Noi che eravamo vivi di Andrea Cortellessa

Le figure che popolano gli spazi allestiti da Giulia Cenci condividono l’inquietante condizione di sembrare vive (accentuati sino all’emblematicità sono i loro gesti, espressivamente marcate le loro posture), insieme rimarcando la propria natura di materia morta, immobile e inorganica: con lo svelare la natura di recupero dei materiali di cui sono composte. È l’ambiguità che pertiene a ogni scultura, certo, ma Cenci ne accentua la paradossalità sino a un effetto di «danza macabra»: quella che si dispiega, quasi un Matisse raggelato e depresso, nel gruppo che accoglie il visitatore nel nuovo Project Space di Palazzo Strozzi. Dead dance s’intitolava del resto, esplicitamente, il grande allestimento presentato da Cenci alla Biennale di Venezia del 2022. Ricorda in catalogo Marta Papini che la tradizione tardomedievale di questa iconografia (ancorché attestata anche in precedenza, nella tradizione delle Vanità ricostruita da Michel Butor) s’impose con prepotenza, nell’immaginario europeo, dopo la Peste Nera del 1348 – in sin troppo eloquente parallelismo con la pandemia da Covid del 2020.

Considerate da una certa distanza, si finisce per pensare che le grandi Pestilenze, e in generale le Catastrofi che sempre più frequenti punteggiano la nostra esistenza storica, vengano sempre al traumatico culmine di periodi di consunzione, estenuazione collettiva, fisico e metafisico inaridimento: che quelle crisi precedono e in qualche modo, misteriosamente, paiono causare. Torna così, nelle forme nuove di un tempo secolarizzato, la forma mentis che in antico ricollegava le pestilenze, e altre consimili disgrazie, a punizioni divine inflitte al genere umano. È quello che accadde con la Grande Guerra del 1914, e l’epidemia cosiddetta “Spagnola” che, concausata da quel conflitto, funestò gran parte del pianeta nel 1918-1920 (di recente Gabriele Frasca ha definito i soldati, che diffusero il contagio, «inconsapevoli attori della prima guerra batteriologica mondiale»: L’influenza della guerra. La memoria rimossa della “spagnola”, Luca Sossella 2025). Anche in quel caso, gli orrori della guerra e della peste parvero a molti una conseguenza del clima di soffocazione morale che li avevano preceduti: cui aveva dato la sigla più memorabile Oswald Spengler col Tramonto dell’Occidente, controversa opera pubblicata solo dopo la guerra, fra il ’18 e il ’22, ma dall’autore pressoché ultimata già nel ’14.

Giulia Cenci: the hollow men, exhibition views, Firenze, Palazzo Strozzi, Project Space, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

In questo modo può essere letta l’opera letteraria, fra tutte canonica della poesia moderna, che in fondo sin dal titolo rinvia all’insalubrità del tempo in cui s’è elaborata: The Waste Land di T.S. Eliot (che confessò al grande filologo Ernst Robert Curtius di aver tenuto presente il libro di Spengler). Così ha fatto una delle sue ultime traduttrici (e pare già eloquente la coincidenza, nel nostro tempo, di ben tre diverse e attrezzate nuove versioni del testo: insieme alla sua – pubblicata dal Saggiatore nel 2021, che da ora in poi citerò, salvo diversa indicazione – vanno ricordate quella di Aimara Garlaschelli, ETS 2018, e di Sara Ventroni, Ponte alle Grazie 2022: le quali conservano il titolo La terra desolata introdotto dal primo traduttore italiano, Mario Praz, nel 1932), Carmen Gallo, che invece ne ha mutato il titolo italiano in La terra devastata (così recuperando di waste l’etimo latino vastus, che assomma al significato di “ampio” quello appunto di “devastato”: come spiega pure lo Zibaldone di Leopardi, in data 17 ottobre 1821).

Prendendo parte alla citata ricerca di gruppo sulla “spagnola”, ha fatto notare Gallo come tanto Eliot che sua moglie Vivien Haigh-Wood, alla fine del ’18, si fossero infettati del morbo – e come certi suoi sintomi (febbri, deliri, disidratazione, paura di annegare nei liquidi polmonari) si riflettano nelle immagini del poemetto: a partire dall’associazione, a ben vedere non così ovvia, fra l’ossessiva imagery di un paesaggio allegoricamente inaridito e la «morte per acqua» che, accomunando figure distantissime come l’Ofelia shakespeariana e «Phlebas il fenicio», del testo è il più ricorrente leitmotiv. Quello in cui scrive Eliot era «un paesaggio umano vulnerato, contaminato, nel corpo e nello spirito, allegorico di ciò che era la civiltà europea in declino del primo dopoguerra, il cui correlativo oggettivo era appunto la waste land delle leggende arturiane e non solo» (se la fonte dichiarata come principale era il saggio From Ritual to Romance, pubblicato nel 1919 da Jessie L. Weston, che ricostruiva in chiave antropologica la leggenda del Santo Graal, un’altra sua matrice importante sono le tragedie di Sofocle, Edipo Re e Antigone, dalle quali viene l’indovino Tiresia che rivela come la pestilenza di cui è preda la città di Tebe sia dovuta alla morte di Laio, ucciso dal figlio Edipo, che ne ha lasciato il cadavere insepolto).   

Giulia Cenci: the hollow men, exhibition views, Firenze, Palazzo Strozzi, Project Space, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Il titolo della mostra di Giulia Cenci, the hollow men, riprende dichiaratamente quello di un altro componimento di Eliot, scritto all’indomani della pubblicazione della Waste Land (sul primo numero della rivista da lui stesso diretta, «The Criterion», nell’ottobre del 1922) ma uscito, nella sua forma definitiva, solo nel 1925. Esattamente un secolo fa, cioè. E ha gioco facile Arturo Galansino a svolgere il parallelismo col contesto attuale «dominato da crisi ambientale, tensioni sociali e pervasività della tecnologia, che alimentano una nuova forma di stallo esistenziale». Ma come il «mese arido» e la «casa in rovina» di Gerontion, componimento scritto da Eliot nel ’19 e pubblicato l’anno dopo, sono un chiaro preannuncio della Waste Land coi suoi «pensieri di una mente secca in una stagione secca», così la «terra morta», i corpi «impagliati», le «voci secche» e le «ombre senza dolore» coi loro «gesti privi di moto» di The Hollow Men (cito in questo caso dalla classica versione di Roberto Sanesi) sono una altrettanto evidente ripresa del poemetto-chiave: sino a fare del secondo testo un vero e proprio spin-off del primo (segnalato pure dall’esergo conradiano, da Heart of darkness, che Ezra Pound aveva tagliato dalla Waste Land). Dichiara del resto Cenci conversando con Galansino: «Eliot è da sempre una presenza costante nel mio lavoro, un autore che torno a leggere in continuazione» (basti ricordare l’altra opera presentata nel ’22 al PAKT di Amsterdam, dry salvages, che riprende il titolo del terzo dei Quattro quartetti). E conclude: «The Waste Land è una sorta di Bibbia stampata nella mia mente».

In effetti quasi tutte le figure riunite nella prima sala del Project Space, se rinviano immediatamente alla condizione «vuota», arida e disanimata, degli «uomini» del 1925, più in profondità paiono riferirsi, nel dettaglio, al testo di tre anni prima. Mi riferisco anzitutto al finale della prima sezione della Waste Land, The Burial of the Dead: sul fondale allegorico di una «città irreale», un rito funebre raduna la «folla» di trapassati che «esalano sospiri, brevi e irregolari», col dettaglio icastico del «tenere gli occhi fissi ai piedi». E verso il basso rivolgono gli sguardi, a loro volta, le figure di Giulia Cenci. Ma piuttosto che alla dinamica attualizzante «dell’autorappresentazione, dei social media», suggerita da Galansino, archetipicamente questa postura può ricordare la scena (a Eliot senz’altro familiare) del XXX canto del Purgatorio, dove Dante sferzato da Beatrice in posa marziale, «quasi ammiraglio che in poppa e in prora / viene a veder la gente che ministra», ci si mostra in atto di contrizione, ripiegato in un rispecchiamento non meno frustrante: «li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; / ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba, / tanta vergogna mi gravò la fronte» (vv. 58-59 e 76-78).

Giulia Cenci: the hollow men, exhibition views, Firenze, Palazzo Strozzi, Project Space, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

C’è poi l’aspetto teriomorfo delle figure di «canidi», come giustamente li chiama Galansino, anche se poi l’artista parla subito di «lupi» («una figura che conserva ancora una parte di sé indomita, selvatica, non addomesticata»). L’antinomia tra la figura addomesticata del cane e quella selvatica del lupo, tanto vicine per aspetto fisico quanto opposte per temperamento simbolico, è più volte attestata nei dialoghi di Platone. Nel III libro della Repubblica, in particolare, l’animale per antonomasia alleato dell’uomo rischia di regredire alla condizione feroce del predatore, in una dichiarata allegoria dell’assolutismo politico: come il cane da guardia non deve insidiare le greggi che è chiamato a proteggere, così i difensori della polis non devono divenire «padroni selvaggi» (416b), e il tiranno è l’uomo-lupo che finisce per essere la prima minaccia nei confronti della sua comunità (rinvio al commento di Lucia Loredana Canino nell’edizione della Repubblica a cura di Mario Vegetti, Bibliopolis 1998).

