Una donna di nove metri, nuda e inginocchiata, culla un bambino invisibile dando le spalle al Munch Museum di Oslo. Il suo corpo di bronzo è concentrato nel proteggere quello che gli altri non vedono, ma lei sì. Con The Mother, opera del 2021, Tracey Emin restituisce una madre a chi l’ha persa da piccolo – come Edvard Munch – o da poco – come lei – e al contempo custodisce il ricordo di chi non è mai nato. Le gambe di questa madre ciclopica sono aperte verso il fiordo, divaricate come nell’atto di partorire cosicché tutti, dalla terra e dal mare, possano guardarla.
Le madri sono onde, e spesso si abbattono su di noi come profezie e disgrazie. Sta a noi decidere se farci abbracciare, forse travolgere, o scivolare via da un destino che Goliarda Sapienza definiva “una volontà inconsapevole di continuare quella che per anni ci hanno insinuato, imposto, ripetuto essere la sola giusta strada da seguire”.
Di strade giuste da seguire a Margate – una cittadina costiera del Kent piena di neon, desolazione e spiagge sferzate dal vento – Tracey Emin non ne trova. È incastrata lì con il fratello gemello Paul: la madre Pansy gestisce un hotel che lei ricorderà come “il tipo di posto in cui c’erano più fantasmi che clienti. Crescevamo in mezzo a persone strane, camere sporche, cose che non capivamo. Lei lavorava sempre, ma non c’era mai davvero”.
Come fai a parlare con qualcuno che fa tutto per te, senza esserci per te? Di quegli anni avari, bisognosi e feroci, ricordando la violenza sessuale subita a tredici anni, Emin dirà, “Non era tanto che mi succedessero cose terribili… è che nessuno si accorgeva se succedevano o no”.

Le cose terribili accadono a lei come a tante altre ragazze: vengono abusate e il giorno dopo, a scuola, i compagni di classe dicono “l’hanno rotta la notte scorsa”. Come una bambola. Tracey si ribella al destino che la vuole bambola rotta, e a quindici anni scappa da Margate. È un corpo in rivolta, eccessivo e mancante, lo sarà per tutta la vita e in questa fuga perenne non smetterà mai di parlare con Pansy trasformandola in neon, scultura, stoffa, memoria cucita e ricamata. Non facciamo forse questo con le madri? Le teniamo insieme con gli spilli per impedire loro di sparire, e siamo pronte a incollare i mille pezzi in cui ci riducono senza volerlo.
Nel 2016, Tracey tiene la mano a Pansy per quattro giorni, fino a quando la madre chiude gli occhi. “È stata la cosa più difficile della mia vita”, racconterà.
A Palazzo Strozzi mi sono fermata davanti all’appliquè I do not expect, in cui Emin ha ricamato la maternità e la solitudine cucendo questi versi su stoffa: “Non mi aspetto di essere madre/ Ma mi aspetto di morire sola/ Non deve per forza essere così/ Lei si è spenta come una lampadina da 40 watt/ Il mio cervello è a pezzi/ Amore fino alla fine/ La rivoglio indietro – quella ragazza di 17 anni”.
In un equilibrio impossibile tra vicinanza e distanza, Pansy ora è fuoco fatuo, ma è stata incendio per la figlia che racconta: “Mia madre mi amava moltissimo, ma quando rimase incinta, non si aspettava di avere due gemelli. Andò ad abortire che era all’incirca al terzo mese, e proprio all’ultimo momento, mentre stavano per farle l’anestesia, cambiò idea, si alzò e se ne andò. Questo mi ha fatto capire quanto mia madre mi volesse e, in un certo senso, non mi volesse. Mi ha anche fatto capire quanto volesse rimanere se stessa, quanto tenesse alla sua indipendenza”.

Rimanere noi stesse con un figlio, una figlia, è realmente possibile?
Quando Tracey Emin rimane incinta, nel 1990, non riesce più a dipingere: l’odore della trementina e dei colori a olio la disgusta. Sa che la nausea passerà, ma sa anche che non passerà per lei – come per molte altre donne – la certezza di ritrovarsi con un’identità sbriciolata. Come può conciliare il suo lavoro, la sua arte, con la crescita di un bambino?
Decide di abortire, e sei anni dopo lo racconta davanti a una telecamera. Con How it Feels Emin, che da sempre abbatte il confine tra pubblico e privato, trasforma un’esperienza che di solito si cancella, o si sigilla nel silenzio, in un’opera. Il suo corpo, vulnerabile e potente, ci parla del dolore e della solitudine di una maternità narrata come obbligo, come storia a senso unico. Di nuovo il destino a cui sembriamo condannate.
“Ci sono buoni artisti che hanno figli. Certo che ci sono. Si chiamano uomini”, racconta Emin. Penso a Marina Abramovich e ai suoi tre aborti, alle sue parole quando rivendica che “Ognuno ha un’energia limitata nel proprio corpo e con un bambino so che avrei dovuto dividerla. Sono felice di essere libera. Secondo me c’è una ragione per la quale le donne non hanno successo in campo artistico come gli uomini. Il mondo è pieno di donne talentuose. Perché, allora, gli uomini ricoprono sempre le posizioni più importanti? È semplice. Amore, famiglia, bambini – una donna non vuole sacrificare tutto questo”. Uccidere la vergogna e appenderla alle pareti ha un prezzo: Abramovich e Emin sono state biasimate di aver mercificato il trauma, bollate come assassine, egoiste, narcisiste.

