverso sarà quello del Rosso, che troverà pochi seguaci nella Firenze granducale per il suo linguaggio arcaizzante eppure spregiudicato.

 width=Veduta della mostra con le Deposizioni di Rosso Fiorentino, Pontormo e Bronzino a confronto

La seconda parte della sala offre un panorama delle arti fiorentine fino alla prima edizione delle Vite di Giorgio Vasari, stampata nel 1550, con opere di Cellini, Salviati e Vasari stesso. Viene dunque presentata la nascita, fra il 1530 e il 1550, di quei linguaggi che verranno poi fatti propri dagli artisti di Francesco I e Ferdinando I de’ Medici.

Carlo Falciani e Antonio Natali
Curatori della mostra Il Cinquecento a Firenze

 width=Veduta della mostra con le opere di Cellini, Salviati e Vasari

Per chi desidera scoprire il resto del percorso espositivo restano ancora pochissimi giorni. La mostra, giudicata dalla critica come la migliore del 2017, resterà aperta tutti i giorni fino a domenica 21 gennaio 2018.

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