L’ambivalenza di questa metafora arriva, in forma larvale, sino alla Waste Land. Alla fine del citato Burial of the Dead così veniamo messi in guardia riguardo al «cadavere» che è «stato piantato l’anno scorso in giardino»: «Oh, tieni alla larga il Cane, che è amico dell’uomo, / o con le unghie lo disseppellirà di nuovo!». Nelle sue note al testo Eliot rinvia alla tragedia seicentesca Il Diavolo bianco, di John Webster, dove l’animale che rischia di profanare la sepoltura è però il «lupo, che è nemico degli uomini». E così era, infatti, nella prima stesura del suo poemetto. Non è facile capire il senso simbolico di questa inversione operata da Eliot; secondo Carmen Gallo adombrata è la costellazione di Sirio, il Cane maggiore, da Jessie Weston collegata ai riti di fertilità egizi; ci si ricorda piuttosto, allora, che in quella mitologia il dio che presiede ai riti di mummificazione e sepoltura è Anubi, per tradizione raffigurato appunto con la testa di cane (per alcuni studiosi piuttosto uno sciacallo, secondo altri di nuovo un lupo…). In ogni caso uno dei suoi attributi, Khentamentyu, significa «Signore degli Occidentali» (ossia i defunti sulla riva sinistra del Nilo): e certo Spengler sarebbe stato d’accordo.

Giulia Cenci: the hollow men, exhibition views, Firenze, Palazzo Strozzi, Project Space, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Ma il rinvio più significativo – occultato al centro della scena, come la lettera rubata di Poe – è l’elemento che nella figurazione, a prima vista, appare incongruo: la còclea, o vite di Archimede, che ricorre anche in altre opere di Giulia Cenci. La quale ci dice che ad affascinarla è la sua «ambivalenza: può essere un’“arma” distruttiva, quando viene impiegata per scavare o devastare territori, come accade nei contesti bellici o nelle grandi opere, ma può anche essere utilizzata in un mulino, portare acqua, sostenere un ciclo vitale». Ma proprio questa, a ben vedere, è l’ambivalenza sulla quale si fonda The Waste Land. Il prolungato rito funebre che si snoda nelle cinque sezioni del poemetto è, al tempo stesso, un rito di fertilità che culmina nell’ultima parte, What the Thunder Said – e che lo strumento idraulico evocato dall’artista può ben incarnare in forma secolarizzata. Ma l’invocazione alla pioggia, perché riporti la vita nella «terra crepata» («crettata», traduce Sara Ventroni), non pare sortire l’effetto sperato. Una «ventata umida» in effetti «porta la pioggia», ma «il Gange» resta «infossato» («in secca», per Ventroni), le «cisterne vuote», i «pozzi esausti». E il perché si capisce. In quelle condizioni storiche e spirituali una rinascita, ci aveva avvertito l’incipit del poemetto, si dà solo in una terra fecondata dalla morte: cioè dai cadaveri lasciati insepolti dalla guerra e dalla peste. Se «Aprile è il mese più crudele», è perché «genera / lillà dalla terra morta, mescola / memoria e desiderio». A chi scrive si confà piuttosto «una vita minima» («fioca», preferisce dantesca Ventroni) e, conclude Gallo, la finale invocazione alla pace affidata alle Upanishad indiane («Shantih shantih shantih») «non risolve, ma denuncia, rivendica, e implora».

Le figure che si aggirano «attorno al fico d’India», in The Hollow Men, si affannano in un falso movimento simile a quello che nel III canto dell’Inferno dantesco (citato alla lettera, nella Waste Land: «una folla scorreva sul London Bridge, così tanta / ch’io non avrei creduto che morte tanta n’avesse disfatta») tortura gli ignavi, cioè coloro che in vita sono stati incapaci di scegliere fra il bene e il male: il loro contrappasso consiste nell’inseguire invano, in circolo, una bandiera che gira su sé stessa (vv. 52-57). In questo stesso stato di sospensione, «a Dio spiacenti e a’ nemici sui», ci troviamo anche noi: dopo la catastrofe che abbiamo subito, e in attesa di quella che ineluttabilmente le succederà. Come dice The Waste Land, appunto, all’inizio della sua ultima sezione: «colui che era vivo adesso è morto / noi che eravamo vivi adesso stiamo morendo / con un po’ di pazienza». È proprio così, un secolo fa come oggi. Basta un po’ di pazienza e raggiungeremo anche noi, al fondo del più arido cretto, i nostri insaziabili morti.  

Andrea Cortellessa è nato a Roma nel 1968. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre. Ha curato mostre e testi, realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È tra i fondatori di «Antinomie. Scritture e immagini»; collabora al «manifesto», al «Corriere della Sera», al «Sole 24 ore», al «Giornale dell’Arte» e ad altre testate.

In copertina: Giulia Cenci: the hollow men, exhibition views, Firenze, Palazzo Strozzi, Project Space, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Tracey Emin, o della pulsione di Lorenzo Bernini

Sesso e solitudine: «le due parole sono opposte, o intrinsecamente collegate?», le chiede Arturo Galansino, Direttore generale di Palazzo Strozzi e curatore della mostra, all’inizio della video-intervista che si può guardare prima di uscire [NdR: e online, sul canale YouTube di Palazzo Strozzi] , superato il bookshop – e c’è proprio bisogno di tornare all’ancoraggio della parola argomentativa, dopo tanta perturbante bellezza fatta di immagine e poesia, e di materia, come di tornare all’ordine dell’io dopo un’esperienza estatica. Lei, Tracey Emin, risponde senza esitazione, con fare sicuro e rassicurante, che le due parole «sono assolutamente collegate, al cento per cento». Ma poi la spiegazione oscilla verso un’ambivalenza che non rassicura e anzi confonde, e al tempo stesso mette in chiaro – mette in chiaro che no, in quest’intervista la parola non ancorerà, non farà ordine, e di nuovo ci trascinerà nel vortice emotivo dell’artista, ci tratterrà in un’estasi che non si solidificherà in senso compiuto. La mostra, insomma, non è ancora finita, non è ancora il momento di tornare in noi. (Che sollievo… Che tormento… Che godimento!).

«Dal punto di vista filosofico», spiega dunque Tracey Emin, ogni essere umano nasce unico e solo, e muore unico e solo, eppure «fin dal concepimento, ci uniamo al tutto». «Quando scopiamo [fuck]», continua, «e quando procreiamo, non dovremmo essere soli», bensì «in contatto con l’anima dell’altro in modo da poter generare un’altra anima, in modo che tutto possa continuare, andare avanti». Però, «in quanto esseri umani», sappiamo che ci sono momenti in cui «anche se si è molto vicini fisicamente, si è soli, del tutto». Che, ad esempio, «dopo aver fatto l’amore con qualcuno», «dopo aver fatto sesso con qualcuno», ci si può sentire «davvero soli, completamente soli», «magari a mille anni di distanza dalla persona che avevamo accanto, senza contatto, addirittura in un altro universo».

Poi racconta di sé, come da sempre fa nella sua arte. Racconta di non fare più sesso da tanto tempo, di non credere che lo farà mai più – per l’età, dice all’inizio, e per la pesante operazione che ha subito per un cancro alla vescica, aggiunge poi, durante la quale ha subito anche l’asportazione parziale della vagina. Di non aver in ogni caso mai voluto «procreare», di non aver mai voluto «fare figli», e di essere stata «mossa dal sesso», quando lo era – ora appunto non più –, come da un’«urgenza fisica [fisical urge]», da «un’urgenza corporea [bodily urge] che non veniva dal cuore o dalla mente». Per poi concludere che sesso e solitudine «sono due cose davvero interconnesse, ma anche completamente separate» (non erano collegate al cento per cento?); in ogni caso «due cose interessanti sulle quali riflettere». E che spera che vedendo il titolo della mostra scritto in neon azzurro, con la sua grafia, sulla facciata di Palazzo Strozzi – la prima opera del percorso espositivo offerta alla città di Firenze –, «anche le persone che non sono interessate all’arte, ci pensino su».

Tracey Emin, Sex and Solitude, 2025. Tracey Emin. Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo: OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Proviamo a pensarci allora su anche noi, che invece all’arte ci interessiamo, noi che quella mostra l’abbiamo attraversata, o meglio che ne siamo stati attraversati come da una scossa tellurica. Proviamo a trovare altre risposte agli enigmi che restano irrisolti nelle parole di Tracey Emin sul titolo che, con il direttore creativo del suo studio Harry Weller, ha scelto per Palazzo Strozzi – sulle quali del resto lei per prima invita a riflettere ancora. Proviamo ad affrontare le sfide che ci pongono, a interpretarne le contraddizioni come sintomi di altre possibili verità, che non negano quelle proferite da lei, ma le sottendono come loro rovescio.