Nello stesso anno in cui Tracey racconta del suo aborto, decide anche di rinchiudersi in un piccolo spazio di una galleria di Stoccolma per il tempo che intercorre tra un ciclo mestruale e l’altro. Dorme su una brandina, nuda. Quando si sveglia, sempre nuda, torna finalmente a dipingere, e lo fa sotto lo sguardo degli spettatori che la possono osservare attraverso lenti grandangolari. Le opere che realizza sono ispirate agli artisti – tutti uomini – da lei amati (Munch, Picasso, Schiele), e in questo gioco di specchi è suo il corpo che mostra e che ritrae. Musa di se stessa, Tracey di quel periodo ricorda “Odiavo il mio corpo: avevo paura di addormentarmi. Stavo soffrendo per il senso di colpa e mi stavo punendo, così mi chiusi in una scatola e mi detti tre settimane e mezzo per risolvere la situazione. E ci riuscii”.
A Palazzo Strozzi ho potuto spiare quella stanza riprodotta in ogni minuscolo dettaglio: la disposizione delle tele, le bottiglie di birra a terra, il lettore con i cd sparpagliati sul pavimento, il letto sfatto. Cercavo il fantasma di una ragazza che con un esorcismo voleva riappropriarsi del proprio corpo, la stessa ragazza che da grande dirà “Non sono una madre. Non sono mai stata una madre e non lo sarò mai. Ma lo sono con la mia arte”.
Tracey Emin madre lo è da sempre, perché ha moltiplicato le possibilità della maternità (negata, perduta, idealizzata) perseverando nell’incertezza, attraversando il mistero e il dubbio, raccogliendo i detriti dell’assenza, donando loro nuova vita. Nel 2008 crea Baby things: le sue “cose da bambini” sono minuscole riproduzioni in bronzo di scarpette per neonati, biberon, guantini, piccoli golfini che non andavano più bene, e che qualcuno aveva buttato. Emin li recupera, li fonde con il bronzo e li dissemina per le strade e le spiagge di Folkestone. Inchiodati al marciapiede o su una panchina (alcuni sono così piccoli che stanno in una mano) sono l’eco metallica di ciò che forse non è mai accaduto, ma che merita memoria.

“La salvezza è perdono, e per essere perdonati la cosa più forte che puoi fare è perdonare” ci ricorda Emin che nel 2016, dopo la morte della madre, torna a Margate e trasforma l’hotel dei fantasmi di Pansy in un laboratorio del futuro. Acquista anche un vecchio stabilimento balneare, un obitorio dismesso e un asilo nido, e i bagnanti di un tempo, i morti in attesa e i bambini dimenticati accolgono adesso i ragazzi e le ragazze che a Margate possono studiare gratuitamente grazie alla residenza per artisti, alla scuola d’arte e alla galleria che Emin ha creato e finanziato. “È la prima volta, nella mia vita, che realmente sento cosa sto facendo e cosa sono e perché sono qui”. La ragazza in fuga è diventata la madre artistica per tutte quelle figlie e quei figli che hanno bisogno di un riparo.
Se vi capita di passare per Londra, fate un salto alla National Portrait Gallery e cercate l’installazione The Doors di Emin: trovarla è molto facile, si tratta di tre imponenti porte in bronzo alte più di quattro metri e decorate con pannelli in bassorilievo che raffigurano 45 volti di donne. Nessun viso mitologico o riconoscibile: non sono ritratti, ma evocazioni. “Voglio che la gente si fermi davanti alle porte e dica: somiglia a mia madre, alla mia migliore amica, a mia figlia”, ha detto Emin che, in mezzo a quei volti, ha inciso un’unica parola: “Mum”.
Chiara Tagliaferri. Il suo romanzo Strega comanda colore, è uscito nel 2022 per Mondadori. È autrice con Michela Murgia dei libri Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe (Mondadori, 2019), Morgana. L’uomo ricco sono io (Mondadori, 2021), e Morgana. Il corpo della madre (Mondadori, 2024) ispirati dall’omonimo podcast di culto della piattaforma Storielibere.fm.
In copertina: Tracey Emin. I do not expect (det.), 2002. Art Gallery of New South Wales © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025