Nessuna delle sessanta opere esposte, nessuno degli scabrosi nudi femminili – pennellate brutali e colature –; nessuna delle sculture di corpi appena abbozzati, prostrati e mutilati, piccole o monumentali, ma sempre antieroiche e intensamente erotiche, con le impronte delle mani dell’artista impresse nel bronzo; nessuna delle poesie d’amore disperate scritte col neon (eccone una: You put your hand / Across my mouth / But still the noise / Continues / Every part of my body / is Screaming / Smashed into a thousand / Million Pieces / Each Part / For Ever / Belonging to you); nessuno dei suoi arazzi (uno dei quali esordisce: I do not expect to be a mother / But I do expect to die alone); niente di niente – nemmeno la sala che richiama contenuti cristologici, e il tema ricorrente della crocifissione – dà la benché minima pallida idea di un’anima disincarnata che cerca «contatto con l’anima dell’altro in modo da poter generare un’altra anima», né di una mente o di un cuore che possano pensare o sentire separati dal corpo. Soprattutto non la danno le opere sessualmente esplicite, bellissime, dall’impatto pornografico: il video di una donna a gambe larghe e tacchi alti, ad esempio, la vulva bene in vista, che si masturba, associato alla scritta al neon giallo Those who suffer LOVE; oppure il grande calicò ricamato intitolato I don’t need to see you I can feel you, dove una donna sta seduta sopra un uomo che la penetra da dietro, senza che i due possano guardarsi; o ancora l’acrilico con la scritta bianca su fondo nero I wanted you to fuck me so much I couldn’t paint any more.

«Quando scopiamo e quando procreiamo non dovremmo essere soli», spiega Tracey Emin ad Arturo Galansino. Ma da dove proverrebbe mai questo dovere? In quale tavola della legge lo ha letto, questo comandamento al condizionale? Di sicuro, lei lo trasgredisce. In tutta la mostra, il desiderio di riproduzione viene negato, l’amore è disperato bisogno di un altro assente, e l’atto sessuale è autoerotico anche quando compare un uomo, che per lo più è un fantasma con un cazzo, che sospende la coscienza dell’artista, sempre lei l’unica protagonista, per trascinarla in un orgasmo rosso sangue (come nel quadro There was blood), e ancor prima nella dissoluzione di sé. Una statuetta prona, con la mano tra le cosce, si intitola I wanted you more, ma nell’universo erotico di Tracey Emin è difficile distinguere la causa dall’effetto: la masturbazione prolunga nella fantasia il sesso con questo o quel partner, o i suoi partner sono strumenti per prolungare nella realtà il suo sesso solitario?

Tracey Emin, I Wanted You To Fuck Me So Much I Couldn’t Paint Anymore (det.), 2020. Fine Art Private Museum c/o Xavier Hufkens Gallery © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Sesso e solitudine, quindi, pensiamoci ancora su. Limitiamoci a pensare sul sesso, anzi. Sfidiamoci a pensare il sesso da solo, se ci riusciamo. Che cosa rende sesso il sesso? O almeno, che cos’è il sesso per noi? Se siamo reazionari, magari integralisti di qualche religione monoteista, probabilmente pensiamo il sesso come facoltà riproduttiva, o in alternativa come peccato. Se siamo progressisti romantici, lo pensiamo forse come passione, come desiderio, in ultima istanza come amore. Se siamo individualisti, materialisti o nichilisti, lo pensiamo invece come sesso orgasmico, come quel sesso che ha non il suo fine ma la sua fine nel piacere. Ma queste esperienze, che certo hanno qualcosa di sessuale, si chiamano appunto “riproduzione”, “passione”, “desiderio”, “amore”, “piacere”, “orgasmo”, o “peccato” – non si chiamano “sesso”. Perché il sesso in quanto sesso, invece, ci sfugge? Perché il sesso è così difficile da pensare, e da significare?

Perché nel sesso, il soggetto non pensa e non significa. Perché nel sesso il soggetto non è propriamente presente, ma si perde in un’esplosione di sé. Perché, insomma, dove c’è il sesso in quanto sesso, non ci siamo più propriamente noi. Non c’è anima, non c’è mente, non c’è cuore. C’è eccitazione, c’è godimento, c’è estasi, nel sesso – ma c’è anche l’angoscia che deriva dalla mancanza di controllo, dall’eclissi della coscienza. Proprio per difenderci da questa angoscia traumatica, pensiamo allora il sesso assieme al desiderio, assieme all’orgasmo, assieme alla riproduzione, negli ultimi decenni sempre più assieme anche all’identità (al genere). Ma desiderio, orgasmo, genere non sono il sesso. E soprattutto non lo è la riproduzione. Perché se non per rare volte nella vita, non si scopa per riprodursi, ma per godere. E godere non è ritrovarsi nel senso del piacere, ma perdersi in un’oscena eccitazione senza senso – quella che la produzione di Tracey Emin mette così crudamente, e crudelmente, in scena.

Tracey Emin, I don’t need to see you I can feel you!, 2016. Tracey Emin, In my defence – I thought of only you, 2017. Tracey Emin. Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo: OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Parla di urgenza fisica e corporea, l’artista, nell’intervista: «fisical urge», «bodily urge». Ma nel sesso non c’è più propriamente neanche il corpo. C’è esplosione del corpo, frammentazione del corpo, perdita della sua unità e della sua unicità, dissoluzione nel tutto – lei lo rappresenta così efficacemente. «Fin dal concepimento, ci uniamo al tutto», osserva. Fin dal concepimento. Ma allora non è vero che si nasce soli… E infatti, nelle sale della mostra, incombe la presenza della madre morta, omaggiata da una scultura monumentale, sintomaticamente intitolata All I want is you, e poi da un piccolo quadro dai toni blu My Mum’s Ashes – In The Ashes Room. Anche l’arazzo a cui ho accennato prima ne celebra il lutto: I do not expect to be a mother / but I do expect to die alone / It doesn’t have to be like this / She went out like a 40 watt bulb / Call me / My brains all split out / Love to the end / I want it back – that girl of 17.

Se siamo soli, nella vita e nella morte, è quindi perché non lo siamo stati mai. Perché l’animale umano, in quanto mammifero, non nasce solo, ma nasce in relazione. Perché il sesso, per lui o per lei o per loro, non è mera urgenza fisica, non è istinto. Secondo una certa interpretazione psicoanalitica, l’urgenza del sesso si chiama pulsione (Trieb nel tedesco di Freud, in inglese drive). E la pulsione non esce dal corpo, ma si installa sul corpo, a partire dalla prime esperienze infantili di un corpo che ancora non si riconosce come tale, travolto da stimoli esterni, provenienti da un mondo che se ne prende cura e al tempo stesso lo espone alla violenza, da stimoli che superano la sua capacità di comprensione, anche di sopportazione – a cui quel corpo sopravvive trovandoli eccitanti. Il sesso quindi non ci appartiene, non appartiene ad alcun io, non è propriamente né fisico né psichico, perché la pulsione si produce tra il mondo e noi. E si ripresenta poi come coazione a ripetere, la pulsione: ogni volta ci riporta alla condizione infantile di totale esposizione all’altro (tradizionalmente a un’altra, che è la madre), a una posizione masochistica che oblitera la nostra coscienza e anche la nostra integrità corporea. Per queste ragioni, il sesso è solitudine: è una solitudine estrema, e paradossale, di un grumo di carne, di un fascio di sensazioni in contatto con il tutto, che non percepisce il tutto come altro perché ancora non ha un sé, perché ancora non è un io.

Tracey Emin, I Followed You To the End, 2024. Tracey Emin. Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo: OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Varcato l’arco sovrastato dalla scritta Sex and Solitude, ad accogliere i visitatori nel cortile rinascimentale di Palazzo Strozzi sta un’enorme scultura in bronzo, rappresentante la parte inferiore di un corpo di donna a carponi, intitolata I Followed You to the End. Con la pancia in giù e le natiche in su, sembra invitarci a penetrare negli orifizi del suo ventre. L’arte femminista di Tracey Emin ribalta la rappresentazione classica della monumentalità celebrativa del corpo maschile eretto su un piedistallo, allo stesso modo in cui rovescia l’immagine classica di un individuo indipendente e irrelato. Il nostro corpo proviene da un altro corpo che lo ha partorito, il nostro io emerge dalla relazione. Se siamo soli, ripetiamolo di nuovo in conclusione, è perché non lo siamo stati mai. E il sesso è uno dei nomi del paradosso che noi siamo.

Lorenzo Bernini, filosofo, insegna all’Università di Verona, dove dirige il Centro di ricerca PoliTeSse – Politiche e Teorie della Sessualità. Tra i suoi libri, tradotti anche in altre lingue: Apocalissi queer (2013), Le teorie queer (2017), Il sessuale politico (2019), Gender (2023).

In copertina: Tracey Emin, There was blood (det.), 2022. Cherñajovsky Collection © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Una lampadina da 40 watt di Chiara Tagliaferri

Una donna di nove metri, nuda e inginocchiata, culla un bambino invisibile dando le spalle al Munch Museum di Oslo. Il suo corpo di bronzo è concentrato nel proteggere quello che gli altri non vedono, ma lei sì. Con The Mother, opera del 2021, Tracey Emin restituisce una madre a chi l’ha persa da piccolo – come Edvard Munch – o da poco – come lei – e al contempo custodisce il ricordo di chi non è mai nato. Le gambe di questa madre ciclopica sono aperte verso il fiordo, divaricate come nell’atto di partorire cosicché tutti, dalla terra e dal mare, possano guardarla.

Le madri sono onde, e spesso si abbattono su di noi come profezie e disgrazie. Sta a noi decidere se farci abbracciare, forse travolgere, o scivolare via da un destino che Goliarda Sapienza definiva “una volontà inconsapevole di continuare quella che per anni ci hanno insinuato, imposto, ripetuto essere la sola giusta strada da seguire”.

Di strade giuste da seguire a Margate ­– una cittadina costiera del Kent piena di neon, desolazione e spiagge sferzate dal vento – Tracey Emin non ne trova. È incastrata lì con il fratello gemello Paul: la madre Pansy gestisce un hotel che lei ricorderà come “il tipo di posto in cui c’erano più fantasmi che clienti. Crescevamo in mezzo a persone strane, camere sporche, cose che non capivamo. Lei lavorava sempre, ma non c’era mai davvero”.

Come fai a parlare con qualcuno che fa tutto per te, senza esserci per te? Di quegli anni avari, bisognosi e feroci, ricordando la violenza sessuale subita a tredici anni, Emin dirà, “Non era tanto che mi succedessero cose terribili… è che nessuno si accorgeva se succedevano o no”.

Tracey Emin. The Mother, 2021. Oslo, Munchmuseet. Images courtesy Tracey Emin studio

Le cose terribili accadono a lei come a tante altre ragazze: vengono abusate e il giorno dopo, a scuola, i compagni di classe dicono “l’hanno rotta la notte scorsa”. Come una bambola. Tracey si ribella al destino che la vuole bambola rotta, e a quindici anni scappa da Margate. È un corpo in rivolta, eccessivo e mancante, lo sarà per tutta la vita e in questa fuga perenne non smetterà mai di parlare con Pansy trasformandola in neon, scultura, stoffa, memoria cucita e ricamata. Non facciamo forse questo con le madri? Le teniamo insieme con gli spilli per impedire loro di sparire, e siamo pronte a incollare i mille pezzi in cui ci riducono senza volerlo.

Nel 2016, Tracey tiene la mano a Pansy per quattro giorni, fino a quando la madre chiude gli occhi. “È stata la cosa più difficile della mia vita”, racconterà.

A Palazzo Strozzi mi sono fermata davanti all’appliquè I do not expect, in cui Emin ha ricamato la maternità e la solitudine cucendo questi versi su stoffa: “Non mi aspetto di essere madre/ Ma mi aspetto di morire sola/ Non deve per forza essere così/ Lei si è spenta come una lampadina da 40 watt/ Il mio cervello è a pezzi/ Amore fino alla fine/ La rivoglio indietro – quella ragazza di 17 anni”. 

In un equilibrio impossibile tra vicinanza e distanza, Pansy ora è fuoco fatuo, ma è stata incendio per la figlia che racconta: “Mia madre mi amava moltissimo, ma quando rimase incinta, non si aspettava di avere due gemelli. Andò ad abortire che era all’incirca al terzo mese, e proprio all’ultimo momento, mentre stavano per farle l’anestesia, cambiò idea, si alzò e se ne andò. Questo mi ha fatto capire quanto mia madre mi volesse e, in un certo senso, non mi volesse. Mi ha anche fatto capire quanto volesse rimanere se stessa, quanto tenesse alla sua indipendenza”.

Tracey Emin. I do not expect, 2022. Tracey Emin. Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo: OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Rimanere noi stesse con un figlio, una figlia, è realmente possibile?

Quando Tracey Emin rimane incinta, nel 1990, non riesce più a dipingere: l’odore della trementina e dei colori a olio la disgusta. Sa che la nausea passerà, ma sa anche che non passerà per lei – come per molte altre donne – la certezza di ritrovarsi con un’identità sbriciolata. Come può conciliare il suo lavoro, la sua arte, con la crescita di un bambino?

Decide di abortire, e sei anni dopo lo racconta davanti a una telecamera. Con How it Feels Emin, che da sempre abbatte il confine tra pubblico e privato, trasforma un’esperienza che di solito si cancella, o si sigilla nel silenzio, in un’opera. Il suo corpo, vulnerabile e potente, ci parla del dolore e della solitudine di una maternità narrata come obbligo, come storia a senso unico. Di nuovo il destino a cui sembriamo condannate.

“Ci sono buoni artisti che hanno figli. Certo che ci sono. Si chiamano uomini”, racconta Emin. Penso a Marina Abramovich e ai suoi tre aborti, alle sue parole quando rivendica che “Ognuno ha un’energia limitata nel proprio corpo e con un bambino so che avrei dovuto dividerla. Sono felice di essere libera. Secondo me c’è una ragione per la quale le donne non hanno successo in campo artistico come gli uomini. Il mondo è pieno di donne talentuose. Perché, allora, gli uomini ricoprono sempre le posizioni più importanti? È semplice. Amore, famiglia, bambini – una donna non vuole sacrificare tutto questo”. Uccidere la vergogna e appenderla alle pareti ha un prezzo: Abramovich e Emin sono state biasimate di aver mercificato il trauma, bollate come assassine, egoiste, narcisiste.

Tracey Emin, Exorcism of the last painting I ever made, 1996. Tracey Emin. Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo: OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Nello stesso anno in cui Tracey racconta del suo aborto, decide anche di rinchiudersi in un piccolo spazio di una galleria di Stoccolma per il tempo che intercorre tra un ciclo mestruale e l’altro. Dorme su una brandina, nuda. Quando si sveglia, sempre nuda, torna finalmente a dipingere, e lo fa sotto lo sguardo degli spettatori che la possono osservare attraverso lenti grandangolari. Le opere che realizza sono ispirate agli artisti – tutti uomini – da lei amati (Munch, Picasso, Schiele), e in questo gioco di specchi è suo il corpo che mostra e che ritrae. Musa di se stessa, Tracey di quel periodo ricorda “Odiavo il mio corpo: avevo paura di addormentarmi. Stavo soffrendo per il senso di colpa e mi stavo punendo, così mi chiusi in una scatola e mi detti tre settimane e mezzo per risolvere la situazione. E ci riuscii”.

A Palazzo Strozzi ho potuto spiare quella stanza riprodotta in ogni minuscolo dettaglio: la disposizione delle tele, le bottiglie di birra a terra, il lettore con i cd sparpagliati sul pavimento, il letto sfatto. Cercavo il fantasma di una ragazza che con un esorcismo voleva riappropriarsi del proprio corpo, la stessa ragazza che da grande dirà “Non sono una madre. Non sono mai stata una madre e non lo sarò mai. Ma lo sono con la mia arte”.

Tracey Emin madre lo è da sempre, perché ha moltiplicato le possibilità della maternità (negata, perduta, idealizzata) perseverando nell’incertezza, attraversando il mistero e il dubbio, raccogliendo i detriti dell’assenza, donando loro nuova vita. Nel 2008 crea Baby things: le sue “cose da bambini” sono minuscole riproduzioni in bronzo di scarpette per neonati, biberon, guantini, piccoli golfini che non andavano più bene, e che qualcuno aveva buttato. Emin li recupera, li fonde con il bronzo e li dissemina per le strade e le spiagge di Folkestone. Inchiodati al marciapiede o su una panchina (alcuni sono così piccoli che stanno in una mano) sono l’eco metallica di ciò che forse non è mai accaduto, ma che merita memoria.

Tracey Emin, Baby Things, 2008. Images courtesy Tracey Emin studio

“La salvezza è perdono, e per essere perdonati la cosa più forte che puoi fare è perdonare” ci ricorda Emin che nel 2016, dopo la morte della madre, torna a Margate e trasforma l’hotel dei fantasmi di Pansy in un laboratorio del futuro. Acquista anche un vecchio stabilimento balneare, un obitorio dismesso e un asilo nido, e i bagnanti di un tempo, i morti in attesa e i bambini dimenticati accolgono adesso i ragazzi e le ragazze che a Margate possono studiare gratuitamente grazie alla residenza per artisti, alla scuola d’arte e alla galleria che Emin ha creato e finanziato. “È la prima volta, nella mia vita, che realmente sento cosa sto facendo e cosa sono e perché sono qui”. La ragazza in fuga è diventata la madre artistica per tutte quelle figlie e quei figli che hanno bisogno di un riparo.

Se vi capita di passare per Londra, fate un salto alla National Portrait Gallery e cercate l’installazione The Doors di Emin: trovarla è molto facile, si tratta di tre imponenti porte in bronzo alte più di quattro metri e decorate con pannelli in bassorilievo che raffigurano 45 volti di donne. Nessun viso mitologico o riconoscibile: non sono ritratti, ma evocazioni. “Voglio che la gente si fermi davanti alle porte e dica: somiglia a mia madre, alla mia migliore amica, a mia figlia”, ha detto Emin che, in mezzo a quei volti, ha inciso un’unica parola: “Mum”.

Chiara Tagliaferri. Il suo romanzo Strega comanda colore, è uscito nel 2022 per Mondadori. È autrice con Michela Murgia dei libri Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe (Mondadori, 2019), Morgana. L’uomo ricco sono io (Mondadori, 2021), e Morgana. Il corpo della madre (Mondadori, 2024) ispirati dall’omonimo podcast di culto della piattaforma Storielibere.fm.

In copertina: Tracey Emin. I do not expect (det.), 2002. Art Gallery of New South Wales © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Di lune, gatti, pelle aperta: la rivincita poetica di Tracey Emin di Jonathan Bazzi

Mi riprometto di prendere appunti tra le sale di Palazzo Strozzi, ma finirò per scrivere solo una frase nelle note del telefono. Continuare ad amare quando le condizioni si fanno estreme, insopportabili. Attraverso e dopo la violenza, la disgrazia, le menomazioni, tutta l’opera di Tracey Emin sembra fare un po’ questo: dimostrare che ci sono modi – speciali, sempre da scoprire – per rispondere al male subito/capitato, per appropriarsi dei deragliamenti e dei colpi, reinterpretarli, dar loro una forma nuova, nostra, ostinatamente sentimentale.

Tracey Emin. I whisper to my past do I have another choice, 2013. Courtesy of the Artist and White Cube © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

L’arte di Emin, testimonianza di una vitalità sfacciata, ingloba nel bisogno d’amore anche ciò che si pone come opposto al sentimento amoroso: l’aggressione, la perdita, il rifiuto, la solitudine. Essere talmente pieni di questo bisogno da riuscire ad appagarlo da soli, persino nel vuoto. Un esorcismo – come il titolo di uno dei suoi progetti più noti – che porta nel mondo condiviso i demoni privati, li mette su tela, bronzo, neon, tessuto, per liberarli, liberarsi, ma anche allestire un’occasione di rielaborazione collettiva. Gran parte delle nostre sofferenze emotive non nasce forse dall’asfissiante convivenza con vissuti che sentiamo di non poter ammettere, raccontare, esporre? Emin sembra aver capito molto presto che la sopravvivenza, e la rinascita, hanno a che fare, dunque, col movimento opposto. Spalancare la pelle e lasciare che tutto diventi visibile. Trovare nello sguardo altrui la ragione per andare avanti, trasformando in racconto, dedica, urlo la brutalità degli eventi. Rendere ammaliante, carismatico, ciò che, a un certo punto, ha cercato di ucciderci. Non darla vinta al condizionamento, allo stereotipo, al modo pigro, abituale e feroce con cui giudichiamo la nostra vita e quella degli altri.

C’è una resistenza felina in Tracey Emin, e non a caso i suoi due gatti, Teacup e Pancake, le cui foto affollano il profilo Instagram dell’artista, sembrano essere le sue persone preferite al mondo. Un’arte felina e lunare, proprio nel senso di governata dal corpo celeste associato al femminile e al materno, alla memoria e all’autoconservazione. Luna che torna, nei titoli e nelle iconografie di Emin (il satellite terrestre che diventa l’aureola che santifica chi ne ha passate tante), ricordando allo spettatore davanti a queste opere che, attraverso di esse, ci si addentra in un regno altro. Implicito, latente, pieno di sorprese. Un regno in cui la forza e il potere non hanno il volto (impositivo, aggressivo, maschile) a cui siamo abituati, ma hanno invece a che fare con la capacità interiore, istintuale e misteriosa di accogliere, inglobare a dismisura il reale, elaborandolo in forme e visioni nuove, fino a generare un universo – affettivo, artistico – inedito e seducente. Così da riuscire a ottenere, alla fine, forse, chissà, almeno un po’ di quell’amore inizialmente negato.

Tracey Emin. Humiliated, 2013. Courtesy of the Artist and Galleria Lorcan O’ Neill © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

I lavori di Tracey Emin sono una traslazione psichica, un’invenzione che ha il senso di una rivincita: è come se lo schifo, la vergogna e la sfiga venissero resi oggetti di una slavina, una valanga, e, nel cadere a valle, dalle cime solitarie delle prove della vita, diventassero non più respingenti e terrorizzanti ma, al contrario, fascinosi, ammalianti. La bambina protetta che non è stata, la madre che non ha potuto essere, il corpo inviolato che non è mai esistito: lo spirito di Emin attraversa queste mancanze, barcolla, a volte s’arresta (smette di dipingere per anni, l’attività vitale ristretta ai confini del letto) ma non è mai vinto, annientato. Attraversa queste mancanze e annota, descrive, ritrae. C’è un occhio, essenzialmente, che non smette di guardare/guardarsi: ecco il gesto che prepara la rielaborazione e rende artisti. Lo spazio vuoto, il deserto esistenziale, dunque si popola, si riempie delle presenze che lei stessa si crea attorno: i grandi dipinti che insieme celebrano e dissacrano il sesso, le parole lucenti delle installazioni al neon e quelle tenere e struggenti dei ricami, la vulnerabilità monumentale dei corpi in bronzo. La grande lezione dell’artista inglese è che fragilità e potenza in realtà non sono opposte, incompatibili: se siamo disposti a restare in contatto con ciò che sentiamo, se abbiamo la fiducia di riconoscere che ogni giorno è una storia diversa, il danno smette di essere solo tale. Diviene esso stesso farmaco, sortilegio, sigillo di protezione.

Tracey Emin. You have no idea how safe you make me feel, 2013. Courtesy of the Artist and White Cube © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

L’arte di Tracy Emin è candida e oscena insieme, vive oltre le partizioni morali, ha la purezza scandalosa di chi ha trovato le sue, singolarissime tecniche di salvezza. Crescendo veniamo spinti a ricoprire di strati/inibizioni quello che sentiamo: nelle opere di Emin irrompe invece la bambina spudorata che lancia quelle che ci fanno l’effetto di bombe emotive. Non avendo reciso il legame col fondo incandescente delle verità psichiche, Emin è libera di irrorare di energie sempre nuove i suoi lavori, con provocazioni testuali e visive che sono poi, a ben vedere, semplici atti di fedeltà al sentire.

Camminando tra le sale della mostra, l’impressione è quella di una caotica coerenza: l’impulso esplorativo ha impedito a Emin di organizzare la sua ricerca in una direzione univoca ma, allo stesso tempo, i tanti esperimenti di tecniche e linguaggi tramano tra loro, istituendo un’atmosfera intima dentro la quale riverbera, tenue e insieme maestosa, la voce dell’artista. Che nulla vuole ottenere e dimostrare, se non la capacità di imprimere il suo stile, la sua cifra, al resoconto di picchi e crolli.

Tracey Emin. There is nothing left but you, 2013. Courtesy of the Artist and Galleria Lorcan O’ Neill © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Mi sono fermato a lungo davanti ai cinque blocchi bianchi (bronzo patinato) del 2013, al centro dell’ottava sala: le mie opere preferite tra quelle esposte. Mattoni o piedistalli o saponette (immagino, invento), sormontati da miniature di animali selvatici – un cervo, un cigno, una volpe – e corpi femminili. Le superfici incise con frasi tracciate a mano, che Emin descrive come “lettere d’amore scolpite”.

Una nuvola di sangue una nebbiolina invisibile.

Sussurro al mio passato ho un’altra scelta.

Umiliata.

Non hai idea di quanto tu mi faccia sentire al sicuro.

Non c’è più niente tranne te.

(traduzioni mie)

Il gioco e il dramma, l’infanzia e la natura, la scrittura e le piccole cose, il senso di protezione e gli animali amati, la materia più accessibile, tangibile, e la trascendenza: è tutto qui.

Jonathan Bazzi, scrittore milanese, classe 1985, ha esordito nel 2019 con Febbre (Fandango), finalista al Premio Strega 2020. Nel 2022 ha pubblicato Corpi minori (Mondadori). Autore di racconti inclusi in diverse antologie, collabora col Corriere della sera e Domani.

In copertina: Tracey Emin. A cloud of blood an invisible mist (det.), Courtesy of the Artist and White CubeTracey Emin. Tracey Emin. Humiliated (det.), 2013. Courtesy of the Artist and Galleria Lorcan O’ Neill © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Una nuova fase di Arturo Galansino

Nel marzo del 2020, mentre il mondo si trovava sospeso in un tempo incerto, nasceva In Contatto, un ponte virtuale tra Palazzo Strozzi e i suoi pubblici. Il blog del nostro sito web si è trasformato in un luogo di riflessione e condivisione in cui l’arte è diventata una chiave di lettura del presente e uno strumento per immaginare nuovi futuri. Quel primo ciclo di articoli, nato in risposta all’isolamento imposto dalla pandemia, ha dimostrato come il dialogo con le opere, gli artisti e le idee possa trascendere i confini fisici, trasformandosi in esperienza di riflessione collettiva.

Nel tempo, In Contatto ha continuato a evolversi, attraversando nuove fasi e adattandosi alle sfide e alle opportunità del presente. È stato uno spazio di approfondimento e sperimentazione, in cui la voce dell’istituzione si è intrecciata con quella di curatori, ricercatori, professionisti, ma anche di giornalisti, scienziati e artisti, arricchendo il racconto delle mostre e dei progetti di Palazzo Strozzi.

Tomás Saraceno. Aria, Palazzo Strozzi, Firenze, 2020. Foto Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Oggi, il blog si rinnova ancora una volta. Dal 19 febbraio 2025, In Contatto inaugura una nuova fase, rafforzando il suo ruolo di piattaforma di connessione tra la nostra istituzione e le persone che lo vivono, lo visitano o semplicemente lo osservano da lontano. Palazzo Strozzi diventa un crocevia di esperienze, un luogo in cui le voci si moltiplicano e i punti di vista si intrecciano.

Questa trasformazione si traduce in un ampliamento delle prospettive e dei contenuti, che continueranno a ruotare attorno alle mostre e ai progetti di Palazzo Strozzi, ma con un respiro ancora più ampio. Gli articoli esploreranno le opere e le poetiche degli artisti, mettendole in relazione con contesti culturali, storici e sociali sempre diversi. Approfondimenti inediti si affiancheranno a racconti personali, interviste e dialoghi con figure del mondo dell’arte e della cultura, in un mosaico di narrazioni che riflettono la complessità del contemporaneo.

Il cuore di In Contatto rimane il suo essere uno spazio aperto e condiviso, capace di accogliere sguardi molteplici e di creare connessioni. Il blog non è solo un archivio di idee, ma un luogo vivo, in cui il pensiero sull’arte si fa esperienza condivisa. Qui troveranno spazio riflessioni critiche, suggestioni poetiche, racconti di esperienze personali e incursioni nei processi creativi, mantenendo sempre saldo il legame tra il Palazzo, i suoi visitatori e il mondo che lo circonda.

Palazzo Strozzi, Firenze. Foto Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Con questa nuova fase, In Contatto si propone come un osservatorio in continuo movimento, un laboratorio di idee che si alimenta dell’incontro tra chi crea l’arte, chi la racconta e chi la vive. Perché l’arte è, in primo luogo, relazione: con lo spazio, con il tempo e, soprattutto, con le persone. Ed è proprio attraverso questa rete di connessioni che il blog continua a crescere, fedele alla sua identità originaria ma sempre pronto a esplorare nuove direzioni. Benvenuti in questa nuova fase di In Contatto: uno spazio per pensare, scoprire, confrontarsi. Un luogo per rimanere – sempre di più – in contatto.

In copertina: Palazzo Strozzi, Firenze. Foto Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Il Tour de France passa da Palazzo Strozzi Sabato 29 giugno il Grand Départ passa da via Strozzi

Per la prima volta nella sua storia, il Tour de France partirà dall’Italia con tre giornate speciali dal 27 al 29 giugno 2024 a Firenze. Anche Palazzo Strozzi è incluso nell’itinerario del Grand Départ fissato per sabato 29 giugno 2024: un evento di rilevanza mondiale che vedrà i ciclisti attraversare il cuore della città, coinvolgendo buona parte del centro storico.

La carovana partirà dal Villaggio presso il Parco delle Cascine all’incirca alle ore 12.00 in modalità non competitiva e raggiungerà piazza della Signoria, dove si fermerà per uno avvio istituzionale, prima di iniziare il vero e proprio percorso di gara di 206 km che da Firenze porterà i ciclisti fino a Rimini.

Accesso a Palazzo Strozzi il 29 giugno 2024

Il percorso del Tour de France del 29 giugno 2024 interesserà buona parte del centro di Firenze, inclusa via Strozzi, adiacente a Palazzo Strozzi. Per garantire il passaggio degli atleti e la sicurezza degli spettatori, l’intera via Strozzi e i suoi marciapiedi rimarranno interdetti al passaggio per tutta la durata dell’evento. All’incrocio tra via Strozzi e via Tornabuoni sarà garantito uno dei varchi pedonali di attraversamento del percorso di gara.

Dalla mattina di sabato 29 giugno 2024 e fino alla fine della manifestazione, il portone di via Strozzi rimarrà chiuso. L’accesso a Palazzo Strozzi sarà possibile esclusivamente attraverso i portoni di via Tornabuoni e piazza Strozzi.

La mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti rimarrà aperta con il consueto orario dalle 10.00 alle 20.00 (ultimo ingresso un’ora prima della chiusura).

Consigli utili in occasione del Grand Départ

Il Grand Départ del Tour de France è un evento eccezionale che attrae appassionati di ciclismo e curiosi da tutto il mondo. Dal 27 al 30 giugno 2024, la viabilità del centro storico subirà notevoli modifiche e il flusso di persone può essere notevole.

Per visitare la mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti consigliamo di:
– utilizzare i mezzi pubblici e prediligere gli spostamenti a piedi
per raggiungere Palazzo Strozzi, poiché il traffico veicolare sarà fortemente limitato;
– considerare maggior tempo di percorrenza per raggiungere la mostra e di arrivare da via Tornabuoni o piazza Strozzi;
– seguire le informazioni sui canali ufficiali del Comune di Firenze e del Grand Départ del Tour de France per ulteriori modifiche e variazioni.

Ci scusiamo per eventuali disagi nei giorni del Grand Départ e vi ringraziamo per la comprensione. Non vediamo l’ora di accogliervi a Palazzo Strozzi e di contribuire allo spettacolo imperdibile della corsa ciclistica più famosa al mondo.

I disastri della guerra

A monito degli orrori della guerra che colpiscono le persone, ma possono colpire anche le opere d’arte, vogliamo pubblicare queste immagini di due sculture che hanno subito l’oltraggio di danneggiamenti gravissimi durante le fasi terminali della Seconda Guerra Mondiale.

L’allora Kaiser-Friedrich-Museum (oggi Bode-Museum), venne devastato dai bombardamenti aerei. Due importantissime Madonne col Bambino di Donatello in terracotta che saranno esposte a Palazzo Strozzi erano state evacuate prima in un bunker, ma subirono due terribili incendi nel maggio 1945 e furono ridotte in pezzi.

Portate a Leningrado, sono state restaurate alla metà degli anni Cinquanta e in seguito restituite alla Repubblica Democratica Tedesca, tornando nel settore Est di Berlino solo nel 1958.

Prima della Seconda Guerra Mondiale questo rilievo era ancora magnificamente policromato, come attesta una foto pubblicata da Wilhelm von Bode nel 1923. Gli incendi nel maggio 1945 causarono notevoli danni all’opera, compresa la perdita della policromia (a parte qualche traccia sulla manica della Vergine). Questo trauma ha però reso evidente la modellazione dell’argilla, il cui virtuosismo rende indiscutibile l’attribuzione a Donatello. L’ultimo restauro risale al 2018 grazie alla Fondazione d’Arte Ernst von Siemens.

Crediti: Berlino, Staatliche Museen, Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst. Archiv (foto antiche); A. Voigt (foto moderne).

Il successo di American Art 1961-2001

Si è conclusa domenica 29 agosto la mostra American Art 1961-2001. Da Andy Warhol a Kara Walker, uno straordinario viaggio alla scoperta dell’arte moderna degli Stati Uniti a cura di Vincenzo de Bellis e Arturo Galansino, realizzata grazie alla collaborazione con il Walker Art Center di Minneapolis. In appena tre mesi di apertura e nonostante le limitazioni dovute alla situazione sanitaria, la mostra ha raggiunto la cifra di oltre 55.000 visitatori. Questo straordinario successo (assieme alla dirompente arte pubblica di JR) dimostra la forza dell’arte e della cultura anche in un momento di forte difficoltà e incertezza come quello che stiamo vivendo e pone Palazzo Strozzi come un punto di riferimento nel dibattito artistico e culturale a livello nazionale e internazionale.

American Art 1961-2001, exhibition view, Palazzo Strozzi, Firenze, 2021. © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

I nostri visitatori

Dalle analisi sul pubblico di American Art 1961-2001 emergono dati importanti come la partecipazione record dei giovani e l’importante coinvolgimento del pubblico locale, ma anche la conferma della capacità di Palazzo Strozzi di proporre un’offerta in grado di contribuire all’attrazione del turismo italiano e straniero.

Il 46% del pubblico della mostra è costituito da abitanti dell’area metropolitana di Firenze, un dato che testimonia come Palazzo Strozzi rappresenti un imprescindibile punto di riferimento per la vita culturale della città. Tuttavia, Palazzo Strozzi è anche riuscito a mantenere un ruolo primario nella valorizzazione del territorio come meta per il pubblico nazionale e internazionale. Sono stati infatti circa 30.000 i visitatori non locali, italiani e stranieri, di cui oltre 20.000 si sono recati a Firenze appositamente per visitare la mostra, generando un importante impatto sull’economia locale.

In generale si conferma altissimo il gradimento espresso dai visitatori, con il 97% del pubblico che si dichiara soddisfatto dell’esperienza.

American Art 1961-2001, exhibition view, Palazzo Strozzi, Firenze, 2021. © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

Un pubblico sempre più giovane e social

Dato rilevante della mostra American Art 1961-2001 è la grande partecipazione del pubblico under 30, pari al 40% del totale dei visitatori. Grazie alla collaborazione degli studenti coinvolti nel progetto Plurals (Alternanza Scuola-Lavoro) è stata realizzata un’indagine specifica che ha evidenziato alcuni tratti e caratteristiche significativi di questo target di pubblico: il 50% dei visitatori under 30 ha visitato Palazzo Strozzi per la prima volta in occasione di questa mostra e il gradimento positivo si attesta al 96%. Il 70% di loro vorrebbe essere attivamente coinvolto nella realizzazione di progetti futuri con Palazzo Strozzi.

I canali web e social sono stati i principali veicoli di informazioni sulla mostra e condivisione dell’esperienza di visita: l’80% degli intervistati hanno scattato fotografie per condividerle online. Questo dato registrato tra i nostri visitatori più giovani conferma il trend generale sull’utilizzo dei social media e, nello specifico, l’interazione con i nostri canali online. Nel periodo tra febbraio e agosto 2021, infatti, l’engagement online del pubblico attraverso i social e il sito di Palazzo Strozzi è stato straordinario: oltre 3 milioni di profili individuali coinvolti su Facebook (con più di 250mila interazioni dirette), quasi 2 milioni di account Instagram raggiunti e oltre 200mila singoli utenti del sito palazzostrozzi.org.

Plurals, il progetto di Alternanza Scuola-Lavoro. © Foto Giulia Del Vento
Plurals, il progetto di Alternanza Scuola-Lavoro. © Foto Giulia Del Vento

Le attività: relazioni in presenza e online

Sono state numerose le attività legate alla mostra, realizzate in presenza o in versione online, mantenendo costante l’offerta rivolta a differenti target di pubblici che caratterizza da sempre lo spirito audience oriented di Palazzo Strozzi.

Il Kit Famiglie e il nuovo Kit Teenager, disponibili in una rinnovata doppia versione fisica e online, sono stati usati 5mila volte, offrendo così a bambini e adulti un’importante chiave per visitare mostra in modo divertente e creativo. I laboratori per le famiglie e l’Art Camp (gli speciali centri estivi realizzati a Palazzo Strozzi in collaborazione con artisti) hanno coinvolto in tutto un centinaio di bambini e ragazzi che hanno così potuto avere un rapporto privilegiato con l’arte.

Laboratori per famiglie in occasione della mostra American Art 1961-2001. © Foto Giulia Del Vento
Laboratori per famiglie in occasione della mostra American Art 1961-2001. © Foto Giulia Del Vento

American Art 1961-2001 è stata anche un’occasione per conoscere in modo più profondo e ampio la grande arte americana. Grazie ad un ampio variegato di approfondimenti per i visitatori (realizzati in mostra e attraverso Zoom sui protagonisti della mostra e le loro opere) e ad una serie di progetti che hanno visto la collaborazione con le università e le accademie del territorio fiorentino, Palazzo Strozzi ha coinvolto centinaia di persone in tutti i canali e modalità possibili.

A tutto ciò si sono affiancate le attività dedicate all’accessibilità. Mantenendo una modalità ibrida, sia in presenza che da remoto, i progetti sono riusciti a coinvolgere anche i pubblici più fragili, come le persone che vivono con l’Alzheimer o con il Parkinson.

A più voci in occasione della mostra American Art 1961-2001. © Foto Giulia Del Vento
Corpo libero in occasione della mostra American Art 1961-2001. © Foto Giulia Del Vento

American Art 1961-2001: una sfida vinta

Vincenzo de Bellis (Curator and Associate Director of Programs, Visual Arts, Walker Art Center) spiega così il successo della mostra: «L’organizzazione di American Art 1961-2001 è stata stimolante e complessa allo stesso tempo. La movimentazione di così tanti capolavori durante alcuni dei mesi più intensi della pandemia ha messo a dura prova sia il Walker Art Center sia Palazzo Strozzi. Il successo di pubblico ripaga i grandi sforzi messi in atto. La forza delle opere e la scelta di raccontare l’arte americana mettendo in luce anche gli aspetti più critici della cultura di questo paese – fatto sia di grandi successi che di contraddizioni – è stata la scintilla che suscitato così tanto interesse nei nostri visitatori».

American Art 1961-2001, exhibition view, Palazzo Strozzi, Firenze, 2021. © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

L’America nei diari

Per il Fuorimostra di American Art 1961-2001 sono stati selezionati ventuno luoghi in Toscana capaci di narrare o evocare la vita e l’arte statunitense. Tra questi, nel Piccolo museo del diario di Pieve Santo Stefano – attraverso le memorie raccolte dall’Archivio diaristico nazionale – sono narrate in modo vivido le storie di quanti hanno vissuto o hanno avuto rapporti con gli Stati Uniti. Alice Belfiore ha selezionato per Palazzo Strozzi alcuni brevi, ma straordinari, ricordi.

Esistono testi preziosi e intimi, animati dalla voglia di raccontare e confidarsi. Storie coraggiose, dense di emozioni, in cerca di un futuro florido da garantire ai propri cari o semplicemente a se stessi. Sono le storie di tanti italiani che nel tempo si sono avventurati verso terre lontane per cercare fortuna, amore, avventure o arricchire il proprio bagaglio culturale.
Molte di queste storie le troviamo all’interno del Piccolo museo del diario di Pieve Santo Stefano, un borgo che durante la Seconda guerra mondiale venne raso al suolo dai soldati tedeschi in ritirata, nel tentativo di cancellarne la memoria. Fu proprio da queste ceneri che risorgerà come una fenice una casa della memoria collettiva italiana: l’Archivio diaristico nazionale, fondato nel 1984 dal giornalista e scrittore Saverio Tutino per raccogliere e conservare diari, memorie, epistolari della gente comune.

Alcuni quaderni conservati all’interno dell’Archivio dei diari, foto Luigi Burroni

Molti anni più tardi, nel 2013, per dare modo a tutti di scoprire, leggere e ascoltare queste storie, venne aperto il Piccolo museo del diario, diventato sin da subito la tappa prediletta da quanti interessati a scoprire una parte insolita della nostra storia. Si tratta di un museo molto piccolo, ma allo stesso tempo potenzialmente infinito, grazie agli strumenti digitali: le storie che qui sono raccolte e raccontate sono quelle conservate in Archivio, ma sono state appositamente digitalizzate così da renderle facilmente fruibili, intercambiabili e sostituibili.
Chi entra nel museo, decide di accogliere nella propria vita le storie di queste persone come atto di conoscenza e amore del nostro passato, come – in occasione della mostra American Art 1961-2001 – le testimonianze dei diaristi che hanno vissuto un periodo negli Stati Uniti o che hanno avuto una relazione con il Paese tra il 1961 e il 2001.

Tommaso Bordonaro, contadino siciliano, descrive la “spartenza” dall’Italia nel 1947 utilizzando una lingua impastata di vocaboli dialettali e inglesi, tanto sgrammaticata quanto autentica. Emozionante la parte in cui, dalla nave, intravede la Statua della Libertà:

Io sono stato fino alle 23 in guardia di vedere di più, così ho visto la illuminazione: era una bellissima veduta. Alle ore una di notte del 27 abiamo arrivati quasi alla statua, e che si vedi una belleza! Una illuminazione bellissima. Le nave chi va chi vieni tutti illuminati: una veduta per me mai vista. La mattina alle ore 5 abiamo passato la statua e ci siamo entrati in porto con la Marine Shark. La emuzione era forte a vedere, con quella neve che il freddo era tremente, tutta quella genti che chiamava chi un nome chi un altro, chi piangeva, chi gridava, tutte quel macchine, chi correva, chi fischiava, insomma una folla immensa, chi non conosceva la sua famiglia e una veduta di palazi che facevano impressione a guardarli, macchine, villi che pareva veramente il paradiso che noi non abiamo ancora visto.

Il diario di Tommaso Bordonaro, foto di Luigi Burroni

Salvatore Di Biase ci regala uno spaccato di vita americana negli anni del New Deal:

“Arrivarono le election day, andai ha votare mi sentivo tutto orgoglioso di andare a votare, era tutto diverso, a New York e come quasi tutti gli stati uniti si votava senza scheda con pulsanti automatici, era molto semplice, una cosa da niente tutto fatto. La sera già si sapeva che aveva vinto Kennedy”.

Un percorso storico ricostruito attraverso le memorie di chi, nonostante le difficoltà, riesce a coronare il sogno di visitare l’America di Jack Kerouac e del celebre romanzo On the Road, una delle letture predilette da Gloria Bartolotti che, nel 1978, scrive:

Ma quella era l’ultima occasione per visitare il paese che ci era venuto in casa nell’età dell’adolescenza con la letteratura e la poesia beat (…) stavo per andare in America come una solitaria pellegrina del Maiflower, come una pioniera dell’avventura. «Almeno terrò un diario!»

Andrea Luschi, nel 1996, affida al diario la cronaca minuziosa del viaggio effettuato in Florida insieme ai figli per assistere al lancio di una navicella spaziale:

Alle 15:18, in perfetto orario sulla tabella di marcia, scorgiamo in lontananza una nuvola di fumo che segnala l’accensione dei motori di Columbia; lo shuttle si alza lentamente verso il cielo, con una fiammata ed un rombo di tuono che mano a mano aumenta di intensità (…) Via via che Columbia sale verso il cielo, aumenta la mia commozione e non posso fare a meno di farmi scappare qualche lacrima di gioia per aver visto realizzato un mio grande sogno .

Qualche anno più avanti l’evento che sconvolse il mondo intero: l’11 settembre 2001. Maria Pia Farneti, dall’animo inquieto e creativo, compone dei disegni che per sempre imprimeranno questa data.

Maria Pia Farneti, foto di Luigi Burroni

Alcune di queste testimonianze si animeranno in un video composto da immagini e voci di attori che interpreteranno le emozioni dei diaristi, visibile, dai primi di agosto, sui canali social del Piccolo museo del diario e online nei canali dell’Archivio dei diari.

All’interno del Piccolo museo del diario tutti possono immergersi nei ricordi intimi e descrittivi di un passato che vivrà per sempre, e che continuerà ad alimentarsi attraverso la sensibilità di chi deciderà di raccontarsi e raccontare.

In copertina: Piccolo museo del diario, foto Luigi Burroni

Servire il futuro: Peggy Guggenheim e l’arte americana

La Collezione Peggy Guggenheim ospita a Palazzo Venier dei Leoni a Venezia una delle collezioni di arte moderna e contemporanea del XX secolo più importanti al mondo. Già protagonista della mostra Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim, con il suo mecenatismo Peggy Guggenheim ha saputo riunire attorno a sé i più grandi artisti dell’epoca, portandoli alla fama negli Stati Uniti che in Europa. Gražina Subelytė (Associate Curator della Collezione Peggy Guggenheim), in occasione della mostra American Art 1961-2001, sottolinea l’importanza del collezionismo della filantropa americana e di come abbia influenzato l’arte d’oltreoceano, e non solo, per gli anni a venire.

Dopo essere fuggita dalla Francia occupata dai nazisti e aver fatto ritorno, nell’estate del 1941, nella natia New York, nell’ottobre del 1942 Peggy Guggenheim apre il suo museo/galleria Art of This Century, e nel comunicato stampa afferma: “Questa impresa avrà raggiunto il suo obiettivo solo se riuscirà a servire il futuro invece di registrare il passato”. Di fatto Art of This Century diventa ben presto il luogo più innovativo e stimolante dove poter assistere alle più recenti sperimentazioni artistiche.

Joseph Cornell, Untitled (Canis Major Constellation), 1960 circa,  legno, vetro, sughero, gomma, metallo, sabbia, carta, pittura cm 19,4 × 32,9 × 8,9. Minneapolis, Walker Art Center. Art © The Joseph and Robert Cornell Memorial Foundation By SIAE 2020

La prima mostra temporanea qui organizzata comprende delle bottiglie di Laurence Vail, artista Dada e primo marito di Peggy Guggenheim, e delle scatole magiche dell’americano Joseph Cornell, alcune delle quali oggi esposte alla Collezione Peggy Guggenheim, a Venezia. Cornell raccoglieva oggetti disparati che poi assemblava in composizioni tematicamente coerenti. Il suo archivio, una sorta di gabinetto delle curiosità, comprendeva migliaia di oggetti, anche effimeri, raccolti nell’arco di una vita. Appassionato narratore, riusciva a trovare un’unità di fondo nella diversità ed era inoltre profondamente affascinato e influenzato dal cosmo e dall’astronomia, come emerge da alcune sue opere, quali Untitled (Canis Major Constellation) (c. 1960), e Eclipsing Binary, Algol, with Magnitude Changes (c. 1965), esposte nella mostra American Art 1961-2001.

Marcel Duchamp, Scatola in una valigia (Boîte-en-Valise), 1941, cm 40,7 x 37,2 x 10,1. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, New York). Photo Matteo De Fina

Accanto alle creazioni di Vail e Cornell, quella prima esposizione ad Art of This Century include anche Scatola in una valigia (1941) di Marcel Duchamp, amico e fedele consigliere di Peggy. Questa valigetta da viaggio, che la collezionista porta con sé dall’Europa, raccoglie 69 riproduzioni di opere dell’artista create prima del 1935 e un “originale”. Tra le riproduzioni figurano, ad esempio, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche (Il grande vetro) e alcuni dei più celebri ready-made, come una miniatura dell’orinatoio rovesciato, Fontana, del 1917. Simile alla valigetta di un rappresentante, la “scatola” simula perfettamente, e in scala, l’ambiente di una stanza. Realizzata poco prima che Duchamp si trasferisse a New York durante la seconda guerra mondiale, la “scatola” diventa il modo in cui poter conservare in forma simbolica, in una sorta di piccolo museo portatile, una selezione in miniatura dei lavori. Insieme alle opere della collezione di arte cubista, astratta e surrealista della mecenate americana, lo spirito rivoluzionario delle creazioni di Duchamp, come la nozione stessa di ready-made, esercita una grande influenza sulle generazioni a venire degli artisti d’oltreoceano. Nella mostra American Art 1961-2001, tale aspetto emerge ad esempio nelle opere di artisti come Sherrie Levine, con la sua Fountain (1991), Andy Warhol con Campbell’s Tomato Juice Box (1964), Robert Rauschenberg con décor for Minutiae (1954/76), Jasper Johns con Set Elements for Walkaround Time (1968).

Mark Rothko, Sacrificio (Sacrifice), aprile 1946, acquerello, guazzo e inchiostro di china su carta, cm 100,2 x 65,8. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, New York)

Soprattutto, Art of This Century (1942-1947) serve il futuro invece di registrare il passato, andando a esporre molti giovani artisti americani allora sconosciuti, tra cui Jackson Pollock, Mark Rothko e Clyfford Still, le cui opere sono tuttora esposte a Venezia. All’epoca il lavoro di Rothko era ancora figurativo e carico di valenze mitologiche di matrice surrealista, ma alla fine degli anni ’40 volge alla completa astrazione, contribuendo allo sviluppo della pittura Color Field, basata su ampie campiture di colore, come si osserva nel suo dipinto No. 2 (1963), attualmente in mostra a Palazzo Strozzi.

Mark Rothko,  No. 2, 1963, olio, acrilico e colla su tela, cm 203,8 x 175,6.  Minneapolis, Walker Art Center © 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko / ARS, New York
American Art 1961-2001
, exhibition view Palazzo Strozzi, Firenze, 2021.© photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

Grazie a Peggy Guggenheim, il lavoro di questa nuova generazione di artisti americani viene presentato per la prima volta al di fuori dagli Stati Uniti in occasione della Biennale di Venezia del 1948, dove la mecenate viene invitata a presentare la sua collezione negli spazi del Padiglione greco, allora vuoto a causa della guerra civile che imperversava in Grecia. È la prima volta che in Italia viene esposta una raccolta così esaustiva di arte moderna. Ma il padiglione di Peggy Guggenheim assume un’importanza ancora maggiore, poiché quell’anno il Padiglione degli Stati Uniti apre in ritardo, diverse settimane dopo, e così è il suo padiglione a rappresentare in qualche modo il paese durante l’inaugurazione e ad accogliere l’allora ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, James Dunn.

Jackson Pollock, Alchimia (Alchemy), 1947, olio, pittura d’alluminio, smalto alchidico con sabbia, sassolini, filati e bastoncini spezzati di legno su tela, cm 114,6 x 221,3. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, New York)

Al termine della Biennale, la collezione di Peggy Guggenheim attraversa una fase “nomade” che dura circa due anni, durante la quale viene esposta anche a Palazzo Strozzi, nel 1949, dove sono presentate anche Scatola in una valigia di Duchamp e opere di artisti americani come Robert Motherwell, Pollock e Rothko. La mecenate continua a promuovere Pollock e nel 1950 organizza una sua personale nell’Ala Napoleonica del Museo Correr, in piazza San Marco a Venezia. Si tratta della prima personale dell’artista al di fuori degli Stati Uniti e vi sono esposti anche dieci suoi dripping. Suscita shock ed entusiasmo negli artisti italiani di generazioni differenti, dai più anziani ai più giovani, poiché l’idioma visivo astratto di Pollock è senza precedenti e decisamente radicale. E altrettanto radicali e progressisti sono gli sforzi compiuti da Peggy Guggenheim nel sostenere gli artisti americani e nell’introdurli a un nuovo pubblico, garantendo l’importanza e la continuità della loro eredità che, attraverso la contestazione, il cambiamento o l’accettazione, è oggi riflessa nelle opere esposte nella mostra American Art 1961-2001. L’obiettivo di servire il futuro piuttosto che registrare il passato è stato raggiunto.

Gli Amici di Palazzo Strozzi entrano gratuitamente alla Collezione Peggy Guggenheim e i possessori del biglietto di American Art 1961-2001 hanno diritto a un ingresso ridotto al museo veneziano (€ 13 invece di € 15).

I soci della Collezione Peggy Guggenheim entrano gratuitamente a Palazzo Strozzi. I possessori del biglietto della Collezione hanno diritto al biglietto ridotto per la mostra American Art 1961-2001 (€ 12 invece di € 15).

In copertina: Peggy Guggenheim nella sala da pranzo di Palazzo Venier dei Leoni, Venezia, anni ’60. Da sinistra: Vasily Kandinsky, Paesaggio con macchie rosse, n. 2 (Landschaft mit roten Flecken, Nr. 2, 1913); Georges Braque, Il clarinetto (La Clarinette, estate autunno 1912); Giacomo Balla, Velocità astratta + rumore, 1913–14; Louis Marcoussis, L’Habitué (1920); Umberto Boccioni, Dinamismo di un cavallo in corsa + case (1914–15); Albert Gleizes, Donna con animali (Madame Raymond Duchamp-Villon) (La Dame aux bêtes [Madame Raymond Duchamp-Villon]), terminato nel febbraio 1914; tutte le opere sono in Collezione Peggy Guggenheim. Foto Archivio Cameraphoto Epoche. Fondazione Solomon R. Guggenheim, Venezia, Donazione, Cassa di Risparmio di Venezia, 2005.